PROCESSO MAFIA CAPITALE, L’IMPIANTO ACCUSATORIO RESISTE IN CASSAZIONE
di Avv. Tommaso Rossi (Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni)
Mentre proseguono le indagini per scoperchiare il grande pentolone del “Mondo di Mezzo”, in attesa che una nuova tranche di arresti scuota il mondo politico romano, sono state pubblicate le motivazioni della Cassazione nei procedimenti de libertate sui riesami proposti nell’ambito delle due tranche di ordinanze cautelari emesse nel processo “Mafia Capitale”.
Nucleo centrale di tutte le censure mosse dalle difese degli indagati arrestati era l’inquadramento dei fatti contestati all’interno della cornice del delitto di associazione mafiosa.
Ricordiamo che il reato di cui all’art. 416 bis cp, l’ associazione per delinquere di tipo mafioso, punisce l’unione di più soggetti con compiti definiti, consorziati per commettere una serie indeterminata di reati, con attività organizzata per una durata indeterminata nel tempo. Rispetto alla normale associazione per delinquere l’associazione di tipo mafioso prevede che gli associati si avvalgano della forza intimidatrice del vincolo associativo, inducendo un clima di omertà ed assoggettamento di chi vi entra in contatto, tanto potente da agevolarne l’azione. Molto si è discusso poi negli anni sul ruolo del concorrente esterno all’associazione mafiosa figura introdotta e disciplinata dalla legislazione speciale antimafia del 1991 a seguito delle stragi di mafia) è colui che, pur senza essere parte stabile del sodalizio mafioso, conferisce un apporto anche occasionale all’associazione pur sempre finalizzato a rafforzarne l’attività illecita. Dal punto di vista più concreto, la mera “contiguità compiacente” o la “vicinanza” o la disponibilità nei riguardi del sodalizio o dei suoi esponenti, devono in ogni caso essere accompagnate da positive attività che forniscano uno o più contributi utili al rafforzamento o al consolidamento dell’associazione. In parole più semplici, il concorrente esterno è un concorrente eventuale che non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a far parte, ma al quale l’associazione si rivolge per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo e per superare possibili fasi patologiche di crisi della stessa associazione. Il contributo quindi può essere anche solo episodico ed estrinsecarsi in un unico intervento, in quanto ciò che rileva è che quell’unico contributo serva all’associazione per i mantenersi in vita.
Tornando all’inchiesta romana, secondo la Suprema Corte non vi sono ostacoli per riconoscere che a Roma abbia operato negli ultimi anni un’organizzazione criminale che seppur costituita e sostenuta da soggetti “autoctoni”, senza quindi quei tratti di mafiosità normalmente individuati nelle Mafie del Sud, si sia avvalsa della “forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici”. Una mafia romana, ma non per questo come avevano provato a “sminuire ” i difensori degli indagati un gruppetto “cacio e pepe” di soggetti legati da affari un po’ border-line.
E’ un concetto importante, e in parte nuovo: la Mafia non è soltanto la mafia del sud, dove il requisito fondamentale è l’omertà generata dalla forza di intimidazione dovuta a violenza e paura di ritorsioni.
Non è nuovo in assoluto: già in passato vi sono stati grandi processi che delineavano “mafie” slegate dal contesto socio-culturale tipico del Sud Italia: si pensi al processo sul caso “Teardo”, dove politici e amministratori della Regione Liguria furono rinviati a giudizio negli anni ’80 per associazione mafiosa: ma il processo, alla fine, si concluse con una condanna per associazione a delinquere semplice (non mafiosa, dunque), dopo un annullamento da parte della Cassazione. O si pensi anche a recenti processi per mafie straniere presenti in Italia, in particolare quella cinese.
Ecco un importante passaggio:
“Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politico-elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio”.
Nel processo “Mafia Capitale”, dunque, si delinea un doppio binario mafioso: da un lato la criminalità di strada, violenta e pericolosa, che trae le sue origini socio-culturali dalla Banda della Magliana, da cui Carmenati per contiguità proviene. Dall’altro lato la magia politico-amministrativa, dove le forza intimidatoria consiste nella paura di “esser fatti fuori” dai grandi affari e appalti che riempivano di denari gli interessati, corrotti e corruttori.
La Corte, a riprova di quanto sopra detto, parla di “un’eredità criminale complessa (…) e sedimentatasi a strati, lentamente, entro un lungo arco temporale, il cui lascito, sempre vivo e attuale, si è perpetuato nella nuova realtà associativa scaturita dalla fusione con il gruppo del Buzzi, costituendone una indispensabile riserva di violenza percepibile all’esterno, e, per certi versi, un valore aggiunto cui ricorrere, se necessario, per perseguire e attuare gli scopi del sodalizio (…)”. Cosicché, prosegue, “l’associazione ha potuto ampliare lo spettro delle sue attività e sfruttare il conferimento del ‘bene’ derivatole dall’acquisto della capacità di intimidazione già sperimentata (…), capacità progressivamente accumulata nel serbatoio criminale di origine e poi trasfusa, con metodi più raffinati, nei nuovi campi di elezione del ‘mondo di sopra’, ove si è avvalsa del richiamo alla consolidata ‘fama criminale’ acquisita nel tempo, senza tuttavia abbandonare la possibilità di un concreto ricorso ad atti di violenza e intimidazione, quali forme di manifestazione da utilizzare all’occorrenza”.
I Giudici della Cassazione ,poi, spiegano “come le modalità di espletamento delle procedure di gara non siano state connotate dal necessario rispetto delle condizioni di parità degli aspiranti, ma abbiano registrato il condizionamento derivante da una posizione sostanzialmente monopolistica nell’acquisizione degli appalti dei servizi del Comune di Roma da parte delle cooperative del Buzzi, attraverso l’imposizione di un controllo dell’associazione su buona parte dell’amministrazione capitolina, ottenuto grazie ad un sistema di intese corruttive con una schiera di pubblici funzionari infedeli e, all’occorrenza, per effetto della incombente capacità di intimidazione esercitata sui potenziali concorrenti; una situazione di assoggettamento talmente radicata e pervasiva, di fronte alla quale nessuno, in sede politica ovvero giudiziaria, sia essa penale o amministrativa, ha mai osato innalzare una voce di dissenso”.
Bisognerà vedere, ora, se questo impianto accusatorio tratteggiato dai PM procedenti e condiviso dal Tribunale del Riesame, terrà al vaglio dei giudici di merito, e in ultima battuta otterrà l’avallo finale della Cassazione.
ECCO LE DUE SENTENZE “GEMELLE” PUBBLICATE SUL SITO Diritto Penale Contemporaneo:
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1434188252Cass_24535_15.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1434188281Cass_24536_15.pdf