Umbertì amarcord

 

per Fed foto Pucci Umberti_ L’ULTIMO RE D’ANCONA E LA SUA FOTO

 

– ANCONA – di Luigi Alberto Pucci –

 

Malgrado i capelli arruffati, la barba lunga, i vestiti sporchi e a volte anche laceri, aveva una sua dignità. Non elemosinava (non ne avrebbe avuto bisogno, godeva di una pensione di invalidità), al massimo chiedeva una sigaretta o un bicchiere di vino, e quando aveva soldi in tasca era capacissimo di offrire lui da bere. Capitò anche al sottoscritto (“Bevi, Pucci?”).

Era bello vederlo steso a fumare in uno dei suoi posti preferiti, gli scalini della Fontana dei Cavalli, in piazza Roma, la sigaretta tenuta in alto, fra pollice e indice, le altre dita spalancate, da vero “signore”.

Detestava il contatto umano. Se qualcuno lo prendeva per un braccio, anche solo per scherzo, si afflosciava per terra, come un straccio. “Non toccarmi i panni!”, era il suo grido di difesa. E non voleva essere fotografato, neanche per soldi. Quando ci fu l’inaugurazione della Fontana Tredici Cannelle appena restaurata, a lui che casualmente transitava di lì, quelli della stampa chiesero di andare ad abbeverarsi, lo avrebbero abbondantemente pagato: sdegnosamente rifiutò, e si trasferì sotto la vicina Fontana dei Cavalli, da cui, ghignando, si godette la cerimonia.

Pertanto l’unica immagine di cui i quotidiani disponevano era sempre la stessa, Umbertì solitario passante in corso Garibaldi a sottolineare il deserto del Ferragosto in città.

Perciò fui fortunato, quella volta, nella cantina di Rosina, che mi ero messo in testa, macchina fotografica caricata in bianco e nero, di immortalare la fauna che mi circondava.

Seduto in un angolo, al solito posto, c’era Umbertì. “Posso?”, gli chiesi: e mi diede l’assenso. Non potevo farmi sfuggire l’occasione. Tirai quattro o cinque scatti, scegliendo poi in sede di stampa, nella mia camera oscura, il ritratto ormai noto. Ne feci copie formato cartolina, immaginando che a qualcuno potessero interessare: e infatti trovai gli acquirenti, da cui mi feci rimborsare solo le spese del materiale impiegato.

Poi un amico, che a sua volta aveva la camera oscura, mi chiese il negativo. Glielo concessi. Ne fece, credo, due sole stampe, formato A4. Una la tenne per sè, l’altra (essendo ormai chiusa Rosina) finì da Irma al porto. Il negativo tornò alla base. Ora è depositato presso un notaio di fiducia, a cautelarmi da non improbabili tentativi di scippo.

A proposito di scippi, un tipo scaltro fiutò l’affare: si fece prestare l’ingrandimento da Irma e ne tirò fotocopie che andò a vendere in giro per la città. Ne ricavò forse poco più di qualche bevuta. Io, ad essere sinceri, ero lusingato dalla diffusione dell’opera. Comunque quelle che vedete oggi appese in mostra nei bar sono tutte fotocopie (tranne le pochissime da me personalmente stampate e regalate all’oste, ma in quei casi c’è la dedica).

Poi fu la volta di un artista locale, Tommaso Buglioni (il noto “Tom Tattoo”) che mi chiese di poter elaborare l’immagine. Gli concessi i diritti, con l’unica clasusola di citare l’autore della foto ogni volta che le sue opere venissero pubblicamente esposte. Conobbi così l’emozione di vedere la preziosa immagine virata a colori, tanti colori, e oggetto di una mostra; nonchè addirittura riprodotta su cartelloni e striscioni in giro per la città.

Per concludere, l’ultimo intervento, il murale di via Sacripanti con i personaggi più famosi di Ancona. E qui Umbertì potrebbe raggiugere l’immortalità.

Ma chi era Umbertì, e come mai ebbi il privilegio unico di ritrarlo?

Ci conoscevamo da una vita (era di poco più anziano di me) in quanto vicini di casa, io nella parte alta di via Orsi, lui nelle prime case di via Montenero, che di via Orsi è il prosieguo. Quando usciva, inevitabilmente doveva passare davanti alle mie finestre.

Della sua infanzia ho solo un ricordo, quello di una mattina di pioggia, lui che se ne sta andando a scuola con indosso un lungo giaccone, in mano la cartella e… a testa scoperta.

Poi, da adulto, cominciò il suo infinito andirivieni da casa al centro, con immancabile sosta ogni volta al vespasiano che c’era allora in via Orsi. I suoi passaggi mi facevano compagnia mentre studiavo sul terrazzo sopra casa. E ogni volta mi chiedevo dove andasse a finire quando svoltava l’angolo di corso Amendola. Ora lo so.

Non era un clochard, un barbone: sono definizioni per chi non ha fantasia. Semplicemente, andava in giro trasandato e quasi sempre sporco. Quando la cognata, che lo accudiva, riusciva a catturarlo e ad infilarlo nella vasca da bagno, gli strilli arrivavano fino a casa mia. Poi lui usciva con i capelli stirati sul cranio e gli abiti puliti (il fratello era bancarellaro, disponeva di un intero magazzino di ricambi): tempo tre giorni per strada e ritornava come prima.

E non era neppure lo “scemo del villaggio”. Parlava poco, giusto l’indispensabile, e i suoi, peraltro, parevano latrati. Ma aveva cervello: mi hanno raccontato che un giorno, in cantina, si fosse messo alle spalle di uno che cercava di completare un cruciverba, e che gli suggerisse la parola mancante. C’è chi dice che fosse anche un esperto di musica colta.

Un altro episodio, di cui invece sono stato testimone diretto, richiede una premessa. Pochi sanno che negli anni ’60 esisteva una mappa di Ancona disegnata da qualcuno male informato o in vena di fantasie, secondo cui via Montenero era collegata alla sovrastante via Panoramica, e questa addirittura al Guasco, attraverso il Cardeto (allora zona militare!). Più di un turista in auto, nell’intento di raggiungere la cattedrale, ci cascava finendo davanti a una scalinata. Ma uno di questi, rimasto perplesso dalla strettoia con cui iniziava via Montenero, si fermò per cercare informazioni. Di lì transitava in quel momento Umbertì, e l’altro, incurante del suo aspetto, si rivolse a lui: che gli spiegò esattamente, e con dovizia di particolari, cosa dovesse fare. Rimasi io stesso stupefatto!

Beveva, e tanto, e mangiava quasi nulla, per questo era magro come un chiodo. Poi si stendeva sul marciapiede, sulla soglia di un negozio, sui gradini della Fontana dei Cavalli, il braccio steso avanti, sotto la sua testa, a mo’ di cuscino. Con ogni tempo. Anche sotto la pioggia. Anche sotto la neve. Leggenda vuole che una volta lo videro beatamente dormire mentre attorno era tutto un tappeto bianco, tranne un alone attorno al suo corpo reso caldo dall’ultima bevuta.

Malgrado ciò, non stava mai male. Si ipotizzava allora che alla sua morte gli scienziati ne avrebbero reclamato il corpo per scoprirne i segreti. Un giorno però, proprio davanti all’ospedale Umberto I, mentre attraversava la strada, come al solito incurante del traffico, venne investito da una vettura. Lo portarono di peso al vicino pronto soccorso, sordi alle sue proteste. Gli fu diagnosticata la frattura di una gamba. Non so quanto rimase ricoverato, o se poi finì sul letto di casa, fatto sta che non lo vidi mai in giro con l’ingessatura.

Grazie alla barba e ai capelli non ancora del tutto bianchi, la mascella distorta dall’assenza di denti, ci si era assuefatti al suo aspetto, quasi fosse un eterno ragazzo, ma anche per lui gli anni passavano, finchè il suo fisico apparentemente indistruttibile cominciò ad avere cedimenti. A forza di dormire all’addiaccio si buscò una polmonite. Stavolta il ricovero fu lungo, e un giorno vidi per strada davanti a me un tizio sbarbato e dai capelli corti, ma che incedeva con un’andatura ben nota. “Umbertì!!”, esclamai. Si girò: “Come stai?” E lui: “Bene, adesso”.

Ma non passò molto tempo che ebbe una ricaduta. Stavolta non ci fu altra scelta che mandarlo in una casa di riposo di Senigallia. E’ noto che un essere di qualunque specie, se abituato alla vita brada, non sopporta la cattività. Figurarsi Umbertì, ridotto in un recinto a rimpiangere le sue strade, la sua gente, le sue bevute… e le sue sigarette: ora gli era concesso di fumare una volta sola al giorno. In pochi mesi maturò un tumore (“Mi fa male la bocca!” pare si lamentasse) e come suol dirsi il 14 giugno del 2000 passò a miglior vita. Umberto Ceccarini, al secolo “Umbertì”, aveva 68 anni.

Sulla sua tomba (la trovate al cimitero delle Tavernelle, in uno dei nuovi edifici proprio di fronte al cancello in basso), anche lì, c’è la mia foto: segno che davvero non ce n’era un’altra.

Così Umbertì è diventato una leggenda, grazie anche a quell’enfatico epiteto (ma chi l’ha coniato?) “ultimo re di Ancona”, grazie ai dipinti di Tommaso Buglioni, grazie alla cantautrice di origine ligure ma ormai anconetana Domenica Vergassa che gli ha dedicato un pezzo… nonchè, modestamente, grazie al mio fortunato scatto.

Ci manca, nel suo eterno girovagare per il centro di Ancona, a me in particolare per i passaggi davanti a casa. Quando d’estate si pranzava in giardino, c’era sempre un bicchiere pronto per lui. E una volta che non avevo sottomano il recipiente giusto misi la solita dose di vino in un boccale da birra. So che poi andò a lamentarsi da Rosina: “Pucci mi ha offerto MEZZO verdicchio!”

(articolo tratto da Urlo mensile di resistenza giovanile)

 

 

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