DIRITTO DI REPORTAGE- Il lungo cammino per la libertà: Viaggio in Birmania

4^ PUNTATA – Prima di tornare da Lago Inlay, con i suoi meravigliosi barconi di legno che schivano i caratteristici pescatori con le nasse, ci fermiamo in uno delle centinaia di villaggi costruiti su palafitte, e ci imbattiamo nelle celebri “donne giraffa”, ormai sbiadita testimonianza di un a minoranza presente sul Lago e in altri luoghi della Birmania, con i loro colli allungati a dismisura da pesantissimi monili concentrici che indossano sin da bambine. Danno un po’ la sensazione di fenomeno da baraccone, una sorta di “donna cannone” in salsa birmana ottima per condire foto turistiche velate da uno sguardo di tristezza e malinconia.

Tornando verso Kalaw ci fermiamo al monastero dalle finestre tonde, Swe Yan Pay,dove decine di monaci novizi studiano a gambe incrociate per terra, con il loro Maestro che li guida nella lettura dei sacri libri.

Ma quel che ci aspetta in questi giorni sono i festeggiamenti per la Luna Piena, una sorta di delirio popolare collettivo tra il religioso e il pagano. Meraviglioso a Taungyi. In una spianata piena di migliaia di persone, che ricorda tanto Woodstock, canti, danze, bancarelle, luna park e la meravigliosa follia di lanci di palloni di carta a forma di animali sacri della dimensione di una mongolfiera, alimentati da fiamma.

Vince quello che vola meglio e che ha la foggia più bella e splendente. Con la frequente alternativa che il pallone non parta, si infiammi e piombi tra la gente. Saliamo su un autocarro per riprendere la scena dall’alto, il risultato è entusiasmante. Poi scendo e vengo coinvolto nella danza propiziatoria prima del lancio di una squadra di un paese lì vicino. I folli (ed io) “contradaioli” accompagnano il volo del pallone con canti, tamburi e tanto betel e sputazzi rossi fuoco. Il lancio è vincente, è il delirio. Lo straniero viene chiamato nel cuore del folle festeggiamento, la gioia è incontenibile immortalata dai click dell’otturatore.

Lungo la strada del ritorno verso Taungoo, il giorno successivo, spesso il nostro mezzo viene bloccato dai carri in stile “Carnevale di Viareggio” che sfilano accompagnati da confusi balli e canti per festeggiare la Luna Piena. Nei carri c’è tutto quanto faccia colore e confusione: buste di prodotti del supermercato, magliette di Manchester United e Chelsea, simbolici religiosi buddisti, luci colorate a non finire e quant’altro. La gioia di essere ripresi dalle nostre fotocamere è il miglior premio per lo sforzo di mesi di preparazione alla festa.

Il giorno successivo facciamo una breve sosta a Nay Pyi Taw, costruita dai generali nel 2006 e diventata capitale. Una città in vitro, non c’è storia, solo modernità e richezza per pochi. Per loro. Si sono costruiti la prigione dorata per quando la democrazia invaderà anche la Birmania, spazzando via il Myanmar e quanti lo hanno isolato dal Mondo a loro esclusivo vantaggio. Strade gigantesche in stile highway americane, battute da una macchina ogni due chilometri e un poliziotto a presidio di ogni aiuola o davanti a ogni casa.

Il giro della Birmania sta volgendo al termine. Il giorno successivo ci riportiamo a Yangoon, da dove dovremmo prendere l’aereo. Ci fermiamo lungo il tragitto di 4 ore in una risaia, dove le mondine si stupiscono almeno quanto noi nel vederci lì tutti presi a fare foto.

Il giorno successivo, cioè ora, prima dell’imbarco in aeroporto, sotto un diluvio torrenziale che ci accompagna per tutta la notte, ci fermiamo davanti alla casa di Aung San Suu Kyi. Ed è come chiudere un cerchio da dove era partito il nostro meraviglioso viaggio. Un fitto cancello chiude la vista all’interno. Sulla porta di ingresso della cancellata campeggia una bandiera con il colori della Lega Nazionale per la Democrazia, e un poster con l’effige di suo padre. Il mitico generale Aung San, l’uomo che sognava per la sua Birmania un futuro diverso.

Un futuro che ora, dopo tanti troppi anni di ritardo, forse, è dietro l’angolo. Ma la strada è davvero tanto in salita. E non basterà di certo una visita di Obama per dare una speranza concreta ai milioni di abitanti dei villaggi. Una speranza che sì, anche loro, ce la “possono fare”.

T.R.

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