RIFLESSIONE A VOCE ALTA SUI LIMITI TRA DIRITTO DI CRONACA E SENSAZIONALISMO GIORNALISTICO
di avv. Tommaso Rossi (Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni)
Yara, l’ultimo test: l’autista è il padre
del killer al 99,9% (Corriere della Sera, 10/4/2014)
Yara, test del Dna conferma: killer è figlio dell’autista di Gorno (TGCom 24, 10/4/2014).
Yara, la conferma arriva dal Dna. Il killer è figlio dell’autista di Gorno (La Stampa, 10/4/2014)
Ecco, quelli sopra sono alcuni dei titoli apparsi giovedì sulle principali testate giornalistiche per dare la notizia che l’esame del DNA ha stabilito che al 99,99% le tracce ematiche rinvenute dalla scientifica sugli slip e sui leggins della piccola Yara Gambirasio appartengono a ignoto 1. Tale profilo genetico appartiene ad un figlio che Giuseppe Guerinoni, autista morto nel ‘99 e di cui è staa riesumata la salma per effettuare queste complesse analisi, ha avuto fuori dal matrimonio. L’uomo sospettato della morte della piccola Yara- indicato come “IGNOTO 1”- non si trova ancora, e nel piccolo paese di Brembate di Sopra nessuno ha idea di chi possa essere.
Ma il punto che mi suscita una riflessione è questo: le complesse e dispendiose ricerche genetiche (pare si siano spesi circa 3 milioni di euro) possono soltanto affermare quasi con certezza che il sangue trovato nei vestiti di Yara appartenga a IGNOTO 1. Il passaggio da questo, a dire che sicuramente IGNOTO 1 sia il killer che ha ucciso la piccola Yara è pura esagerazione giornalistica a mio avviso. E’ comprensibile: l’opinione pubblica (oltre che i familiari della piccola) hanno una giusta sete di giustizia, per uno dei delitti più ignobili e “brutti” degli ultimi anni.
Ma una traccia di sangue è una traccia di sangue, non una prova schiacciante e inconfutabile di colpevolezza. E’ solo la prova che addosso alla piccola Yara ci fosse una macchia di sangue di una persona. Certo, questo è un indizio importante da cui partire e verso cui orientare le indagini, ma non è la prova principe che può far dire TROVATO IL COLPEVOLE, L’ASSASSINO E’……
Ragioniamo in via puramente ipotetica: una macchia di sangue addosso a dei vestiti può essere assolutamente più vecchia rispetto al momento dell’omicidio, il sangue resiste anche a lavaggi in lavatrice ad alta temperatura. Una traccia ematica negli slip può essere stata causata da un contatto sessuale, da una violenza sessuale, da una ferita lasciata in un qualsiasi posto dove l’altra persona abbia fortuitamente strisciato (per esempio nello spogliatoio della palestra). La persona sporcata può aver soccorso un passante ferito e poi essersi strusciata i vestiti, può addirittura aver toccato un’altra persona a sua volta sporca del sangue di IGNOTO 1, può inoltre essersi picchiata a sangue con IGNOTO 1 molti mesi prima, o magari l’ignoto sì è ferito mentre estraeva un vetro da una mano della piccola in lacrime per la strada.
Insomma, in via puramente ipotetica, migliaia possono essere i motivi alternativi ad un omicidio della presenza di quel sangue nei vestiti della povera Yara Gambirasio.
La notizia deve avere impatto sui lettori, questo è chiaro e comprensibile.
Pensate ad un titolo come “Yara, la traccia di sangue nei suoi vestiti appartiene ad una persona ignota”. Quale articolo sarebbe invogliato a leggere il lettore medio, tra quelli sopra riportati e questo? Beh , troppo facile la risposta.
Ma pensate ad una persona innocente, una persona che davvero non c’entra nulla con un omicidio così odioso, come in un attimo potrebbe veder trasformata la propria vita in un incubo.
La storia è tragica, ma anche la storia degli errori giudiziari e delle persone distrutte da essi a volte lo è.
il 26 novembre 2010 è un giorno che la famiglia Gambirasio e il piccolo paese di Brembate di Sopra mai dimenticheranno.
Un giorno che Brembate di Sopra rivive ogni anno con lo stesso dolore, con la stessa amarezza di quella sera del 26 novembre del 2010, quando la piccola ginnasta Yara Gambirasio, 13 anni, sparì nel nulla, in una manciata di metri che separano la sua abitazione alla palestra dove si allenava. Quasi quattro anni di indagini, di Dna prelevati a chiunque, di false piste e di ipotesi cadute nel vuoto. Anni in cui né i familiari né la Procura vogliono arrendersi, mantenendo alta l’attenzione sul delitto di Yara e continuando a cercare ovunque tracce del suo assassino.
Era la sera del 26 novembre, Yara stava rientrando a casa dopo essere stata alla palestra per consegnare i nastri con la base musicale che avrebbero dovuto utilizzare al saggio di fine anno. Poi, in un fazzoletto di metri che separano la sua casa alla palestra, la ragazzina scompare. Scattano le ricerche, ovunque, ma di lei nessuna traccia. Come fosse stata inghiottita da un fitto mistero. Una task force di volontari e forze dell’ordine la cerca per tre mesi, sotto la pioggia, con la neve, lottando contro il freddo pungente. Ma niente. Tre mesi di ricerche ininterrotte su tutto il territorio battuto palmo a palmo anche con l’ausilio di cani molecolari. Poi, la cabala dei numeri nell’assurdo gioco del destino vuole che il 27 febbraio 2011 la ragazzina viene ritrovata, morta. Il corpo senza vita di quella tredicenne per cui tutti pregavano, era stato ritrovato casualmente da un uomo che faceva volare nelle campagne di Chignolo d’Isola un piccolo modellino d’aereo radiocomandato. Senza il ‘dirottamento’ di quel modellino, forse Yara non sarebbe stata trovata. Quel campo è stato per tre mesi la tomba di una bambina strappata all’amore della sua famiglia a 13 anni. Un campo dove adesso la gente porta fiori, versa una lacrima, regala una preghiera. A due anni dall’omicidio, l’assassino di Yara non ha ancora un nome, un volto.
Una traduzione sbagliata porta, dopo tre mesi, all’arresto del marocchino Mohamed Fikri, operaio edile presso il cantiere di Mapello, dove il fiuto dei cani molecolari aveva condotto gli investigatori durante le ricerche di Yara, dove quelle lettere anonime recapitate agli inquirenti dicevano ‘cercate nel cantiere’. Ma lì Yara non c’era. Eppure, l’ultima cella che il telefono cellulare della ragazzina aggancia prima di spegnersi inghiottito anche lui dal buio, è proprio la cella vicina al cantiere di Mapello, dove oggi sorge un centro commerciale. A far emergere il coinvolgimento di Fikri era stata una telefonata dello stesso marocchino, fatta prima di tornare in Marocco, pochi giorni dopo la scomparsa della ragazzina. Il marocchino sembrava aver detto “Allah, perdonami, non l’ho uccisa io”, fu così fermato a bordo di una nave in acque internazionali, ma poi, con il sostegno di altri dieci traduttori, si scoprì che le parole di Fikri non furono esattamente quelle e che il termine “uccidere” non era stata menzionato.
Il Dna rinvenuto sul corpo di Yara non corrisponde a Mohammed Fikri.
Si riparte da lì. L’autopsia condotta dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo ha rivelato che nei polmoni di Yara c’erano tracce di una polvere tipica dei cantieri edili. Così come il risultato dell’autopsia attesta che la ginnasta è morta per una serie di concause, dalla ferita alla testa (provocata con un corpo contundente, forse un sasso); alle quattro coltellate inferte alla schiena, al collo e ai polsi; e l’insufficienza respiratoria dovuta forse, a un tentativo di strangolamento. Ferita, debole, Yara è stata abbandonata in quel campo ancora viva. Nessuna di quelle ferite, secondo il medico legale, era mortale. L’assassino deve averla lasciata in mezzo al campo credendola morta, invece la piccola Yara era ancora viva, agonizzante, priva di sensi, ma ancora con un filo di vita in corpo. E’ morta solo dopo. Dopo un’agonia apparentemente interminabile, quando il freddo ha inferto il colpo finale in quel piccolo fragile corpo debilitato e sanguinante.
Due anni, e si scava ancora nel mistero. “Le indagini non hanno mai conosciuto un momento di tregua, né lo conosceranno mai”, ha assicurato il procuratore di Bergamo, Francesco Dettori.
Gli inquirenti stanno lavorando sui profili genetici di molti residenti a Brembate. Sono stati prelevati oltre 130 Dna, da comparare e da analizzare. Su questo secondo filone d’indagine si continua a lavorare. L’inchiesta denominata “Ignoto Uno” è partita dopo i risultati del Dna trovato su Yara, che risulta avere delle somiglianze genetiche con Giuseppe Guerinoni, un uomo che viveva a Gorno (Bergamo), morto nel 1999. Tutti i famigliari di Guerinoni sono stati sottoposti al test del Dna, ma il profilo non corrisponde a nessuno di loro. L’ipotesi è quella che l’uomo di Gorno possa avere un figlio illegittimo, ma le indagini non ne hanno ancora accertato l’esistenza. Dopo la riesumazione del cadavere di Guerinoni, la certezza che il sangue appartiene ad un suo figlio non riconosciuto.