“Bombardate Ancona!”, saggio report

LA GUERRA “VISTA” DA ATTILIO BEVILACQUA

x-fed-copertina-librobombardateanconaANCONA – di Giampaolo Milzi – “Bombardate Ancona!”, titolo di questo saggio di Attilio Bevilacqua, fu un ordine imperativo che le forze armate alleate eseguirono con una puntigliosità quasi quotidiana, riducendo il capoluogo marchigiano in un cumulo di macerie (il 70% dei rioni Guasco, San Pietro, Porto e Capodimonte fu praticamente raso al suolo) dove si aggiravano come spettri poche centinaia di anconetani, la maggior parte dei quali aveva perso tutto, tranne la voglia di ricostruire una vita civile, di pace e democrazia. Il lavoro dell’anconetano Bevilacqua, edito da “Affinità Elettive”, a differenza dei precedenti dedicato solo ai bombardamenti subiti dalla Dorica, si presenta molto corposo e particolarmente dettagliato, grazie a una ricchissima consultazione di fonti da archivi italiani ed esteri e alla pubblicazione di molti documenti inediti. Una sorta di diario in cui giorno per giorno, dal 16 ottobre 1943 al 18 luglio 1944, data della liberazione dai nazi-fascisti, Ancona fu oggetto di 191 azioni belliche, di cui 141 bombardamenti e 40 mitragliamenti aerei (effettuati da piloti americani, inglesi, australiani, sud africani, greci decollati per lo più dalle basi in Puglia), oltre a 3 incursioni navali e 7 cannoneggiamenti terrestri da parte dell’artiglieria del 2° Corpo d’armata polacco. Ben 349 pagine che raccontano come Ancona fu tra le città più colpite d’Italia, attraverso numeri, accurate descrizioni dei velivoli impiegati e degli ordigni sganciati (oltre 17mila), degli innumerevoli obiettivi colpiti. Ma anche del piglio indomabile, coraggioso e resistente con cui la città, smantellata pezzo per pezzo, e i suoi pochi cittadini rimasti, seppero nonostante tutto sopravvivere pur martoriati e sacrificati in modo quasi indicibile. Un saggio per appassionati di storia militare, ma anche e soprattutto per chi non deve, non può dimenticare un capitolo di guerra che valse nel 1960 l’assegnazione ad Ancona della medaglia d’oro al valore civile. Incalcolabile il numero delle vittime civili (1.182 morti secondo i dati ufficiali, più probabile la cifra di 1503, alcuni ipotizzano quella di 2000), infinito l’elenco degli impianti produttivi, delle linee di comunicazioni, dei servizi, degli edifici di pregio storico-architettonico sistematicamente polverizzati. Particolarmente toccanti le pagine dedicate al primo attacco aereo, quello del 16 ottobre, che prese di mira la stazione centrale, le frazioni Borghetto e Paolombella, il rione Piano e il cavalcavia che li collegava tra loro e con via Marconi, il rione Archi, la Cittadella, la flotta peschereccia. E quello particolarmente tragico del 1 novembre, che devastò il porto, tutto il centro storico e durante il quale persero la vita contemporaneamente 734 persone che si erano accalcate nel rifugio del carcere di Santa Palazia in via Fanti.

Perché questo accanimento? Perché, spiega l’autore, Ancona era una città strategica per le truppe tedesche, decise a rallentare in ogni modo l’avanzata verso nord degli alleati, con il suo grande scalo marittimo, i cantieri navali riuniti, la stazione dei treni e quella marittima, la strada Flaminia a Nord e la ss 16 Adriatica sud, le tante installazioni militari. Città strategica quanto incredibilmente scarsamente difesa e impreparata a fronteggiare (anche per i ricoveri non ben strutturati) la calamità che si abbattè su di essa dal cielo. Inefficaci le contraeree, pochissimi i caccia tedeschi, rarissimi quelli della Repubblica Sociale Italiana dei fascisti che governavano come fantocci. Inefficaci, anche per le continue interruzioni di energia elettrica, i sistemi di allarme, che entravano spesso in funzione – su ordine del centro di avvistamento al colle Cappuccini – quando gli aerei erano già sopra il centro abitato. Allora si ricorse, per dare l’allarme, al campanone della torre civica di piazza del Plebiscito, ai suoi rintocchi a martello, resi possibili dalla eroica opera giornaliera del campanaro Orfeo Bedini e dei suoi giovani aiutanti. I cacciabombardieri e i caccia alleati ebbero quindi gioco facile nella loro martellante missione. Fin dall’inizio cominciò lo sgretolamento e via via la sparizione dell’intero tessuto di strade e vicoli tra il porto e il Guasco, così come la demolizione di edifici di pregio artistico e architettonico. Tra le chiese fatte a pezzi e mai piu ricostruite citiamo San Primiano, Santa Maria della Misericordia, Sant’Anna de’ Greci, San Pietro, Del Crocefisso; molte di piu quelle fortemente danneggiate. E ancora, l’ex convento di San Francesco che ospitava il Museo Archeologico (indicato nelle mappe alleate come caserma Fanti) messo a tappeto da ben quattro attacchi aerei (molti per fortuna i reperti recuperati tra le rovine), le scuole Stamira, Mazzini e Benincasa, la sede del Corriere Adriatico, il cinema Splendror in corso Carlo Alberto, le fabbriche e industrie, la Fiera della Pesca, le centrali elettriche e telefoniche, il deposito del gas, le linee tranviarie. Troppi pèr essere citati tutti gli obiettivi centrati centrati dalle bombe. Già dall’inizio del ‘44 la città era l’ombra di se stessa. Scuole chiuse, così come la maggior parte dei negozi. Mancavano acqua, luce e gas, difficilissimo trovare i viveri, la tessera annonaria era quasi una beffa, ci si scaldava bruciando legna e carbon fossile, mancavano i generi di prima necessità. In questo scheletro di città, prima delle 20 e dopo le 5,30 del mattino, si aggiravano, terrorizzate dai bandi e dalle ordinanze delle autorità di polizia germaniche, solo circa 2000 persone, quelle autorizzate con la “Carta di permanenza” o per motivi di lavoro o perche addette ai servizi essenziali. La stragrande maggioranza dei cittadinu era sfollata in campagna, alcuni di quelli che non avevano potuto farlo soggiornavano nei rifugi antiaerei in condizioni igieniche pietose, si diffusero scabbia, pidocci, malattie intestinali, calarono le nascite.

Preziosissima, per alleviare le sofferenze della popolazione, l’opera dei partigiani e soprattutto dei resistenti armati riuniti nei Gap, molto attivi al cantiere navale e Tavernelle, solo per fare due esempi. Che sottraevano grano, farina, e viveri nei depositi d’ammasso per distribuirli ai piu bisognosi, e soprattutto, assieme ai medicinali, all’ospedale civico. Che in modo crescente, dal 1944, si diedero da fare per azioni di sabotaggio, comunicando tra loro con donne nel ruolo di staffette, fornendo preziose informazioni agli alleati sui movimenti delle forze tedesche e i loro punti di maggior resistenza. Eroica anche l’opera dei vigili del fuoco, del personale sanitario, dei volontari dell’Unpa (Unione nazionale protezione antiaerea), nel soccorrere i feriti, nel mettere al sicuro beni artistici. Una vera missione, quest’ultima, per il soprintendente architetto Riccardo Pacini, che organizzò la protezione di tanti monumenti e mise in salvo preziose opere d’arte

Tra le tante curiosità del saggio, l’effetto paradossalmente positivo del durissimo bombardamento del 1 novembre 1943, che fece saltare i piani già predisposti dai tedeschi per deportare almeno 600 ebrei anconetani.

Col l’arrivo di luglio, mentre le truppe polacche stringevano progressivamente in una mostra la città, e proseguivano i bombardamenti alleati, la sistematica opera di dustruzione con mine, e/o requisizione dei nazisti, trasformatisi in sciacalli, di tutto ciò che sarebbe potuto risultare utile ai vincitori in arrivo. Alle 4 del mattino del 18 luglio i partigiani e i gappisti, che prendevano ordini dal neocostituto CLN distaccato in città, fecero saltare il ponte sull’Aspio, dopo aver ingaggiato – aiutati dai pompieri e dai carabinieri in borghese – numerosi conflitti a fuoco coi militari tedeschi e coi pochi fascisti rimasti. Dalle 14,30, ritiratisi gli occupanti, in vai punti della città sventolavano la bandiera e lo stendardo del reggimento dei Lancieri dei Carpazi, la bandiera inglese e quelle polacca. In piazza Cavour (allora piazza Garibaldi) alcuni cittadini issarono su un albero la testa di bronzo di Mussolini. Agli inizi del marzo precedente, un manipolo di operai – durante il famoso sciopero nazionale contro la guerra – avevano issato su una gru dei cantieri navali e lanciato dei manifestini che si erano dunque rivelati profetici.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

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