Ultimi approdi giurisprudenziali sulla responsabilità del medico per il danno da nascita indesiderata
di Avv. Michela Foglia
Una pronuncia della Cassazione di pochi giorni fa ha deciso relativamente al danno da nascita indesiderata statuendo in merito al diritto al risarcimento, non solo del danno alla salute della madre, ma anche di quello derivante dalla lesione del diritto di decidere in piena coscienza e libertà.
La vicenda riguardava la richiesta di risarcimento danni di una donna per la non corretta esecuzione dell’intervento di interruzione volontaria di gravidanza, al quale si era sottoposta; trattandosi di una gestazione gemellare, solo uno dei due feti era stato eliminato mentre, per l’altro, stante l’errore medico e a causa del superamento del termine previsto per legge per l’intervento di aborto, la gravidanza era proseguita regolarmente.
La Terza Sezione della Suprema Corte con l’Ordinanza n. 2070/2018, a conferma dell’orientamento seguito dal giudice di merito, ha, per l’appunto, riconosciuto alla donna il diritto al risarcimento economico comprendente sia il danno per la salute psico-fisica della donna, sia quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della libertà di autodeterminazione.
Alla medesima decisione, tesa al riconoscimento del danno economico per la nascita indesiderata anche in capo al padre, è giunta, ancora più di recente, la medesima Sezione Terza della Cassazione con la sentenza n. 2675/2018, che ha incluso anche la figura paterna tra quei soggetti “protetti” per i quali la prestazione medica inesatta è considerata un inadempimento idoneo a far sorgere il diritto al risarcimento dei danni, immediati e diretti, primo tra tutti quello derivante dal pregiudizio di carattere patrimoniale, relativo ai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli.
L’orientamento della giurisprudenza di legittimità nelle pronunce di cui sopra è sostenuto dall’interpretazione, non solo letterale, dell’art. 1 della L. 194/1978 che tutela “una procreazione cosciente e responsabile“, e del successivo art. 4 che prevede, tra le motivazioni che legittimano la richiesta di interruzione della gravidanza, “le circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito“.
Alla luce di ciò la Cassazione ha statuito ritenendo che la tutela del diritto a non proseguire la gravidanza, non esercitato a causa dell’inadempimento del sanitario e della struttura a ciò preposti, determini in ogni caso il diritto al ristoro delle conseguenze economiche prodottesi nella vita dei genitori, a prescindere dalla gravità delle condizioni di salute del bambino venuto alla luce.
La questione suggerisce un esame della disciplina e della giurisprudenza relative alla responsabilità del medico per nascita indesiderata che, senza pretesa di essere esaustiva, tenga conto della complessità di una materia che attengono non solo al diritto, ma anche a temi legati all’etica e che sfiorano aspetti che coinvolgono scelte profondamente personali, riguardanti anche la religione e le intime convinzioni e, per ciò stesso, insindacabili.
Ciononostante, compito del Legislatore, ma anche dei Giudici, è non solo quello di garantire e tutelare i diritti affermati costituzionalmente, sempre in un’ottica che tenga nella dovuta considerazione le diverse sfaccettature della questione, ma anche di adeguarsi all’evoluzione della società che, nel corso degli anni, è stata protagonista di una progressiva presa di coscienza circa l’aborto e il diritto della donna a scelte consapevoli e che la salvaguardino in prima persona.
Da un lato vi sono, infatti, le motivazioni personali di ciascuno che, come già detto, sono insindacabili, dall’altro vi è l’imprescindibile esigenza, per l’ordinamento, di assicurare ad ogni consociato la libertà di esercitare i propri diritti e di tutelarsi qualora essi fossero violati.
Se, dunque, la responsabilità del medico e della struttura in cui opera per non aver eseguito correttamente l’intervento discende direttamente dalla tutela del diritto all’interruzione della gravidanza garantito dalla Legge 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”) che ha introdotto nel nostro ordinamento la facoltà per la donna di operare tale scelta, è su tale testo normativo che occorre focalizzare l’attenzione per comprendere le motivazioni che hanno condotto i Giudici a determinati orientamenti.
Oltre ai già citati articoli 1 e 4, all’interruzione di gravidanza entro i primi novanta giorni di gestazione è dedicato anche il successivo art. 5, nel quale la legge sancisce una serie di doveri per il consultorio e per la struttura sanitaria a cui la donna intenzionata ad interrompere la gravidanza decide di rivolgersi, tutti incentrati su una corretta informazione, chiara e completa e se possibile rivolta ad entrambi i genitori, e finalizzati alla soluzione degli eventuali problemi od ostacoli frapposti alla prosecuzione della gravidanza, compresi quelli riguardanti il lavoro, gli aspetti economici o sanitari nonché riguardanti la corretta valutazione delle circostanze che la inducono a tale scelta, eventualmente prospettando possibili soluzioni alternative, valendosi anche dei supporti di carattere sociale.
L’ipotesi in cui l’aborto venga richiesto successivamente al novantesimo giorno dal concepimento è disciplinato, invece, dall’art. 6 della L. 194/1978 e tale facoltà viene subordinata al fatto che la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della stessa.
Sulla base della suddetta normativa la Corte di Cassazione, nel corso degli anni, ha elaborato le sue decisioni in merito a diverse questioni che venivano sottoposte alla sua attenzione, in particolare quelle attinenti il tema del riparto dell’onere della prova al fine di fondare la richiesta di risarcimento danni da nascita indesiderata per carenza delle informazioni da parte del medico curante e della struttura, ovvero la legittimazione attiva per il risarcimento dei danni spettante anche al padre e a tutti i componenti del nucleo familiare, fino a comprendere lo stesso soggetto nato, nel caso di malformazioni non individuate dal medico per negligenza.
A tale ultimo riguardo, con la sentenza n° 14488 del 29 luglio 2004 la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito all’ interruzione volontaria della gravidanza affermando come essa sia finalizzata alla sola salvaguardia della salute della donna e le consenta di autodeterminarsi, qualora ricorrano le circostanze richieste ex lege, nel richiedere l’interruzione della gravidanza.
La presenza, dunque, di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non consentirebbero, di per se stesse considerate, di praticare l’aborto: ciò, in quanto, la Corte ritiene che nel nostro ordinamento non sia ammesso l’aborto eugenetico né venga riconosciuto alla gestante o al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio di tale diritto.
La tutela della legge è rivolta, sempre secondo quanto statuito nella sentenza in commento, al solo diritto di nascere, non anche a quello di venire al mondo sani; il convincimento degli ermellini è basato, in particolare sull’art. 54 Codice Penale (stato di necessità), secondo il quale, con riguardo alla L. n° 194/78 “il diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno (serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali) alla sua salute o alla sua vita”.
Ciò premesso è chiaro come le malformazioni fetali non facciano automaticamente sorgere un diritto all’aborto, ma siano rilevanti “solo per concretizzare il pericolo alla salute fisica o psichica ovvero alla vita della gestante e permettere alla stessa di avvalersi della esimente costituita dalla necessità di interruzione della gravidanza”; di conseguenza: “l’aborto non è l’esercizio di un diritto della gestante, ma un mezzo concesso a lei (e solo a lei) per tutelare la sua salute o la sua vita, sopprimendo un altro bene giuridico protetto (il diritto a nascere del concepito)”.
Ipotizzare il diritto del concepito malformato a non nascere equivale, a parere della Corte, a riconoscere un diritto che, solo una volta violato ha un titolare; d’altro canto il diritto che ha la donna gestante è solo quello di evitare un danno serio o grave, nel qual caso l’ordinamento le riconosce, operando un bilanciamento degli interessi, di interrompere la gravidanza.
La conferma di tale assunto è giunta qualche anno dopo quando la Suprema Corte, fu chiamata a decidere in merito ad una questione attinente il risarcimento del danno subito da una donna per le gravissime malformazioni del figlio, causate dalla somministrazione di alcuni farmaci durante la gravidanza che non erano state rilevate nel periodo di sviluppo del feto. Con la Sentenza n. 10741/2009, riconosciuta la soggettività giuridica del concepito, veniva affermato il suo diritto a nascere sano al quale corrispondeva l’obbligo dei sanitari di risarcirlo per non aver adempiuto al loro dovere di informare correttamente la gestante, ai fini del consenso informato, circa i possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescrittale, nonché al dovere di somministrare farmaci non dannosi per il feto.
Nella stessa sede il collegio ha, tuttavia, precisato, come alcun diritto al risarcimento sarebbe spettato al bambino nato con malformazioni e titolare del diritto alla salute, qualora il consenso informato circa i rischi nella fase prenatale fosse stato funzionale alla sola decisione della madre di interrompere la gravidanza, data l’inconfigurabilità nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere se non sano.
A distanza di circa tre anni, i giudici di legittimità sono, però, tornati a pronunciarsi in merito alla responsabilità del medico in questi casi e, ribaltando le precedenti posizioni, hanno riconosciuto, questa volta, con la sentenza n. 16754/2012, il diritto per il bambino nato malformato ad avanzare personalmente la pretesa risarcitoria: a parere della Corte il risarcimento viene riconosciuto per una “wrongful life“; si trattava, pertanto, di un ristoro per le future sofferenze dovute alla propria condizione esistenziale “diversa”.
L’orientamento in questione viene fondato su diverse disposizioni costituzionali ovvero gli artt. 2-3 Cost., per la limitazione al pieno sviluppo della persona e della personalità del nato, come singolo e nelle formazioni sociali, nonché per una perdurante condizione di diseguaglianza dal resto dei consociati; gli artt. 29-31 Cost., indirettamente violati nella misura in cui la dimensione familiare risulterebbe “alterata” dalla presenza del nato malformato, stante la maggior difficoltà dei genitori ad adempiere ai diritti-doveri contenuti nelle norme costituzionali; l’ art. 32 Cost., laddove il diritto alla salute del nato malformato si intende violato in virtù di una perdurante condizione di malessere psicofisico, causato dalla malformazione stessa.
Sempre secondo i Giudici, il nato malformato non eserciterebbe, dunque, il suo diritto a non nascere, ma farebbe valere la lesione – a causa del difetto di informazioni nei confronti della madre che, se messa a conoscenza, avrebbe scelto di abortire – del suo diritto alla conduzione di una vita dignitosa e in condizione di uguaglianza, e del suo diritto alla salute: “oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irrimediabile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita” (Cass. Civ. 16754/2012).
In questa pronuncia gli ermellini hanno anche approfondito l’aspetto dell’onere probatorio, chiarendo come la mera richiesta diagnostica faccia desumere l’intenzione di non portare a termine la gravidanza soltanto in presenza di un inequivocabile indice dell’intenzione della gestante di porre fine alla gravidanza in caso di gravi malformazioni del feto, come, ad esempio, l’esplicita e preventiva dichiarazione in tal senso della donna. Al contrario, in assenza di tali circostanze, la sola richiesta di un accertamento diagnostico prenatale costituisce soltanto una singola presunzione semplice e, pertanto, sarà sempre onere della parte attrice integrare il contenuto di quella che è una presunzione semplice “con elementi ulteriori da sottoporre all’esame del giudice”.
Anche sotto quest’ultimo aspetto il diverso orientamento seguito dalla Corte risultava evidente: nelle pronunce precedenti (Cass., 10 maggio 2002, n. 6735, Rel. Vittoria; Cass., 29 luglio, 2004, n. 144889; Cass., 4 gennaio, 2010, n. 13; Cass., 13 luglio, 2011, n. 15386), infatti, seguendo l’assunto secondo cui va reputato ragionevole, perché altamente probabile, che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza se informata delle gravi malformazioni del feto, si riteneva operativa una presunzione generalizzata in forza della quale era sufficiente che la donna avesse allegato di essersi sottoposta ad analisi in fase prenatale per desumerne che ella si sarebbe avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, se adeguatamente informata della grave patologia o dell’anomalia del feto.
A dirimere i suddetti contrasti giurisprudenziali sono intervenute le Sezioni plenarie con la sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015 che hanno affrontato i due principali aspetti sulle quali erano sorte le divergenze tra le decisioni della Corte, vale a dire quello relativo alla possibilità per il giudice di fare ricorso alla presunzione semplice per accertare la volontà della gestante di interrompere la gravidanza qualora fosse stata messa a conoscenza delle malformazioni del concepito e quello relativo alla legittimazione attiva di procedere giudizialmente nei confronti del medico colpevole dell’omessa informazione.
Sul primo punto le Sezioni Unite, hanno statuito che oggetto della prova è un fatto complesso, composto dalla rilevante anomalia del nascituro, dall’omessa informazione da parte del medico, dal grave pericolo per la salute psico-fisica della donna e dalla scelta abortiva.
La prova comprende, pertanto, anche un fatto psichico: l’intenzione di abortire della donna che, per sua natura, non può essere oggetto di prova in senso stretto e può solo essere provata tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa risalire all’esistenza di una tale volontà.
Se, dunque, è onere della donna provare, mediante l’allegazione di una serie di circostanze, la propria volontà abortiva in caso di gravi malformazioni del feto, sul professionista ricade l’onere, ben più arduo, della prova contraria, ovvero che la donna non avrebbe in ogni caso scelto di interrompere la gravidanza. Dovrà, inoltre, essere provato il danno conseguente al mancato esercizio del diritto di abortire che dovrà corrispondere all’effettivo verificarsi del pericolo grave per la salute psico-fisica della donna.
Relativamente al secondo contrasto, quello in merito alla legittimazione attiva del nato con disabilità a richiedere il risarcimento dei danni al medico, le Sezioni Unite si sono orientate per una risposta negativa, subordinando tale diritto esclusivamente all’ipotesi in cui vi sia un accertamento in merito alla causazione delle malformazioni dovuta alla condotta colposa o dolosa del medico.
Viene, dunque, definitivamente esclusa la legittimazione attiva nei casi che abbiano ad oggetto l’omessa informazione del medico in merito agli esami da espletare per verificare se il concepito sia affetto o meno da malformazioni, non essendo riconosciuto, nel nostro ordinamento, come già chiarito, il diritto del nascituro di non nascere se non sano.
Salvo ulteriori interventi del Legislatore, dunque, il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, non può essere manipolato al fine di una propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole e del conseguente diritto al risarcimento del danno da esso causato.
La L. 194/1978 concede, infatti, alla sola gestante, in presenza di determinate e comprovate circostanze legate alla sua salute fisica e psichica, di optare liberamente – senza alcun obbligo – per l’interruzione della gravidanza. Questa scelta, che deve necessariamente discendere da un processo decisionale consapevole, è conferita per legge e non può in alcun modo essere limitata o compromessa da errori nell’esecuzione dell’intervento ovvero dalla mancanza di idonee informazioni in merito al corso della gravidanza e alle condizioni del feto.
A tutela di tale diritto, la corrispondente azione risarcitoria cui la madre è legittimata in caso di lesione è stata dalla giurisprudenza progressivamente estesa, come già visto all’inizio di questa trattazione, al padre e ai fratelli, sicchè sono state avanzate in dottrina opinioni favorevoli al riconoscimento della medesima legittimazione attiva anche in capo al figlio, primo interessato dalle patologie che giustificherebbero una richiesta di risarcimento.
Non può, tuttavia, essere sottovalutato che affermare una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un’analoga responsabilità della stessa madre, allorché, nelle circostanze previste dall’art. 6 legge 194/1978, sebbene correttamente informata, abbia deciso di portare comunque a termine la gravidanza: riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, infatti, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire in caso di patologie.
Del resto riconoscere un risarcimento del danno in capo a ciascun nato con handicap finirebbe per svolgere un’impropria funzione che, secondo la Costituzione, deve, invece, essere svolta dagli enti di previdenza e assistenza sociale.
Da ultimo occorre, inoltre, rammentare che è lo stesso art. 1 della L. 194/1978 ad affermare che l’interruzione della gravidanza introdotta ex lege “non è mezzo per il controllo delle nascite” di talché è del tutto escluso che essa possa essere utilizzata per qualsiasi fine che non sia quello fondamentale di tutelare quel “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” anch’esso statuito sin dal principio dall’art. 1 e cui deve essere esclusivamente orientata la scelta di ogni donna di optare o meno per la maternità.