DOPO L’ATTENTATO DI PARIGI CI SI INTERROGA SUL CONFINE TRA LIBERTÀ E RELIGIONE
di avv. Marusca Rossetti
La tragica vicenda della settimana conclusa ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica anche sulla differenza che intercorre tra il diritto di satira e il reato di vilipendio, previsto e punito dall’art. 403 e ss. del codice penale.
Si è parlato di “diritto ad offendere”, rischiando, per tale via, di confondere le menti e sobillare gli animi, generalizzando impropriamente e in modo inopportuno. In una propria pronuncia, i giudici di legittimità, definiscono la satira come “espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica che, in modo particolare la vignetta, propone quale metafora caricaturale. La peculiarità della satira, che si esprìme con il paradosso e la metafora surreale, la sottrae al parametro della verità e la rende eterogenea rispetto alla cronaca; a differenza di questa che, avendo la finalità di fornire informazioni su fatti e persone, è soggetta al vaglio del riscontro storico, la satira assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume. Insomma, la satira è riproduzione ironica e non cronaca di un fatto; essa esprime un giudizio che necessariamente assume connotazioni soggettive ed opinabili, sottraendosi ad una dimostrazione di veridicità. Mentre l’aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell’onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti. Incompatibile con il parametro della verità, la satira è, però, soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni adoperate rispetto allo scopo di denuncia sociale perseguito. Sul piano della continenza il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira – in particolare di quella esercitata in forma grafica – è svincolato da forme convenzionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell’espressione. La satira è una scriminante che non può operare laddove, trasmodando da un attacco all’immagine pubblica del personaggio, si risolva in un insulto gratuito alla persona in quanto tale o nella rappresentazione caricaturale e ridicolizzante posta in essere allo scopo di denigrare l’attività professionale. Nell’esercizio del diritto di critica si possono adoperare espressioni di qualsiasi tipo che si risolvano in lesione dell’altrui reputazione, purchè siano funzionali alla manifestazione di dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui; non sono, invece, ammessi apprezzamenti negativi che degradino in gratuita aggressione distruttiva della reputazione, discreditando la vita altrui in qualcuna delle sua manifestazioni essenziali”(così Cass. Civ. , sez. III, sentenza 08.11.2007 n° 23314)
La satira è dunque configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale; tale diritto rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà dei messaggi del pensiero. Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura. Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso. Ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica. Così concepita, è stato affermato soprattutto dalla giurisprudenza penale della Suprema Corte, che la satira, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona, per cui non va riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio.
Questa la premessa. Venendo ora ad occuparci di quali siano gli elementi che fanno profondere la satira in vilipendio, si tenga presente che il discrimine nei rapporti tra il delitto di vilipendio previsto ex art. 403 c.p. ed il principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero è la sentenza C. cost., 8 luglio 1975, n. 188 (in Dir. eccl., 1975, II, p. 282, con nota di ALBISETTI, Vilipendio della religione e libertà di manifestazione del pensiero). Secondo questa decisione, il vilipendio di una religione può legittimamente limitare l’ambito di operatività dell’art. 21 Cost., purché esso non si confonda con tutte le forme di lecita espressione di discussione, critica, dissenso attorno ai temi religiosi. Mentre rimangono senz’altro escluse dalla garanzia di cui all’art. 21 Cost. le offese e contumelie fine a se stesse, che si traducono, contemporaneamente, nelle offese al credente e nell’oltraggio ai valori etici in cui si sostanzia il fenomeno religioso oggettivamente riguardato. Si legge, infatti, in sentenza “É da premettere che il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, é da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed é indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza – cui sopra si é accennato – di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l’art. 19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale principio dell’art. 21. É evidente, ad esempio, a tacer d’altro, che non sussisterebbe quella libertà di far “propaganda” per una religione, come espressamente prevede e consente l’art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi. Il vilipendio, dunque, non si confonde né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano.Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sé stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato”.
E’senz’altro oramai superata la tesi secondo cui l’autentico vilipendio religioso non costituirebbe mai manifestazione di un vero e proprio pensiero, sottraendosi così alla ampia copertura costituzionale apprestata dall’art. 21. Dunque, respinta una simile ricostruzione; qualificata la libertà di manifestazione del pensiero come “diritto immanente alla persona”, come “particolare situazione soggettiva che può specificarsi come diritto personale assoluto”, vanno individuati i cd. limiti alla libertà in discorso, che necessariamente devono trovare fondamento nella Carta costituzionale. Ne discende che, oramai da tempo, la Consulta parla di limitazioni, all’esercizio della libertà ex art. 21 Cost., cd. esterne o estrinseche, rinvenibili in quelle disposizioni di legge che “siano dirette alla tutela di altri bei e interessi fatti oggetto di protezione costituzionale”.
Nella Sentenza n. 1725 del 24 ottobre 2006, il Tribunale di Latina individua nel buon costume e nella dignità personale, cioè nella dignità esistenziale e sociale della persona umana, di ogni uomo perché tale, i possibili confini della libertà di manifestazione del pensiero, aderendo, per quanto concerne il concetto di buon costume, a quell’orientamento secondo il quale il comma 6 dell’art. 21 Cost., identifica il buon costume nel comune sentimento del pudore, escludendo ogni riferimento alla cd. moralità sociale. Si tenga presente che nella pronuncia indicata, al centro del procedimento per vilipendio, vi erano tre vignette riproducenti il sommo Pontefice ed altri Ministri del culto nell’atto di compiere e subire atti sessuali o sodomizzazioni o raffiguranti gli stessi in modo mostruoso con corpo di animale e testa di uomo. E ciononostante, il Tribunale ha assolto, con riguardo alle prime due vignette, innanzitutto perché non ha ritenuto violato il limite del buon costume in quanto “ non può in concreto ritenersi che le (stesse) abbiano un carattere osceno poiché la rappresentazione degli atti e degli istinti sessuali in essi contenuti non è fine a se stesso, ma è strumentale all’espressione, in modo satirico, di un pensiero critico, anche diffuso nel comune sentire, nei confronti di atteggiamenti e posizioni assunte dai vertici ecclesistici sul tema della sessualità. Perché le vignette potessero qualificarsi come oscene, e dunque tali da offendere il buon costume, sarebbe stato necessario che fossero state tali da suscitare nell’osservatore desideri erotici e forme di eccitamento”. Parimenti, il Giudicante ha sostenuto che non fosse stato superato neppure l’altro limite costituzionale, quello della dignità esistenziale di cui al combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto essendo di particolare spessore etico e religioso la persona offesa, ciò fa sì da renderla immune da eventuali attacchi all’onore, tra l’altro provenienti in forma di vignetta satirica. Per la terza vignetta, invece, la assoluzione è intervenuta per mancanza di dolo(aspetto questo del quale qui, oggi, non ci occuperemo).
Dunque, se tanto mi da tanto, se cristiani cattolici e Santa Sede non se la sono potute prendere per simile esercizio del diritto di satira, analogalmente non avrebbero e non dovranno fare i musulmani o chi per loro, visto che per poter parlare di vilipendio è evidente che ce ne vuole…