Pochi giorni fa è stato l’anniversario della morte di Gianni Brera. Venti anni son già passati da quel 19 dicembre 1992 quando si spense quello che viene considerato unanimemente il più grande giornalista sportivo italiano di sempre.
Chiamarlo giornalista sportivo, nel senso in cui lo intendiamo oggi, è forse riduttivo. Gianni Brera avrebbe potuto scrivere racconti, o poesie, ma scelse di far scorrere la sua penna tagliente e accattivante nelle pagine dello sport. Quando lo sport ancora poteva essere poesia.
Così si descrive: «Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l’8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti (…) Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po.»
Si laureò in scienze politiche a Pavia nel 1943, mentre era in servizio come paracadutista nella Divisione Folgore. Fu costretto poi a rifugiarsi in Svizzera nel 1944 per sfuggire ai Tedeschi che ne sospettava la contiguità con la lotta partigiana. Rientrò in Italia per unirsi alla Resistenza dei Partigiani nella Val d’Ossola.
Gianni Brera ha sempre tenuto molto a puntualizzare che attraversò tutto il periodo della seconda guerra mondiale, da parà a partigiano, senza mai sparare ad un altro uomo.
Dopo la fine della guerra, inizio la sua collaborazione con la Gazzetta dello Sport, di cui divenne direttore- il più giovane in Italia- nel 1949.
La sua penna pregna di cultura e fantasia, innovazione e sagacia, introdusse nello stile giornalistico italiano una serie di neologismi da allora mai abbandonati. Il “contropiede”, tratto dalla seconda fase della danza del coro delle tragedie greche, il termine “uccellare”, per definire una finta che inganna l’avversario, il “goleador”, l'”incornata”, la “melina” dal bolognese “zug de la mlèina”, il gioco della melina, per intendere un rallentamento del gioco per perder tempo. E poi il “rifinitore”, il “cursore”, il “libero”, e molti molti altri termini per noi ormai consueti, ma introdotti nella lingua italiana da Gianni Brera.
Tifoso genoano, coniò per la squadra del cuore l’appellativo di “Vecchio Balordo”.
Il suo credo calcistico era il “catenaccio”. Togliere una punta ed aggiungere un difensore, il libero, davanti ai marcatori, con il compito di far ripartire l’azione e al contempo creare una diga davanti alla difesa.
Tale impostazione nacque in Svizzera negli anni ’30. Il termine “verrou” con cui gli svizzeri definirono quella tattica, fu tradotto letteralmente con “catenaccio” in Italia, dove negli anni ’50 fu sperimentato in campo da Gipo Viani e Nereo Rocco, e teorizzato da Gianni Brera appunto.
Con Bearzot tale teoria trovò la sua sublimazione vincente al Mundiàl spagnolo del 1982.
Brera si divertiva da pazzi a fare l’antipatico, il rompiscatole brontolone con una mazzata in punta di penna pronta per tutti. I suoi obiettivi preferiti erano i numeri 10, quei calciatori dai piedi buoni, il cervello fino e il fisico emaciatello. Gianni Rivera fu il suo bersaglio n. 1. “Abatino” il soprannome che gli coniò, e che gli rimase appiccicato per tutta la carriera.
I soprannomi, altro amato vezzo della linguistica breriana.
A lui si deve i mitici “Baron Tricchetracche” per Franco Causio, “Rombo di Tuono” per Gigi Riva, “Abatino ” Rivera, “Bonimba” Boninsegna, “Piscinin” per Franco Baresi, “Prestipedatore” Maradona e tanti tanti altri tra cui “Il Cavaliere” Silvio Berlusconi.
Gianni Brera scrisse anche numerosi romanzi, tra cui il più celebre fu senz’altro “il Corpo della ragassa”, adattato per il cinema da Alberto Lattuada con la regia di Pasquale Festa Campanile.
Brera animò per anni il “Processo del Lunedì” di Aldo Biscardi e tentò anche delle incursioni nella vita politica con il PSI e i Radicali.
Morì il 19 dicembre 1992 in un incidente automobilistico.
Sulla sua tomba a San Zenone al Po ogni mese viene lasciato un sigaro toscano, altra passione dell’antipatico scontroso Gianni oltre all’inseparabile pipa che aveva sempre in bocca.
Chissà che amarezza avrebbe oggi a descrivere il calcio moderno, fatto di scommesse, veline e procuratori. Chissà che soprannomi potrebbe coniare ancora per calciatori senz’anima e senza bandiera, con una sola maglia cucita nel petto: quella verde color denaro.
T.R.