di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)
I commenti più tiepidi rivolti a C’era una volta a … Hollywood, , imputano al nono film di Quentin Tarantino (e stando a quanto dichiarato dal regista il suo penultimo lavoro cinematografico) una mancanza di una reale trama in un film che si dilunga troppo in situazione vacue.
Il punto per Tarantino è che quel vacuo è tutto, è il cinema nella sua forma primordiale, un cinema vissuto con visceralità ed ambizione.
Ambientato durante tre giornate del 1969, tra febbraio e agosto, C’era una volta a … Hollywood segue la vita dell’attore Rick Dalton e della sua controfigura Cliff Booth. Dalton è un attore conosciuto soprattutto grazie alla tv; mentre lo conosciamo sta provando, non senza difficoltà, a farsi strada nel cinema. Il problema è che li rifilano sempre ruoli da cattivo e ad essere ricordati sono più i suoi personaggi piuttosto che la persona che li incarna. Abita nell’olimpo, la sua villa di Bel Air è accanto a quella di Roman Polanski e sua moglie Sharon Tate, le cui storie viaggiano in parallelo per poi unirsi in maniera inaspettata.
Sono davvero un dynamic duo Rick e Cliff, l’immagine di un cinema di fratellanza dove la controfigura viveva in simbiosi con il suo attore, in cui le fortune e le cadute professionali avanzavano di pari passo. E in effetti il bel Cliff interpretato da Brad Pitt era più di un semplice stuntman per Rick: tuttofare, consigliere, una copia apparentemente meno fortunata del suo “capo”, costretto a vivere in una roulotte vicino ad un polveroso drive in. In tutto questo rincorrere un’offerta migliore, una stabilità lavorativa, Dalton rifiuta di andare in Europa per girare gli spaghetti western finendo poi nel solito ruolo da cattivo in una serie, non a caso, western, c’è un Tarantino pacato che indugia e si perde gioioso nel ritrarre un cinema di serie B fatto di interpretazioni troppo marcate, caricaturali quanto sincere.
Più in generale restituisce la maniera di vivere una stagione particolare di Hollywood, fotografando gli umori e i sentimenti più intimi degli individui, soprattutto quelli marginali che ruotavano intorno alle produzioni di cinema e tv. E ancora l’euforia quasi adolescenziale di vedere se stessi al cinema, l’ardore col quale Rick Dalton cercava di mantenere in vita il più lungo a possibile quel sogno sovrapponendo atmosfere e generi (“alto” e basso”)
C’è la maniera tipica di Tarantino di mischiare il reale con la finzione, intrecciando personaggi, storie, ambientazioni vere o riscostruite, è diverso però lo spirito che unisce tali elementi: inquadrature, situazioni, volti non vengono rimodellati per favorire un vizio di stile del regista. Restando lontani dall’enfasi fanno di C’era un volta… a Hollywood una dichiarazione d’amore per il cinema: chi lo fa, come si fa, come lo si vive, le luci dei locali, ristoranti, teatri e cinema di LA che come in una giostra si accendono allo stesso momento.
Non mancano quindi le citazioni cinematografiche, i riferimenti personali di Tarantino, il feticismo nell’inserire prodotti commerciali, reali o fittizi; sono tracce che servono a ricordare che è pur sempre un film di Tarantino con un marchio tarantiniano meno appariscente e quasi assente, per toni e messa in scena.
Il nono film del regista americano è un inno al cinema come esperienza collettiva, impossibile da vivere e fruire in solitudine, una fiaba di condivisione, sui riti da attuare alla fine di una giornata lavorativa, sulle persone, di talento o no, che non verranno mai ricordate o che non ce l’hanno fatta, ma capaci di celebrare in ogni istante la magia di un mondo che può riscrivere il reale, ingannando le pagine tristi dell’esistenza.
Quel C’era una volta con i puntini di sospensione prima di Hollywood è allora, proprio come nelle fiabe, il desiderio nostalgico di imbrigliare una stagione non più replicabile, un tempo dell’innocenza nel sapere godere di istanti ed esperienze con occhi lucidi di bellezza dinanzi ad un mondo romantico.
Nel farlo Tarantino indugia più del dovuto nell’effimero, lasciandosi trasportare in un viaggio personale, dove l’emotività e l’appagamento accompagnano, più che lo spettatore, chi questo film lo porta in scena; e dunque come a volere sostituire la realtà, il cinema si fonde su sé stesso sublimando quel modo di fare cinema così istintivo, capace di elettrizzare dentro proprio come quei film italiani (gli spaghetti western) che Dalton all’inizio rifugge.
Chi è in sala non può che riconoscere e ammirare la profondità col la quale Tarantino fa e ama il cinema, eppure non basta per far godere allo stesso modo il pubblico invitato alla festa dell’amore per la settima arte organizzata da Quentin.