DUE MILIONI DI POVERI ALLA RICERCA DELL’OCCIDENTE
-di Clarissa Maracci
Nairobi, 21 Giugno 2013 – Nairobi è il posto dove l’occidente incontra il terzo mondo. Dove il progresso, gli uffici, i grattacieli incontrano la povertà estrema, la fame, la vita precaria della baraccopoli. Migliaia di kenyoti, ogni anno, lasciano i relativi villaggi in cerca di fortuna nella grande capitale per inseguire il flusso del denaro, dove la popolazione è in preoccupante aumento.
A Nairobi, non è possibile chiedere “quanto costa?” perché tutto dipende da dove ti trovi, da chi te lo vende, ma soprattutto, da chi sei tu. Esatto. La prima cosa che bisogna chiedersi, arrivando in questo posto, è “chi sono io”? A quale religione appartengo, a quale tribù? Tutto dipende da chi sei. Un bianco, un nero, un ricco, un povero, un cattolico, un musulmano, un kikuyu, un luo. Il prezzo dipende da questo.
Ogni giorno, nella parte est della città, costellata di slum (baraccopoli) più di due milioni di persone si alzano affamate in cerca di qualsiasi cosa per fare denaro. L’unico, costante e ossessivo pensiero che accompagna gli abitanti delle più grandi slum è il danaro. Non importa come: rovistare nelle montagne di immondizia, barattare buste di plastica, vendere maiali e papere allevate nel fosso che scorre lungo la slum, dove i bambini corrono scalzi inseguendo una palla fatta di stracci.Se per un italiano la parte occidentale di Nairobi risulta molto costosa, il ghetto e la slum sono pericolose e inaccessibili. Non si tratta di razzismo, né di discriminazione a contrario. Il problema è che un musungu(bianco) non può fidarsi di nessuno, non esiste il vero e il falso. Per quanto ci si possa sforzare, quella barriera che divide l’occidente dal sud del mondo, la ricchezza dalla povertà, non sarà mai superata da parte di chi non è mai uscito dalla slum. Tu rappresenti quello che a loro dio ha negato, quella possibilità di riscatto, forse mandata proprio per volontà divina a percorrere quella strada affinché ti possano derubare.
Le slum sono affollate di persone provenienti da tutto il paese, che hanno abbandonato la vita rurale della campagna per cercare un lavoro in città e pagare la scuola per i figli. Questi sono i due martellanti obiettivi che albergano nel cuore e nella testa dei kenyoti. Tuttavia, le persone provenienti dai villaggi non sono qualificate per ottenere un lavoro in città, spesso hanno smesso la scuola durante la primaryschool(elementari). Inoltre, a differenza di quanto accade in Cina, a Nairobi ci sono poche fabbriche nelle quale cercare un lavoro manifatturiero. Così, queste migliaia di persone, in costante aumento, si riducono a vivere di espedienti ai confini della città, ammassati in baracche di lamiera sudice e maleodoranti. Korogocho, Mathare, Kibera, Kariobangi, sono solo alcune delle 100baraccopoli che circondano i grattacieli di Nairobi.
Nella slum i sieropositivi sono circa il 60% e il tasso di scolarizzazione si aggira attorno al 5% secondo le Nazioni Unite. Le poche scuole che ci sono fanno parte di progetti religiosi, ong straniere, fondi di solidarietà. Nonostante questo, i genitori dei bambini devono pagare una somma per permettere ai figli di sostenere l’esame di fine trimestre: si parla all’incirca di 20Euro ogni tre mesi, una cifra che impedisce a molte persone di poter iscrivere i figli a scuola. Eppure, quella è l’unica possibilità di riscatto per un kenyota.
Se per noi italiani gli studi rappresentano ormai un surplus, o addirittura un perdita di tempo per accedere al mercato del lavoro, per un kenyota è fondamentale poter studiare e imparare il kiswahili e l’inglese. Molti bambini vengono dai villaggi dove si parla il dialetto locale della tribù di appartenenza. Nei due quotidiani nazionali, le pagine sono tempestate di inserzioni pubblicitarie riguardanti università, college, scuole professionali, master di ogni tipo. Questo tipo di corsi risultano economicamente inaccessibili perfino per un europeo. Per i bambini di Kariobangi, l’unica chiave che apre la porta della slum nella quale sono rinchiusi è il diploma, la laurea. Eppure, anche le menti migliori, non avranno accesso ad alcuna educazione superiore per mancanza di denaro. E questo li renderà schiavi della slum a vita.
A fronte di questo, la parte occidentale della città pullula di ong, agenzie umanitarie, organizzazioni internazionali e religiose che si occupano di “fundraising” ( raccolta fondi) e dove gli stipendi , riservati ad un circolo ristretto di bianchi e ricchi kenyoti, si aggirano intorno ai6000USD al mese. Basterebbe menzionare l’ONU, la Croce Rossa Internazionale, la Caritas. Eppure, nelle slum, non c’è ombra di alcuna organizzazione, alcun porto sicuro al quale rivolgersi per chiedere aiuto, un’educazione, una prevenzione antimalarica. Non c’è l’ombra di un bianco, l’ombra di alcun ospedale o scuola creata da queste organizzazioni. Nella parte ovest della città, Westlands, iniziano a diffondersi i primi casi di obesità, simbolo del benessere e del consumismo estremo. La città è piena di fast-food che prevedono cucina indiana, americana, cinese, taiwanese o negozi di multinazionali come Bata, Coca-Cola, Samsung. Le case sono circondate di vigilanti armati, e lo stile di vita è quello dell’ex colone britannico, con molta meno parsimonia. Il kenyota è amichevole e ama godersi la vita: tuttavia, sia nella parte ricca che nella parte povera non c’è alcun tipo di solidarietà, di fratellanza. Nessuno aiuta nessuno. Ognuno guarda dritto davanti a sé, cercando di tirarsi fuori dalla miseria o badando bene di non perdere il benessere raggiunto. Non vedrete mai un abitante ricco di Nairobi camminare nella slum o aiutare un povero, né vedrete gli abitanti della slum aiutarsi l’un l’altro. Piuttosto, nell’aria si respira una competitività estrema, forse dovuta alla spinta innata della sopravvivenza. Nessuno vi sarà grato se offrite il vostro aiuto: è Dio che li ha aiutati, non voi. Oppure era vostro dovere, visto che siete bianchi.
Due cose che anche nella slum non mancano sono telefono e tv: pur vivendo in una baracca di lamiere arrugginite senza pavimento acqua e lue, tutti possiedono un telefono e acquistano continuamente credito ( Safaricom). La comunicazione è fondamentale in una città dove la viabilità è praticamente inesistente e ci si impiega più di due ore dalla periferia al centro della città con il caratteristico bus locale ( Matatu). I kenyoti amano telefonare, chiamarsi, mandare messaggi e scrivere sui social network. Pur non avendo nulla da mangiare a cena, gli abitanti della slum sono tutti in prima fila su facebook, pronti a comunicare con il resto del mondo.Il confrontarsi con realtà diverse accresce il loro senso di insoddisfazione e desiderio di cambiamento. Vedere film di Swarznegherin tv accresce quella tremenda speranza di miglioramento, di raggiungimento dello status di occidentale. Ecco che i bisogni si moltiplicano: non si parla più di lavoro e figli, ma di possedere una bella casa, un’auto, una macchina fotografica, un laptop, un pc, un Iphone, un vestito per uscire, uno stereo, un frigorifero, una doccia, un orologio, un divano, un fornello elettrico.
Quel desiderio, quella fame di “avere” è così incisiva che predomina qualsiasi altra funzione vitale, emozione, sensazione. Quello sguardo perforante e bramoso è l’unica cosa che ti rimane in mente. Non conta nient’altro che questo. In fondo, tutto il resto è un contorno. Le risate, le chiacchierate, i bei discorsi, la scuola, le promesse rimarranno sempre in secondo piano rispetto a quello sguardo. Per questo, un bianco che vive nella slum non avrà più pena per nessuno, ma vivrà col pensiero di non farsi fregare o derubare, ringraziando dio ogni giorno per essere tornato a casa vivo. Questo continuo “stare allerta” è quello che fa percepire la vita in maniera diversa. Tutti i sensi sono costantemente allerta, le energie mentali sono tutte impiegate per capire di chi puoi fidarti, non c’è tempo per pensare, compatire, deprimerti o lamentarti: l’unico pensiero è quello di andare avanti, non importa come. Sopravvivere.
Vivere nella povertà imbarbarisce anche l’animo più nobile.