Abolizione della pena di morte: un altro passo avanti con la quinta risoluzione Onu

di Barbara Fuggiano (praticante avvocato)

Image1096Tra le ultime inieizioni letali ad aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della pena di morte, ricordo quella, in Oklahoma, di Clayton Lockett (38 anni, condannato per l’omicidio di una ragazza) che lo scorso aprile avrebbe dovuto svolgersi “in maniera ordinata” secondo il protocollo, ma che si è conclusa con una morte per arresto cardiaco tra atroci sofferenze durate più di 43 minuti, dopo che la vena in cui il cocktail (segreto) di farmaci era stato iniettato si è spezzata permettendone un assorbimento solo parziale.

I testimoni hanno raccontato una scena raccapricciante. Subito dopo l’iniezione, Clayton ha iniziato ad avere delle convulsioni, ha tentato di sollevarsi lanciando lamenti di dolore sempre più forti finché i medici e il personale penitenziario non hanno deciso di abbassare la tendina che permette l’accesso dello sguardo dei presenti nella sala dell’esecuzione. Un lamento straziante stroncato da un infarto.

Lo scorso luglio un altro caso, questa volta in Arizona. Joseph Wood ha terminato i suoi giorni in un modo molto simile, contorcendosi, ansimando e gemendo per i dolori patiti. Ci sono volute due ore e ben quindici iniezioni per far sì che i farmaci letali spegnessero l’agonia.

Purtroppo, la pena capitale non è appannaggio solo di Paesi come la Cina, l’Iran e l’Iraq. Negli USA, diversi Stati ancora la contemplano e “incidenti” come quelli di Lockett e Wood scomodano questioni economiche più che umane e morali. Sono gli interessi forti delle case farmaceutiche a farsi sentire e a tenere nascoste le composizioni dei mix letali, così da usare anche farmaci meno efficaci, per ragioni di economia e di risorse, tanto che da più parti si reclama addirittura il ritorno alla sedia elettrica.

L’ultimo rapporto annuale di Amnesty International ha registrato nel 2013 un allarmante aumento di circa 100 esecuzioni capitali rispetto al 2012 (778 contro 682), ma solo a causa del vergognoso numero di uccisioni in Iran (369) e Iraq (169). Salil Shetty, segretario generale di Amnesty, ha fermamente sostenuto, infatti, che “ciò non può oscurare i progressi complessivi già fatti in direzione dell’abolizione, il percorso a lungo termine è chiaro: la pena di morte sta diventando un ricordo del passato; sollecitiamo tutti i governi che ancora uccidono in nome della giustizia a imporre immediatamente una moratoria sulla pena di morte, in vista della sua abolizione”.

Al secondo e al terzo posto di questa molto poco gloriosa classifica mondiale – composta da ben 22 Stati, contro i 21 dell’anno precedente – ci sono i due Paesi Mediorientali, subito dopo la Cina, che non fa trapelare alcun dato certo ma in cui – secondo le fonti di Amnesty – vengono messe a morte migliaia di persone ogni anno; a seguire, l’Arabia Saudita (79), USA (39) e Somalia (34). Mentre nelle Americhe solo gli Stati Uniti rimangono aggrappati alla pena capitale, anche se con evidenti miglioramenti (il Maryland, ad esempio, è divenuto il diciottesimo Stato abolizionista), l’Europa e l’Asia centrale, per la prima volta dal 2009, non hanno registrato alcuna esecuzione, anche perché l’unico Stato ancora non abolizionista è la Bielorussia.

I metodi usati hanno spaziato dalla decapitazione alla fucilazione, impiccagione, somministrazione di scosse elettriche o iniezioni letali.

In questo contesto mondiale, lo scorso 18 dicembre si inserisce la quinta Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per invitare gli Stati ad una moratoria sulla pena capitale, in vista della sua totale abolizione, nonché a garantire il diritto all’assistenza consolare per i cittadini stranieri coinvolti in processi nei quali rischiano la pena di morte.

Il successo di questa Risoluzione è legato ai numeri dei voti favorevoli e di quelli contrari, che non ha mai avuto eguali sin dall’ormai lontano 2007 (anno della prima Risoluzione): 117 sì (6 in più dell’ultima volta), 38 no e 34 astensioni.

Il nostro Ministro degli Esteri ha commentato positivamente il risultato con un tweet nel quale, ricordando che l’Italia e l’Europa sono sempre in prima linea sull’argomento e ringraziando le associazioni NessunoTocchiCaino, Amnesty e la Comunità di Sant’Egidio, ha così chiuso: “un successo per l’Italia e per i diritti umani”.

Da amante del diritto penale-penitenziario e da non credente, mi chiedo se, a questo punto, non sia il caso di volgere lo sguardo ad un nuovo successo, sulla scia di quanto dichiarato da Papa Francesco all’Associazione Internazionale di Diritto Penale poco tempo fa: “Tutti i cristiani sono chiamati a lottare per l’abolizione della pena di morte, ma anche per il miglioramento delle condizioni carcerarie nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo io lo collego all’ergastolo. Abolire la pena di morte. L’ergastolo è come una pena di morte nascosta, giustizia non è vendetta. La dinamica della vendetta non è assente nelle società moderne: la realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. Oggi si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. La mentalità che viene diffusa, infatti, è quella che con una pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza, con la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani”.

 

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