Musica & Diritto- Il Signor G. Giorgio Gaber, né di destra né di sinistra

“UN’IDEA, UN CONCETTO,UN’IDEA, FINCHE’ RESTA UN’IDEA E’ SOLTANTO UN’ASTRAZIONE. SE POTESSI MANGIARE UN’IDEA, AVREI FATTO LA MIA RIVOLUZIONE” (G.GABER)

di Valentina Copparoni

GABERNel corso degli anni tante etichette sono state attribuite al grande Giorgio Gaber, “anarchico”, “vate dei cani sciolti” e tante altre che in qualche modo hanno cercato di rappresentare  ed in qualche modo di “inscatolare” la sua personalità eccentrica,istrionica, ironica, forse a volte scontrosa ma sempre tesa alla massima espressività. Forse tutte insieme riescono a dare un’immagine più vicina al vero Giorgio Gaber o forse non bastano. Nei suoi spettacoli del “teatro-canzone” che soprattutto nel corso degli anni ’70 hanno percorso in lungo e largo i teatri d’Italia parole, musica, gestualità ed una voce inconfondibile che risuona  in testa anche dopo la fine degli spettacoli sono portati alla massima potenza ed espressione  fondendosi e creando un legame con il pubblico quasi estasiato. I costumi e le abitudini dell’uomo-medio venivano trattati con sagacia, ironia molto personale e  sferzante, quasi tragi-comica.

Il Signor G. Giorgio Gaber (all’anagrafe Giorgio Gaberscik) nasce a Milano il 25 gennaio 1939 da una famiglia veneta. Sin da piccolo la sua salute è abbastanza cagionevole tanto che un infortunio al braccio sinistro gli procura una sorta di paralisi e per curarsi inizia a suonare la chitarra. L’incontro con la musica, seppur dovuto ad una situazione non felice, è subito magia e scintille: qualche anno dopo frequenta già un famoso locale vicino al Duomo di Milano , il Santa Tecla, dove conosce Adriano Celentano ed Enzo Jannacci con cui diventa grande amico. Incontra anche Mogol che gli procura un importante incontro con la casa discografica Ricordi con cui incide il suo primo disco. Inizia poi a suonare in qualche locale e club di periferia cercando di guadagnare qualcosa per frequentare la facoltà di economia che, però, poi in seguito abbandona.
E’ però nei primi anni ‘60 che la sua popolarità comincia a crescere, partecipa a quattro edizioni di Sanremo ma anche a caroselli e programmi televisivi. Di questo periodo “La Ballata Del Cerruti”, “Torpedo Blu”, “Barbera E Champagne” ed ancora “Non Arrossire” e “Le Strade Di Notte”.
A “Canzonissima” del 1969 si presenta con il brano “Com’è Bella La Città”, un inno e quasi una canzone d’amore per la sua  Milano. Pian piano nei suoi testi si presenta sempre più spesso l’impegno politico ma anche  la sensibilità sociale che poi diventeranno linfa vitale per la sua arte. Gaber guarda il mondo in cui vive con un certo distacco, è sempre critico e sente ben presto che forse soltanto il teatro può essere il palcoscenico giusto per lui e ciò che vuole esprimere.
Certamente la scelta del teatro è una scelta che porta con sé un preciso significato, quello di prendere le distanze dalla “piazza” dove inizialmente anche lui si era trovato a condividere idee ed entusiasmo. Politicamente sempre di sinistra, Gaber è sempre rimasto in qualche modo un libero pensatore,  polemico e forse per qualcuno anche scomodo.

E’ nel 1970 che Paolo Grassi lo invita al teatro Piccolo di Milano. Qui nasce il suo “teatro-canzone”. Lo spettacolo  “Il Signor G.” è subito un recital di successo, il primo di una lunga serie con cui lavorerà anche con  l’amico e  collaboratore Sandro Luporini (“Dialogo Tra Un Impiegato E Un Non So”, “Far Finta Di Essere Sani”, “Anche Per Oggi Non Si Vola”, “Libertà Obbligatoria”, “Polli D’allevamento”, “Io Se Fossi Gaber”, “Parlami D’amore Mariù”). Il “Signor G.” è un personaggio che non recita più un ruolo o meglio recita se stesso. Dirà su di lui : “è una persona piena di contraddizioni e di dolori”, un signore come tutti … è un signor Gaber, che sono io, è Luporini, noi, insomma, che tentiamo una specie di spersonalizzazione per identificarci in tanta gente”.
Il Signor G. racconta storie di marginati della società, ma anche di amore, speranza che a volte diventano disillusione che vivono in una Milano che passa dagli anni turbolenti di fine anni ’60 fino ai difficili anni di piombo fino agli anni ’90. Il teatro diventa la sua ragione di vita, non va più in televisione e non incide dischi per molto tempo, ma pubblica le registrazioni dei suoi spettacoli fatti di canzoni, parole e monologhi. Prova anche con la prosa,  in “Il Grigio” e in “Aspettando Godot”, allestito con Jannacci nel 1991. Nel 2001 torna però al mercato discografico con “La Mia Generazione Ha Perso”, disco dai toni se possibili ancora più disillusi e carico di disincanto. Decide di ritornare anche nel piccolo schermo ospite del vecchio amico Celentano.
Nel 200, il 1 gennaio,  la malattia che da lungo tempo affligge  lo porta via e la camera ardente viene allestita al  Piccolo Teatro di via Rovello, un omaggio dovuto ad un grande uomo ed artista; in suo nome e ricorso è stata creata la Fondazione Giorgio Gaber che nel 2004 ha creato anche  il Festival teatro canzone Giorgio Gaber.

Il suo ultimo disco dal titolo eloquente , “Io Non Mi Sento Italiano”, esce  postumo nel 2003. Una sorta di testamento in cui il Signor G. ha racchiuso tutta la sua disillusione ma anche la voglia di rimanere sempre e comunque un uomo veramente libero.
A volte è stato anche accusato di “qualunquismo” ma il realtà Gaber ha sempre cercato di rifiutare la “massificazione”, ha cercato di essere sempre intellettualmente  vivo ed attivo, quasi arrabbiato, senza essere travolto dal conformismo che tende ad appiattire tutto e tutti, quel conformismo che, come lui stesso cantava, ha portato alla sconfitta la sua generazione.

Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un’appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte. Sa perché alla fine io grido, faccio queste smorfie, ho queste reazioni? Perché mi vergogno, e mi vergogno perché sono stupito di questo riconoscimento che avviene tutte le sere su cose che io e Luporini abbiamo in qualche modo scoperto per noi stessi. È questo che rende il mio mestiere uno dei più belli che si possano fare. Cosa volere di più, per 120 sere all’anno? (Giorgio Gaber).

Giorgio Gaber, “La libertà”

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