Ci riproponiamo di fare un po’ di chiarezza sui concetti più elementari della nostra vita ed in specie sulla regolamentazione della nostra famiglia e del regime patrimoniale tra coniugi, ma ci sembra opportuno preliminarmente dare un rapido cenno ai rapporti familiari : troppo spesso, infatti, si incorre in errori di valutazione e di confusione tra parenti ed affini, o tra parenti in linea retta e parenti in via collaterale, non sapendo discernere gli uni dagli altri. Quante volte, ad esempio, abbiamo sentito parlare erroneamente di ‘cugino diretto’ o ‘buono’ oppure di fratello-cugino oppure ancora di cugino ‘carnale’…..
L’art. 74 del Codice Civile definisce la parentela come ‘il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite’ laddove per stipite deve intendersi ‘ascendente’, per cui il rapporto di parentela è in linea retta tra ascendenti e discendenti, vale a dire tra padre e figlio, nonno e nipote, ecc. e in linea collaterale tra quelle che, come recita l’art. 75 del codice civile, ‘pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra’ (vale a dire tra fratelli, cugini, zio e nipote, ecc.).
L’art. 76 c.c., poi, stabilisce come si misura il grado della parentela : facendo risalire sempre agli ascendenti di ciascun parente fino a trovare l’ascendente comune, avremo parenti più vicini quando minore sia il numero dei gradi che congiungono i parenti stessi. Ciò significa che, per quanto riguarda la parentela in linea retta, escludendo l’ascendente, avremo :
PARENTELA di I^ grado : padre e figlio
PARENTELA di II^ grado : nonno e nipote
mentre per quanto riguarda la parentela in linea collaterale avremo
PARENTELA di II^ grado : fratelli e sorelle
PARENTELA di III^ grado : zio e nipote
PARENTELA di IV^ grado : cugini (figli di fratelli).
Proviamo, per maggior chiarezza, a fare alcuni conteggi : escludiamo lo stipite, quindi è ovvio che tra padre e figlio siamo parenti in I^ grado e tra nonno e nipote in II^. Un po’ più complesso è il conteggio in linea collaterale : seguiamo il secondo comma dell’art. 76 c.c. salendo ‘da uno dei parenti fino allo stipite comune e a questo discendendo all’altro parente’, sempre tenendo escluso lo stipite. Avremo il grado di parentela di III^ grado tra zio e nipote, in quanto partendo dallo zio e salendo verso il genitore, riscendendo verso il padre del nipote e quindi al nipote, conteremo tre gradi di parentela, mentre tra cugini dovremo aggiungere un altro grado (lo zio).
L’art. 77 pone il limite della parentela al sesto grado.
I rapporti tra coniuge e parenti dell’altro coniuge sono regolati dall’art. 78 che definisce affini moglie (o marito) e genitori del marito (o della moglie) in linea retta nello stesso primo grado e i ‘cognati’ affini in linea collaterale nello stesso secondo grado. L’unico limite che l’affinità determina è rappresentato dall’art. 87 c.c. che vieta il matrimonio tra affini sia in linea retta anche in caso di dichiarazione di nullità o di scioglimento del matrimonio o di pronuncia di cessazione degli effetti civili, salva l’autorizzazione del tribunale dallo stesso articolo prevista, sia in linea collaterale in secondo grado.
Quanto sopra esposto assume particolare rilevanza nel trasferimento di beni per successione mortis causa : l’art. 565 del Titolo II° del Codice Civile stabilisce le categoria di successibili nell’ambito delle successioni legittime (coniuge, discendenti legittimi, ascendenti legittimi, collaterali, agli altri parenti ed infine allo Stato) provvedendo con gli articoli successivi a regolamentare le successioni dei singoli interessati. Ma l’art. 536 c.c. prevede quali sono ‘le persone a favore dei quali la Legge riserva una quota di eredità e cioè coniuge, figli legittimi, figli naturali e ascendenti legittimi : estrapolando la figura del coniuge della quale ci interesseremo in altro articolo, vista la sua complessità, vedremo che ai figli viene riservata la quota di metà in caso di un solo figlio o di due terzi in caso di più figli, legittimi o naturali che siano e che, in assenza di figli, agli ascendenti legittimi viene riservata la quota di un terzo del patrimonio ripartita ex art. 569 tra ascendenti di linea paterna (metà) e di linea materna (metà). I parenti in linea collaterale non sono considerati legittimari, ciò significa che la Legge non riserva loro una quota come abbiamo visto per i parenti in linea retta, quindi, in assenza di coniuge, di figli e di ascendenti possono anche essere esclusi dalla successione per testamento senza che per questo possano avanzare pretese di sorta; in assenza di disposizioni testamentarie succedono a colui che muore in parti uguali, ad eccezione dei fratelli unilaterali che conseguono la metà di quella dei germani in assenza di genitori o, se questi esistono, in parti uguali per capi, fermo restando che ai genitori o ad uno di essi andrà comunque una quota non inferiore alla metà.
Se, poi, chi muore non lascia prole, né genitori, né eredi, né altri ascendenti, né fratelli o sorelle o loro discendenti, la successione si apre a favore del parente o dei parenti prossimi, senza distinzione di linea.
L’ultimo grado di successibilità è il sesto; in mancanza di successibili l’eredità si devolverà di diritto a favore dello Stato.
Fatto questo rapido preambolo che spero abbia fatto un po’ di chiarezza, occupiamoci ora del regime patrimoniale tra coniugi regolamentato dal Capo VI del Codice Civile : l’art. 159 c.c. prevede che in mancanza di diversa convenzione il regime patrimoniale legale della famiglia sia la cd COMUNIONE DEI BENI.
All’atto del matrimonio i nubendi devono enunciare espressamente – l’art. 161 recita ‘in modo concreto’ – come intendono regolare i loro rapporti e non possono derogare ai diritti e doveri stabiliti dalla legge e quindi è loro concessa la facoltà di scelta del regime patrimoniale che regolerà i loro rapporti patrimoniali tra la comunione e la separazione dei beni. Di tale scelta il celebrante darà conto sull’atto di matrimonio.
Per le coppie già costituite l’art. 162 c.c. stabilisce che le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico, così lasciando intendere che si riferisce a matrimoni già celebrati e che le convenzioni riguardino sostanzialmente la modifica della comunione, concedendo tuttavia la possibilità agli sposi di scegliere il regime della separazione dei beni già all’atto di matrimonio, così facendo uscire questa scelta dal sistema delle convenzioni di cui al comma precedente. E’ singolare questa diversa visione del legislatore : se, infatti, la comunione è vista come il regime ‘naturale’ del patrimonio familiare, la separazione dei beni sembrerebbe essere una eccezione al medesimo : infatti, mentre per il regime di comunione legale, che si applica automaticamente, non è richiesta alcuna forma di pubblicità, le convenzioni matrimoniali sono soggette a pubblicità che consiste nella annotazione della convenzione sull’atto di matrimonio, unica condizione per la opponibilità ai terzi, a prescindere dalla buona o mala fede del terzo (anche se si ritiene che pur in mancanza di essa gli effetti scaturenti dalla convenzione possono essere fatti valere nei confronti del terzo che si dimostri essere stato a conoscenza della convenzione stessa al momento dell’acquisto del suo diritto). Prevale in dottrina e giurisprudenza la teoria per la quale l’annotazione sull’atto di matrimonio è requisito essenziale di opponibilità delle convenzioni matrimoniali ancorché aventi ad oggetto beni immobili: in tal caso la trascrizione – necessaria quando la convenzione riguardi immobili – avrebbe funzione di mera pubblicità notizia. Per altri, invece, la trascrizione rappresenterebbe un ulteriore, necessario requisito di opponibilità dell’atto, in aggiunta alla annotazione.
Ricordiamo che prima della riforma del diritto di famiglia era questo regime ad essere l’unico vigente modificato nell’ottica di voler riconoscere al coniuge (rectius alla moglie, per troppo tempo sacrificata) il diritto a partecipare al patrimonio familiare costituito da entrambe i coniugi l’uno con la sua fonte di reddito e l’altra con la gestione oculata dello stesso e quindi con il risparmio familiare, attività questa suscettibile comunque di valutazione economica, al punto di far cadere in comunione – che consiste in una più significativa comproprietà – i beni oggetto della stessa e affidarne la gestione ad entrambe i coniugi.
Va quindi fatta una precisazione : i coniugi il cui matrimonio fu stipulato prima dell’entrata in vigore della Legge 19 maggio 1975 n. 151 (19 settembre 1975) se non hanno stipulato convenzioni avranno i loro beni in separazione dei beni fino al settembre 1975 e dopo tale data in comunione.
Ciò determina una residua autonomia negoziale per il coniuge proprietario del bene acquistato ante settembre 1975 che quindi può tranquillamente alienarlo anche senza il consenso dell’altro coniuge, con le facilmente immaginabili conseguenze familiari.
Dall’entrata in vigore della Legge, peraltro, fu concesso un periodo di transizione regolamentato dall’articolo 228 della citata legge: “le famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della presente legge, decorso il termine di 2 anni dalla detta data, sono assoggettate al regime della comunione legale per i beni acquistati successivamente alla data medesima, a meno che entro lo stesso termine uno dei coniugi non manifesti volontà contraria in un atto ricevuto da notaio o dall’ufficiale dello stato civile del luogo in cui fu celebrato il matrimonio; entro lo stesso termine i coniugi possono convenire che i beni acquistati anteriormente alla data indicata al comma 1 siano assoggettati al regime della comunione salvi i diritti dei terzi”. Il termine scadeva il 20 settembre 1977, ma poi venne prorogato fino al 15 gennaio 1978. Detto termine fu concesso per consentire ai coniugi di decidere la scelta del regime da adottare, lasciando anche al singolo coniuge di poterla effettuare non solo senza il consenso, ma anche senza che l’altro coniuge ne venisse a conoscenza (almeno nell’immediato, per cui si riscontrano numerosi casi di furibonde liti tra coniugi per la scelta unilaterale della separazione dei beni).
Se poi i coniugi, una volta entrata in vigore detta Legge e decorso inutilmente il citato termine di transizione, siano addivenuti alla stipula di una convenzione matrimoniale, si troveranno addirittura ad un triplice temporalmente regime patrimoniale : separazione fino al 19 settembre 1975, comunione fino alla convenzione matrimoniale, separazione dopo la convenzione.
L’art. 177 c.c. indica dettagliatamente quali sono i beni che cadono in comunione
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gli acquisti compiuti dai coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione dei beni strettamente personali di cui all’articolo 179;
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i frutti dei beni propri di ciascun coniuge, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
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i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
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le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
precisando che qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.
Il regime della comunione legale è anche visto come regime della comunione degli acquisti in quanto riguarda gli acquisti effettuati dopo la celebrazione del matrimonio; sono invece esclusi da tale regime i beni appartenenti a ciascuno dei coniugi prima della celebrazione del matrimonio e i beni strettamente personali.
L’acquisto di un bene in costanza di matrimonio cade automaticamente in comunione, anche se formalmente intestato solo ad uno dei coniugi e cioè anche se all’atto di acquisto partecipi uno solo dei coniugi, a prescindere dalla trascrizione e dalla voltura catastale, in quanto rilevante è la provenienza del corrispettivo: l’acquisto cade in comunione se vengono impiegati denaro o beni della comunione o proventi dell’attività separata di uno dei coniugi o anche denaro ricavato dalla alienazione di beni personali, salvo che l’acquirente dichiari espressamente la particolare provenienza del denaro.
Anche gli acquisti a titolo originario (usucapione, acquisti a non domino…) cadono in comunione, salvo che il titolo integri una delle ipotesi di esclusione dalla comunione ovvero di comunione di residuo.
Per il caso in cui i coniugi, in costanza di matrimonio intendano costruirsi una casa su area di terreno di proprietà di uno solo di essi, la Cassazione a Sezioni Unite con sentenza 651 del 1996 ha sancito che la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene esclusivamente a quest’ultimo in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e pertanto non costituisce oggetto della comunione legale, ai sensi dell’art. 177 comma 1 lett. b) c.c.. In siffatta ipotesi, la tutela del coniuge non proprietario del suolo, opera non sul piano del diritto reale (nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione), ma sul piano obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione ma non sarà proprietario in comunione dei beni della casa.
L’art. 179 elenca, invece i beni che non costituiscono oggetto della comunione e come tali definiti beni personali:
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i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
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i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
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i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori (es: indumenti, monili, ecc.);
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i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;
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i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
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i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purchè ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto
precisando che per l’esclusione dalla comunione ai sensi delle lettere c), d), f) del precedente comma, è necessario l’intervento dell’altro coniuge, anche se l’onere della dichiarazione sembra non sussistere laddove risulti certo il carattere personale del corrispettivo, come nel caso di permuta di bene personale (sentenza di Cassazione 1556 del 1993:Qualora in regime di comunione legale dei beni, uno dei coniugi permuti un proprio bene personale con altri (nella specie: terreno edificabile avuto in donazione dalla madre con due appartamenti da realizzare sullo stesso) senza che all’atto partecipi l’altro coniuge che pertanto non renda la dichiarazione di cui all’art. 179, ult. comma, c.c. – dichiarazione avente non natura dispositiva, ma tutt’ al più ricognitiva – i beni per tal via acquistati dal coniuge agente sono suoi personali essendo obiettivamente certo il carattere personale del corrispettivo prestato (non risultando impiegato, infatti, non se ne doveva accertare la provenienza).
Se l’altro coniuge rifiuta di prestare il proprio consenso, il coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione nel caso in cui quella stipulazione sia di particolare interesse per la famiglia o l’azienda. Gli atti compiuti senza il necessario consenso dell’altro coniuge, sono annullabili: l’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e comunque entro 1 anno dalla trascrizione.
La disciplina della comunione legale può essere parzialmente derogata dai coniugi mediante convenzioni matrimoniali: in tal caso si parlerà di comunione convenzionale, vista da parte della dottrina non come un vero e proprio regime patrimoniale ma piuttosto come regolamento integrativo del regime legale. Va precisato che, secondo l’art. 210, i beni indicati alle lettere c), d), e) dell’art. 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale e non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e alla uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale.
L’oggetto della comunione può essere ampliato dai coniugi: ciò significa che possono assoggettare alla comunione anche beni personali: in tal caso verrà a configurarsi atto di liberalità di un coniuge a favore di un altro.
I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro. I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Il conferimento di beni in comunione potrebbe pregiudicare i creditori del coniuge conferente in quanto sottrarrebbe tali beni alla garanzia patrimoniale del loro credito. Ad evitare tale pregiudizio, la legge dispone che nei limiti del valore dei beni conferiti la comunione risponde per le obbligazioni anteriori al matrimonio.
L’azienda, se gestita separatamente non cade in comunione immediata anche se costituita successivamente al matrimonio, salvo che sia stata costituita con l’impiego di denaro o beni della comunione, ma dobbiamo distinguere:
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se costituita da uno dei due coniugi dopo il matrimonio con i propri proventi e gestita senza la collaborazione dell’altro coniuge, non cade in comunione immediata né cadono in comunione i beni destinati all’esercizio dell’impresa: ciò significa che rimane di proprietà del coniuge titolare, al quale spettano incrementi ed utili. In caso di scioglimento della comunione metà dei beni destinati all’impresa e degli incrementi e profitti non consumati spetterà all’altro coniuge;
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se l’azienda è un bene personale del coniuge (es. acquisita per eredità), che la gestisce separatamente, essa rimane di sua esclusiva proprietà e nessun diritto sulla stessa potrà avanzare l’altro coniuge, neanche in caso di scioglimento della comunione;
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se l’azienda è costituita con l’impiego di beni comuni, ma è gestita separatamente dal coniuge, i beni destinati all’azienda rimangono comuni, ma incrementi ed utili spetteranno al coniuge che svolge l’attività; all’altro coniuge spetterà la comunione di residuo su di essi
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se l’azienda è costituita in costanza di matrimonio ed è gestita da entrambe i coniugi cade in comunione immediata .
Come sopra accennato, i coniugi, sia all’atto del matrimonio con dichiarazione resa al celebrante sia successivamente mediante convenzione matrimoniale possono regolare i loro rapporti patrimoniali con la separazione dei beni, cioè con la separazione della gestione e della titolarità esclusiva degli acquisti. In tal caso ciascuno dei due coniugi rimane unico titolare del bene acquistato in costanza di matrimonio e ne ha la piena disponibilità, potendolo gestire autonomamente.
Tale regime si attua anche in conseguenza della pronunziata separazione giudiziale dei beni o di altra causa di cessazione del regime di comunione non incidente sull’esistenza del vincolo matrimoniale (cioè separazione personale dei coniugi e fallimento).
DOTT. STEFANO SABATINI