SI CELEBRA LA GIORNATA DELLA LEGALITA’
di avv. Sabrina Salmeri e Tommaso Rossi
Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro venivano uccisi dalla mafia a Capaci.
Per non dimenticare mai Fatto & Diritto ripropone i propri ricordi.
“Perché gli uomini muoiono, ma le idee restano e camminano sulle gambe di altri uomini”
“Palermo- Percorro l’autostrada A29 in direzione Capaci, per fermarmi sotto la stele che porta i nomi insanguinati dei giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, degli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Cinque nomi che abbiamo imparato a memoria dopo quella strage che ha sconvolto la vita di tante persone.
Sul lato mare-monte dell’autostrada c’è una piazzola di sosta che permette ad avventori, come me quella sera, di sostare sotto la stele illuminata per un momento di riflessione.
La stessa riflessione degli ultimi vent’anni che ancora ha solo parziali risposte.
Tre auto della Polizia di Stato sostano nel Giardino della Memoria che si estende sul terreno che il 23 maggio 1992 raccolse i corpi martoriati dei giudici e degli agenti della scorta. I poliziotti mi invitano ad avvicinarmi all’unico albero sopravvissuto alla devastante deflagrazione e mi mostrano il tunnel sotto quel tratto di autostrada che fu fatto saltare in aria da ben 500 chili di tritolo. Mi indicano anche una casupola sulla montagna su cui campeggia una scritta blu su sfondo bianco: NO MAFIA. Gli agenti mi dicono che è proprio da là che Giovanni Brusca azionò il telecomando collegato al maledetto ordigno.
Enrico Mentana ha detto recentemente che quando si ricordano questi eroi dello Stato, si parla di martiri e si pensa al giorno del loro martirio. Ma non dobbiamo ricordarne la morte. Dobbiamo piuttosto ricordare cos’è stato Falcone, e cosa ci ha lasciato in eredità.Giovanni Falcone è stato sicuramente uno dei nemici più implacabili e pericolosi che Cosa nostra abbia mai avuto. Si dimostrò uno dei più profondi conoscitori di Cosa nostra e dei metodi con cui combatterla. E’ dal suo impulso che nasce la Procura Nazionale Antimafia.
Dopo l’uccisione del giudice Cesare Terranova, alla fine degli anni ’70, Falcone chiede di essere assegnato all’ufficio istruzione sotto la guida di Rocco Chinnici, il quale gli affida un’inchiesta sul traffico di droga sull’asse Palermo-USA, che era costata la vita al procuratore di Palermo, Gaetano Costa. E’ in questa occasione che il giudice comprende l’importanza delle indagini patrimoniali: il famoso “follow the money” a cui era arrivato per primo il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, ucciso dalla mafia nel 1979.
Con l’arrivo di Antonino Caponnetto a Palermo, dopo la morte di Chinnici, Falcone diventa la punta di diamante del Pool antimafia, e chiama a lavorare con sè l’amico di sempre, Paolo Borsellino.
La vera svolta nelle indagini del Pool avviene con la decisione di Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi”, di collaborare con la giustizia. Buscetta inizia a parlare, ma solo con il giudice Falcone: il pentito avverte il giudice che stava aprendo un conto con Cosa nostra che avrebbe chiuso solo con la morte. Gli ostacoli a cui è sottoposto il Pool sono difficilmente sostenibili: dopo gli omicidi del commissario Beppe Montana e del questore Ninni Cassarà, e quindi Falcone e Borsellino vengono prelevati e portati nell’isola dell’Asinara per terminare l’istruzione del maxiprocesso a Cosa nostra che culminerà con 360 condanne per oltre duemila anni di carcere.
Il noto giornalista americano Alexander Stille scriverà: <In un altro Paese gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nella condizione di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario. >
Nel 1988, quando Caponnetto lascia l’incarico per limiti di età, a succedergli non è Falcone perché incredibilmente il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferisce Antonino Meli, il quale si insedia a Palermo e scioglie il pool antimafia.
Falcone, miracolosamente scampato ad un attentato dinamitardo il 20 giugno 1989 presso la sua villa sul litorale dell’Addaura, sa di essere condannato e di non poter contare sull’appoggio o la protezione del potere politico, ma continua eroicamente il suo lavoro.
Intanto esplode la “stagione dei veleni” al palazzo di Giustizia di Palermo, inquinato dalle lettere del corvo che puntano a screditare il magistrato. Nel 1990 il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, durante una trasmissione televisiva denuncia Falcone sostenendo che il giudice avrebbe <tenuto nei cassetti> le carte sui grandi delitti di mafia.
Mentre Borsellino è trasferito a Marsala, Falcone decide di accettare la proposta dell’allora Guardasigilli, Claudio Martelli, di dirigere l’ufficio Affari penali del Ministero, ma non rinuncia ad occuparsi ancora di mafia.
Proprio da Roma ha la capacità di indagare il fittissimo tessuto di intrecci tra politica, economia e una mafia che ormai da tempo non è più confinata nella sola Sicilia ma si è espansa inserendo uomini fidati in tutta la penisola, soprattutto nel Nord Italia dove opera un’imprenditoria non trasparente senza troppi clamori e risulta più facile investire capitali di provenienza illecita o farli transitare verso le banche svizzere.
Nell’ottobre del 1991è costretto a difendersi di fronte al CSM dalle accuse lanciate da Orlando. Cresce l’isolamento del giudice che alla giornalista Marcelle Padovani affida una riflessione profetica:
“Si muore generalmente perchè si è soli o perchè si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perchè non si dispone delle necessarie alleanze, perchè si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”
Alle 17.58 del 23 maggio 1992 Giovanni Falcone morirà insieme alla moglie e a tre agenti della sua scorta.
Questa è la trascrizione audio originale del video girato sul luogo della strage nei momenti immediatamente successivi all’esplosione: “ma quanto gliene hanno messo di tritolo…ma chi ci misiru…a bumba atomica ci misiru..?” “E’ una strage..”
(Fonte: Angelo Vecchio “La mafia dalla A alla Z”; Archivi RAI; Carlo Lucarelli “Lucarelli racconta”.)
AVV. SABRINA SALMERI
“La mafia non è affatto invincibile; è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine“. Così diceva Giovanni Falcone, che non a caso accoglie con il suo volto fermo ma rassicurante il lettore di Fatto & Diritto accanto al titolo, per prenderlo per mano e condurlo al cambiamento.
La mafia, sin dalle sue origini storiche, trae la sua forza e si alimenta di ignoranza, subcultura, disoccupazione.
La gravissima crisi economica e culturale degli ultimi anni, la totale perdita della meritocrazia, sono benzina sul fuoco delle mafie e dei tanti modi di appoggiarle.
Ma, al contempo, il fuoco troppo alto sta forse bruciando chi lo ha alimentato con la sua dissennatezza e connivenza.
Si vede, nel buio, che ricomincia a prendere forma il fuoco della consapevolezza e della passione civile. Tutti noi dobbiamo avere il coraggio di alimentarlo, ognuno con le proprie forze e possibilità. Non dobbiamo mai aver voglia di tornare indietro.
Un’Italia diversa, forse, è possibile. Speriamo. Non bisogna ricordarsene solo oggi, giornata dedicata alla legalità. E non bisogna pensare che la mafiosità siano solo bombe. La mafia si annida nella corruzione, negli affari, nel calcio scommesse, negli ecoreati e in mille altre vicende che ogni settimana raccontiamo.
AVV.TOMMASO ROSSI