Fimmine Ribelli, le donne e il mondo contemporaneo della ‘ndrangheta

(di Clarissa Maracci, c/o IJF 2013)

Sono pochi gli scrittori dotati della sua capacità di raccontare, di coinvolgerti nel mondo che descrivono. Con le parole così come con la scrittura. Nella presentazione del suo libro al Festival del Giornalismo di Perugia 2013, Lirio Abbate sembra quasi immerso in una pièce teatrale. Il suo racconto è credibile. La sua narrazione è lucida, semplice e coinvolgente.

E’ il mondo della ‘ndrangheta calabrese, quello narrato dal suo libro “Fimmine Ribelli”. La sfida di Abbate è infatti mostrarci come le “Fimmine”( le donne) siano in realtà l’elemento fondamentale di un sistema che apparentemente sembra non includerle.

Le “Fimmine Ribelli” che Abbate racconta sono le figlie, le madri, le nonne e le mogli degli uomini della ‘ndrangheta. Sono “cose” che appartengono alla cosca, che le protegge e addomestica severamente.

Perdere una donna per il clan significa in primis perdere il diritto, lo ius potestatis che l’uomo (padre e marito) esercita su di lei, quel diritto di controllare, gestire e amministrare la sua vita. Per l’uomo della ‘ndrangheta perdere questo diritto è disonorevole. Ed è anche rischioso. Si sa che la lingua delle fimmine può scatenare perfino una guerra. E può mettere nei guai molte persone, se arriva alle orecchie di qualche poliziotto o magistrato.

C’è un dato poi, molto importante: benché ad oggi, 2013, la società, i media, la giustizia, si coprano ancora gli occhi di fronte alla realtà delle donne della mafia calabrese, queste donne hanno invece occhi, cuore e cervello ed un’innata curiosità per il mondo esterno, per ciò che c’è aldilà del clan.

La chiave d’accesso per il mondo esterno è la rete, in particolare i social network. Le nuove tecnologie della comunicazione hanno stravolto la società, e anche il mondo ovattato del clan mafioso, legato alle sue antiche leggi, non può evitare di esserne coinvolto.

Immaginiamo una donna cresciuta tra le file della ‘ndrina calabrese, una donna che non ha mai avuto il diritto di scegliere, di vivere liberamente la propria vita, costretta a vivere tra i familiari o chi è scelto da questi, confrontarsi all’improvviso con il mondo intero, attraverso le migliaia di informazioni che girano sul web.

La cosa curiosa, come spiega Abbate, è che – forse proprio per il background culturale, ma più probabile per la natura stessa dell’essere umano – l’approccio delle fimmine della ‘ndrina calabrese con facebook non è quello della denuncia sociale, della rivolta o fuga dal sistema mafioso. Tutt’altro. Proprio come tutte le altre donne del mondo, utilizzano il web per rispondere ad al bisogno primario di ogni donna: trovare l’amore.

In questo modo però, si mettono in discussione i postulati della mafia: l’uomo te lo deve scegliere la famiglia, non tu stessa su facebook! L’uomo deve essere uno che appartiene a quel mondo, non un milanese, o un francese. Questo libero accesso alla rete mette in crisi i vertici della cosca, che iniziano a vedere i social network come un mezzo di tradimento alla stessa. E si sa che, come racconta una protagonista del libro, <<la donna che disonora o tradisce la famiglia deve essere punita con la morte>>, meglio se con un finto suicidio per evitare conseguenze penali.

E allora l’unica salvezza che rimane per le “Fimmine Ribelli” è affidarsi alle forze dell’ordine e diventare “collaboratrici di giustizia”. Il questo modo, le donne della ‘ndrangheta riescono ad evitare la morte certa che le attenderebbe nel clan, dando agli inquirenti un prezioso aiuto per ricostruire la fitta ragnatela della cosca.

 

Lirio Abbate

Fimmine ribelli

Rizzoli

Pag 204, euro 17

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