Brecce Bianche, un bel libro illustrato

Il RIONE DI ANCONA VISTO DA MANFRINI

xFed copertina libro brecce bianche– ANCONA – di Giampaolo Milzi – Ci sono tanti modi per definire “Brecce Bianche”, recentissima autoproduzione del giovane anconetano Simone Manfrini. Tanti quasi come le sfumature di grigio che imprimono sulle pagine d’un coloro giallo, che sa quasi d’epoca, questa narrazione sentitamente autobiografica, sospesa tra slanci onirici e rigurgiti che strizzano l’occhio a piccoli incubi mai pienamente metabolizzati. Un libro illustrato, fatto di poche parole dal ruolo didascalico, in cui parlano i disegni, dove trionfa l’uso “sporco”, un po’ torbido, alienante dell’acquarello. Sporco, torbido, soprattutto alienante come il quartiere della periferia sud di Ancona che dà il titolo ad un volume che ha il peso e la forza di un mattone di calcestruzzo. Le pagine scorrono come un telefilm iper realista e neo esistenzialista, girato con una telecamera amatoriale. Dall’effetto scenografico efficacissimo, quasi fisico, a tratti struggente, con il continuo alternarsi delle scene fra esterni ed interni. Un’infanzia e un’adolescenza sospese, mai vissute come probabilmente l’autore – oggi 25enne – avrebbe voluto, delineate in un racconto “da vedere” che ti lascia appiccicate addosso polimorfe emozioni. E un senso di tristezza, perché il vuoto cosmico di un rione così maledettamente e insensatamente moderno sembra aver inghiottito i valori dell’amore e del senso civico.

I “ciak” in esterno. I lunghissismi corridoi, gli archi, i sottopassi e i camminamenti rialzati dei palazzi alveare, il “Tigre” – l’unico centro polifunzionale, ma per lo più commerciale -, l’edificio incompiuto del teatro Panettone circondato dal degrado, il parco sportivo malandato e l’oratorio della parrocchia. Microcosmo-oasi salvifica, lo spazio sacro ma dissacrato dagli imberbi frequentatori, in un satellite urbano che sembra realizzato apposta per isolare, separare, inquietare. Un mondo a parte, Brecce Bianche, nato via via a cavallo degli anni ’80 e ’90 sulla collina di Monte Dago, antropizzato in buona parte dai residenti esodati dalla frana di Posatora dell’82, ancora oggi lontano dalla “città”. Ma forse, proprio per questo – e anche perché circondato dal verde che si allunga fino al Monte Conero, quello che il piccolo Simone osserva incantato dalle finestre dell’anomina abitazione di famiglia in via Ginelli – Brecce Bianche è un “non luogo” ancora oggi capace quasi di importi una certa vita di strada: giocosa, irriverente, trasgressiva, goliardica, a tratti violenta, caratteristica ormai solo di certe periferie, appunto. Una vita dove gli amici, i compagni sono tutto e niente. “Tutti merde”, soprattutto quelli del fratello maggiore che scaccia con insofferenza Simone, eppure gli unici con i quali è possibile quel confronto-scontro che impartisce la lezione della strada.

Nei “ciak” di interno, più intimi, emerge il peso di una certa assenza della figura paterna, la vicinanza di quella materna (i genitori sono impiegati al Comune), un salone per il taglio dei capelli, dove uno strambo barbiere si erge a figura quasi mitica per improbabili lezioni di vita matura.

Quella per l’oratorio e i suoi dintorni sembra davvero l’unica via maestra di scampo per Simone e la sua cricca, elettricamente tormentati dalla noia, dalla ricerca di un senso, incuriositi e attratti dalla presenza dei matti del rione. Le pallonate del calcio, sì. Ma soprattutto i computer e la playstation acquistati dal parroco, sono le “ambite prede” per evadere a tutti i costi. Anche scavalcando la finestra, dell’oratorio, per entrare dove non si potrebbe.

Una cartografia dei sentimenti”, così definisce Simone la “sua” Brecce Bianche. Sentimenti forti, parole e parolacce come pietre, a volte bestemmie, diabolici sfottò. Ma infine, anche i tratti di quella ragione che lo porta ad allontanarsi dai giovani sbruffoni che, una volta banditi dall’oratorio, “si vedevano sempre nel piazzale” a far nulla. La ragione che lo porta a serbare nel cuore e nelle aspirazioni, come un tesoretto, la carezza ricevuta dalla maestra perché è bravo a disegnare, una passione incentivata dalla mamma. Anche se a catechismo Simone disegna il diavolo. E poi, ala scuola media, ritrae se stesso che spara alla prof. Perché “a scuola odiava tutti, lì dentro erano tutti figli di papà”, dirà lui. Perché lui “non è un tipo normale”, si giustificheranno i genitori col preside.

La svolta in positivo con la frequentazione dell’Accademia. Con il disegno che finalmente dà un senso alla vita. E forse a quell’infanzia-adolescenza, nonostante tutto libera, a Brecce Bianche.

Per acquistare il libro e informazioni: simonemanfrini@ gmail.com

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

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