FOCUS: La storica sentenza della Corte Costituzionale sul ‘doppio cognome’

ANALISI DELLA SENTENZA N. 131 DEPOSITATA IL 31 MAGGIO 2022:  VERSO LA PIENA ATTUAZIONE DEL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DELLA PARITÀ DI GENERE? 

di FEDERICA ANIBALDI**

unknownIntroduzione. Nella sentenza n. 131, depositata oggi, 31 maggio 2022 (redattrice la giudice Emanuela Navarretta), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile “nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”. L’illegittimità costituzionale è stata estesa, in via consequenziale1, anche alle disposizioni sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e al figlio adottato2.

In particolare, la Corte ha rilevato come l’automatica attribuzione del solo cognome paterno “si traduce nell’invisibilità della madre”, ed è il segno di una diseguaglianza fra i genitori, che “si riverbera e si imprime sull’identità del figlio”. Ciò comporta la contestuale violazione degli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) e 14 (“Divieto di discriminazione”) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Nella motivazione della sentenza (anticipate nel Comunicato emesso dall’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale il 27 aprile 2022, e meglio delineate nel Comunicato del 31 maggio, che accompagna il deposito della decisione), la Corte ha spiegato che il cognome “collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis”, “si radica nella sua identità familiare”, e perciò deve “rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori”. Lo stesso, eventuale, accordo fra i genitori volto all’attribuzione di un solo cognome presuppone una regola che ripristini la parità, poiché senza eguaglianza mancano le condizioni per un autentico accordo. 

Pertanto, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale, la Corte ha stabilito che il cognome del figlio “deve comporsi con i cognomi dei genitori”, nell’ordine dagli stessi deciso, fatta salva la possibilità che, di comune accordo, i genitori attribuiscano soltanto il cognome di uno dei due. 

Sarebbe, infatti, in contrasto con i principi costituzionali invocati impedire ai genitori di avvalersi, in un contesto divenuto paritario, dell’accordo per rendere un unico cognome segno identificativo della loro unione, capace di farsi interprete di interessi del figlio. Di conseguenza, l’accordo è imprescindibile per poter attribuire al figlio il cognome di uno soltanto dei genitori. In mancanza di tale accordo – specifica la Consulta – devono attribuirsi i cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dagli stessi deciso. La Corte ha aggiunto che, comunque, qualora vi sia un contrasto sull’ordine di attribuzione dei cognomi, si rende necessario l’intervento del giudice, che l’ordinamento giuridico già prevede per risolvere il disaccordo su scelte riguardanti i figli. 

I Giudici costituzionali hanno colto l’occasione della declaratoria di illegittimità costituzionale per formulare un duplice invito al legislatore. 

In primo luogo, auspicano un “impellente” intervento per “impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome”. Nella sentenza si legge, in proposito, che proprio per la funzione svolta dal cognome, è opportuno che il genitore titolare del doppio cognome scelga quello dei due che rappresenti il suo legame genitoriale, sempre che i genitori non scelgano di optare per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto. 

In secondo luogo, la Consulta ha rimesso alla valutazione del Legislatore “l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle”. Anche a tal fine la sentenza individua una possibile soluzione, ossia quella per cui la scelta del cognome attribuito al primo figlio sia vincolante rispetto ai figli successivi della stessa coppia. 

  1. I giudizi a quo e le relative ordinanze di rimessione.

Le questioni di legittimità costituzionale che hanno dato luogo alla pronuncia della Corte costituzionale sono state sollevate nell’ambito di due analoghe vicende giudiziali, delle quali l’una riguardava una coppia unita in matrimonio, mentre l’altra, di poco precedente, aveva ad oggetto il caso di due genitori non coniugati. 

La prima delle due vicende menzionate è sorta a seguito del rifiuto opposto dal Comune alla richiesta, avanzata da una coppia lucana unita in matrimonio, di attribuire al figlio minore, riconosciuto contemporaneamente da entrambi i genitori, il solo cognome materno. 

I due coniugi, con ricorso presentato al Tribunale di Lagonegro, avevano richiesto in via principale che, previa disapplicazione della “norma consuetudinaria” che, con riferimento a questa fattispecie, dava prevalenza al cognome paterno, in quanto ritenuta contra legem, si ordinasse al Comune di residenza di iscrivere il figlio presso i registri dello stato civile con il solo cognome materno, già proprio delle altre figlie, nate quando i ricorrenti non erano ancora coniugati e riconosciute dalla madre per prima3. Tale iscrizione, infatti, era stata in precedenza denegata dall’ufficiale di stato civile, il quale aveva registrato il neonato con il cognome di entrambi i genitori, e più precisamente con il cognome del padre a cui seguiva quello della madre. In particolare, l’attribuzione del cognome materno in aggiunta a quello del padre era stata possibile per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 2016, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma desumibile, tra gli altri, dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., nella parte in cui non consentiva ai genitori coniugati, i quali ne facessero concorde richiesta al momento della nascita, di poter attribuire al figlio, appunto, anche il cognome materno4.

In subordine, i ricorrenti chiedevano che, ove il giudice avesse aderito alla tesi della “natura legislativa” della norma in base alla quale il figlio di genitori coniugati assume automaticamente il cognome del padre o (in seguito alla summenzionata sentenza n. 286 del 2016) il doppio cognome in caso di loro accordo, ne fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui prevede rispettivamente la prevalenza del cognome paterno o, in caso di accordo dei coniugi, l’attribuzione del doppio cognome, residuando nell’ordinamento italiano l’impossibilità di attribuire al figlio il solo cognome della madre.

Con decreto del 4 novembre 2020 il Tribunale di Lagonegro aveva dichiarato inammissibile il ricorso, basando la propria decisione sul rilievo che la “norma consuetudinaria” dell’attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio poteva essere superata esclusivamente da un intervento legislativo, non potendo il Giudice sostituirsi al Legislatore in un ambito riservato a scelte di politica legislativa. In ogni caso, il giudice aveva escluso che potessero sussistere ragioni per sollevare questioni di legittimità costituzionale, ritenendo che la “invocata tutela della integrità del nucleo familiare” ben potesse essere “salvaguardata dall’attribuzione del cognome di entrambi i genitori a tutti i figli”.

Avverso il decreto del giudice di primo grado i coniugi avevano proposto reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Potenza, anzitutto censurando la mancata disapplicazione della “regola del patronimico” nonostante essa fosse stata qualificata come avente natura consuetudinaria e non legislativa5, ed inoltre dolendosi del mancato accoglimento, da parte del Tribunale, dell’eccezione di legittimità costituzionale della “norma implicita di sistema” in materia di attribuzione del cognome al figlio di genitori coniugati. 

I giudici di secondo grado, con un’ordinanza del 12 novembre 2021, hanno dichiarato infondato il primo motivo di ricorso6, ma hanno accolto il secondo, ritenendo appunto che la controversia sottoposta al loro esame non potesse essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione di legittimità costituzionale. La Corte d’Appello, pertanto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262, 299 c.c., nonché dagli artt. 72, primo comma, del R.d. n. 1238 del 1939 e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solocognome materno. 

Ad avviso del giudice a quo, in particolare, la summenzionata disciplina sarebbe in contrasto anzitutto con l’art. 2 Cost., sotto il profilo del diritto alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea tra i figli e del diritto all’unità familiare7. Secondo il giudice rimettente, poi, la regola del patronimico si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., poiché “la diversità di trattamento tra i coniugi, in quanto espressione di una concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti tra coniugi ormai superata, non è compatibile né con il principio di eguaglianza, né con quello della loro pari dignità morale e giuridica”. Inoltre, il dubbio di legittimità dell’impugnata norma implicita di sistema riguarderebbe l’art. 117, primo comma Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: C.E.D.U.), per mancato rispetto, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti da obblighi assunti dallo Stato italiano a livello internazionale, risolvendosi la norma implicita stessa in una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e, comunque, in una ingiustificata compressione delle scelte familiari8.

Alcuni mesi prima, volontà analoga a quella espressa dalla coppia lucana era stata manifestata da due genitori non uniti in matrimonio, che avevano concordemente espresso la volontà di attribuire alla figlia minore, per esigenze di eufonia, unicamente il cognome della madre. La dichiarazione di nascita, resa con il riconoscimento contemporaneo della figlia dinanzi all’incaricato dal direttore sanitario, e con cui i genitori le avevano attribuito il solo cognome della madre, veniva trasmessa all’ufficiale dello stato civile, che formava l’atto di nascita, riportando il solo cognome materno. Al contempo, il medesimo ufficiale presentava un’istanza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano, affinché venisse promosso il giudizio di rettificazione dell’atto di nascita, e quest’ultimo fosse reso conforme a quanto previsto dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., per effetto della già citata sentenza n. 286 del 2016, che, come detto, ha riconosciuto la possibilità di aggiungere al patronimico il cognome della madre (mentre, nel caso in questione, la volontà di entrambi i genitori era volta all’acquisizione, da parte della figlia, del solo cognome materno). La Procura della Repubblica aveva dunque proposto ricorso al Tribunale di Bolzano9, al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita della minore, dal quale risultava appunto che i genitori avessero attribuito alla figlia il solo cognome materno.

Dal momento che non poteva procedersi ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 262, primo comma, c.c., in considerazione del suo chiaro tenore letterale, con ordinanza depositata il 17 ottobre 2019 il Tribunale di Bolzano chiedeva l’intervento della Corte costituzionale, affinché questa sciogliesse il dubbio di legittimità costituzionale dell’impugnata disposizione, che, quanto al figlio nato fuori dal matrimonio, prevede appunto un rigido automatismo di attribuzione del solo cognome paterno in caso di contestuale riconoscimento del figlio da parte di entrambi i genitori. Un meccanismo che, come evidenziato dal giudice a quo, non risulterebbe derogabile, appunto, neppure nell’ipotesi di concorde diversa volontà dei genitori, espressa al momento della nascita del figlio, di attribuirgli il solo cognome della madre. 

Le disposizioni censurate e i parametri costituzionali ritenuti violati dal Tribunale di Bolzano coincidevano con quelli che sarebbero stati poi enunciati, con la già citata ordinanza del novembre 2021, anche dalla Corte d’Appello di Potenza. In particolare, come si legge nell’ordinanza del giudice di Bolzano, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto anzitutto con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale del figlio, in quanto il valore dell’identità della persona riflesso nel nome, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e nella sua valenza pubblicistica e privatistica, porterebbe a “individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale”. Il contrasto sussisterebbe anche, ad avviso del giudice a quo, anche con l’art. 3 Cost., ossia con il principio di eguaglianza riferito al genere, nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 C.E.D.U.10. In sostanza, il giudice rimettente riteneva che l’acquisizione del cognome alla nascita avvenga unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori, anche in presenza di una diversa volontà comune degli stessi, e che il sistema in vigore deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale, non più compatibile con il principio costituzionale della parità tra uomo e donna.

  1. L’ordinanza di auto-rimessione della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale, esaminando la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano con riferimento all’art. 262, primo comma, c.c., là dove non prevede la possibilità, in caso di accordo tra i genitori, di trasmettere al figlio, nato fuori dal matrimonio ma riconosciuto da entrambi, il solo cognome materno11, e rilevando che le questioni sollevate dal giudice a quo, aventi ad oggetto preclusione della facoltà di scelta del solo cognome materno, sono strettamente connesse alla più ampia questione dell’automatica attribuzione del cognome paterno12, con un raffinato ragionamento giuridico decide di sollevare, disponendone la trattazione davanti a se stessa, la questione di legittimità costituzionale della disposizione impugnata dal Tribunale rimettente, “nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione automatica, alla nascita, del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”13.

In altri termini, il dubbio era se l’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio, come risultante dalla sua stessa sentenza n. 386 del 2016, ossia eventualmente volto all’attribuzione anche del cognome materno, potesse effettivamente rimediare alla disparità fra i genitori stessi, in considerazione del fatto che, in mancanza di tale accordo, prevale comunque quello del padre. La Consulta, ritenendo che la risoluzione di tale questione sia pregiudiziale rispetto alla decisione su quella sollevata dal Tribunale di Bolzano, in ragione del rapporto di presupposizione e continenza tra la questione specifica dedotta dal Tribunale di Bolzano e la più ampia questione avente ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno, con ordinanza n. 18 dell’11 febbraio 2021 solleva dinanzi a sé, come appena detto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma del Codice civile.

In via preliminare, nell’ordinanza di auto-rimessione, la Corte ricorda di essere già stata chiamata, in più occasioni, a valutare la legittimità costituzionale di questa disciplina, con riferimento sia al principio di parità dei genitori, sia al diritto all’identità personale dei figli, sia alla salvaguardia dell’unità familiare. A tale riguardo essa richiama allora la propria giurisprudenza precedente, facendo riferimento, anzitutto, alle ordinanze n. 176 e n. 586 del 1988, dove già era stata evocata l’opportunità di introdurre sistemi diversi di determinazione del nome, egualmente idonei a salvaguardare l’unità della famiglia, senza comprimere l’eguaglianza e l’autonomia dei genitori. 

Con l’ordinanza n. 176, in particolare, era stata dichiarata manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 73 del R.d. n. 1238 del 1939, sollevata sotto il profilo della mancata previsione della facoltà dei genitori di determinare il cognome da attribuire al proprio figlio legittimo mediante la imposizione di entrambi i loro cognomi, e del diritto di quest’ultimo di assumere anche il cognome materno. Nell’occasione, la Corte aveva osservato che “oggetto del diritto dell’individuo alla identità personale, sotto il profilo del diritto al nome, non è la scelta del nome, ma il nome per legge attribuito, come si argomenta dall’art. 22 Cost. in relazione all’art. 6 c.c.”. Inoltre essa aveva affermato che “quanto all’interesse alla conservazione dell’unità familiare, tutelato dall’art. 29, secondo comma, Cost., questo sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia”, mentre “sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro”. La Corte, in quel caso, si limitò a concludere che una tale innovazione era “una questione di politica e di tecnica legislativa”, pertanto di competenza esclusiva del Legislatore14.

L’opportunità di introdurre sistemi di determinazione del nome diversi da quelli fondati sulla regola del patronimico è stata richiamata, in tempi più recenti, nella sentenza n. 61 del 2006. In questa pronuncia la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibile la questione prospettata (giacché una decisione positiva avrebbe costituito una “operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”15), affermava espressamente che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. I Giudici costituzionali manifestavano in questo modo la consapevolezza di come il tema in questione non rimanesse estraneo dai profondi mutamenti culturali e sociali intervenuti nel corso degli anni.

A questo punto del suo excursus, allora, la Corte costituzionale non può che evidenziare l’importanza storica della sua sentenza n. 286 del 2016. In quel caso, la questione sottoposta all’esame della Corte era pur sempre quella della legittimità della regola del patronimico, ma limitatamente alla parte che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere “anche” il cognome materno (mentre – come ricordiamo – nella fattispecie considerata da ultimo dalla Corte il giudice a quo invoca il diritto dei genitori di attribuire concordemente al figlio “soltanto” il cognome della madre). Nella sentenza del 2016, in particolare, preso atto che, a distanza di molti anni dalle pronunce, un “criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi”, non era stato introdotto, la Corte, (“in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”), ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., la Corte – come ricordiamo – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., nonché dall’art. 72, primo comma, del R.d. n. 1238 del 1939 e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno16.

In questa decisione è stata riaffermata la necessità di ristabilire il principio della parità dei genitori, e, in nome di tale principio, è stato sollecitato un “indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia”; nel frattempo, era mantenuta ferma la regola, destinata ad operare in mancanza di accordo espresso dei genitori, dell’attribuzione automatica del cognome paterno. 

Tuttavia, come rileva la Corte nell’ordinanza del 2021, anche dopo questa pronuncia gli inviti rivolti al Legislatore ad una solerte rimodulazione della disciplina, che fosse in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio, non hanno ricevuto séguito. 

Alla Corte, allora, non resta che evidenziare come, in conseguenza della mancata attivazione da parte del Legislatore nel senso indicato dalla pronuncia del 2016, la prevalenza del cognome paterno costituisca tuttora il presupposto delle disposizioni, sopra richiamate, che declinano la regola del patronimico nelle sue diverse esplicazioni, e come tra queste disposizioni certamente rientri l’art. 262, primo comma, c.c., censurato dal giudice rimettente.

A sostegno della decisione di auto-rimessione della questione di legittimità, la Corte osserva poi che, qualora venisse accolta la prospettazione del Tribunale di Bolzano, e dunque fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, allora, in tutti i casi in cui l’accordo manchi (o comunque non sia stato legittimamente espresso), dovrebbe essere ribadita la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno: verrebbe così ad essere riconfermata la prevalenza del patronimico, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata riconosciuta più volte in passato dalla stessa Corte, che in diverse occasioni ha invitato il legislatore a intervenire in merito.

Scendendo nell’esame del merito della questione, la Corte costituzionale sottolinea nella sua ordinanza come neppure l’istituto del consenso, previsto come necessario per potersi avere una deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, “posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome”. Pertanto – conclude sul punto la Corte – “nella perdurante vigenza del sistema che fa prevalere il cognome paterno, lo stesso meccanismo consensuale (che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno) non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori”.

Con riguardo al requisito della non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale, la Corte afferma che esso è rilevabile “nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia”.

Quanto invece ai profili di incompatibilità costituzionale della disciplina sottoposta al vaglio della Corte, quest’ultima evidenzia anzitutto che già in passato, in seno alla stessa giurisprudenza costituzionale, si era osservato che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo”, in quanto l’unità “si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità” (sentenza n. 133 del 1970); e che “la perdurante violazione del principio di uguaglianza ‘morale e giuridica’ dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi” (sentenza n. 286 del 2016). 

In secondo luogo, con riferimento alla tutela del diritto all’identità del minore, di nuovo le parole impiegate dalla Corte nella sua ordinanza del 2021 sono quelle della sentenza n. 286 del 2016, per cui “la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno”.

Infine, posto che il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, c.c. anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 C.E.D.U., la Corte costituzionale ribadisce che, a questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo c. Italia, ha ritenuto che “la rigidità del sistema italiano – che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa volontà concordemente espressa dai genitori – costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli art. 8 e 14 C.E.D.U.”, e pertanto ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi, nella misura in cui era stata negata loro la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre17.

Poste queste considerazioni, che inducono la Corte a “dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico, che trova espressione nell’art. 262, primo comma, c.c.”, i Giudici costituzionali affermano appunto di non potersi esimere, ai fini della definizione del giudizio di costituzionalità, dal risolvere pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

  1. La sentenza n. 131 del 31 maggio 2022 della Corte costituzionale.
    1. Introduzione.

Come preannunciato in apertura del presente articolo, con sentenza n. 131, depositata in data odierna, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime tutte le disposizioni che prevedono un meccanismo di attribuzione automatica, al figlio18, del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi19.

Venendo dunque all’esame delle considerazioni in diritto contenute nella motivazione della sentenza, possiamo evidenziare come la Corte, giudicando fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Bolzano, ritenga necessario, in via preliminare, richiamare i tratti caratterizzanti l’art. 262, primo comma, c.c., la ratio legislativa ad esso sottesa, nonché gli interventi precedenti della stessa Consulta, interpellata più volte in merito alla legittimità costituzionale della disciplina stessa.

La Corte inizia il suo iter logico col delineare la storia della disposizione in esame: anzitutto, questa riflette la disciplina sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (che è l’istituto nell’ambito del quale si rinviene la matrice legislativa della regola), e in particolare la formulazione, antecedente alla riforma del diritto di famiglia attuata dalla legge n. 151 del 1975, dell’art. 144 c.c.20. In tale contesto, come evidenzia la Corte, “il cognome del marito imposto alla moglie era quello della famiglia, il che rendeva superfluo esplicitare la sua trasmissione ai figli nati nel matrimonio”. 

La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha novellato l’art. 144 c.c. e ha introdotto l’art. 143-bis c.c., prevedendo l’aggiunta e non più la sostituzione del cognome del marito a quello della moglie, disposizione univocamente interpretata nel senso che attribuisca a quest’ultima una facoltà e non un obbligo. “La nuova disciplina” – afferma la Corte – “pur evidenziando un persistente riflesso della vecchia potestà maritale, ha reso meno nitida l’immagine del cognome del marito quale cognome di famiglia”. Ciononostante, “la norma sull’attribuzione del cognome del padre ai figli è rimasta solidamente radicata su un complesso di disposizioni, alle quali si ascrive anche quella censurata, che non è stata scalfita neppure dalla riforma della filiazione”, riforma contenuta nella legge n. 219 del 2012 (“Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”) e nel decreto legislativo n. 154 del 2013 (“Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione”).

Sempre in via preliminare, poi, la Corte costituzionale ricorda, come già aveva fatto nell’ordinanza di auto-rimessione, che essa stessa è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della norma censurata. A tal proposito richiama i riferimenti, già contenuti nella stessa ordinanza del 2021, all’ordinanza n. 176 del 1988 e alla sentenza n. 61 del 2006 (peraltro ripresa dalla successiva ordinanza n. 145 del 2007), nonché, da ultimo, alla oramai nota sentenza n. 286 del 2016.

A questo punto la Corte precisa che due sono i profili rispetto ai quali essa viene nuovamente chiamata a giudicare la legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c.: con l’ordinanza del Tribunale di Bolzano si denuncia la sua illegittimità costituzionale nella parte in cui essa non consente di attribuire, con l’accordo fra i genitori, il solo cognome della madre, e pertanto si invoca un intervento additivo avente un contenuto radicalmente derogatorio della regola generale sull’automatica trasmissione del cognome paterno; invece, con l’ordinanza della stessa Corte, quale giudice a quo, si prospetta, in via pregiudiziale, un intervento sostitutivo della norma, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’attribuzione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.

Quanto poi ai parametri costituzionali, sui quali si incentrano le comuni censure delle due ordinanze, questi sono l’art. 2 Cost., in relazione alla tutela dell’identità del figlio, e l’art. 3 Cost., invocato a difesa del principio di eguaglianza nei rapporti fra i genitori. Analogamente, il contrasto con i “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”, di cui all’art. 117, primo comma, Cost., si configura con riguardo alla protezione dell’identità personale del figlio, mediata dall’art. 8 C.E.D.U., e al divieto di discriminazioni, di cui all’art. 14 C.E.D.U.

    1. L’esame del merito delle questioni di legittimità costituzionale.

Prospettato dunque il quadro delle censure sollevate con le summenzionate ordinanze, i Giudici costituzionali passano ad evidenziare l’intreccio sussistente, nella disciplina dell’attribuzione cognome, fra il diritto all’identità personale del figlio e l’eguaglianza tra i genitori, contemplati rispettivamente negli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Quanto allo specifico aspetto del diritto all’identità personale, la Corte afferma che “il cognome, insieme con il prenome, rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona: le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato, e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati”21. Dopo aver evidenziato che “la norma censurata riguarda, in particolare, il momento attributivo del cognome, che, di regola, è legato all’acquisizione dello status filiationis”, la Consulta fa conseguire da tale constatazione quella per cui “il cognome, quale fulcro – insieme al prenome – dell’identità giuridica e sociale, collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis”. Ed aggiunge che “il cognome deve, pertanto, radicarsi nell’identità familiare e, al contempo, riflettere la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona”. Dunque – conclude la Corte preliminarmente – “sono proprio le modalità con cui il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori”.

Posto allora che, nella fattispecie disegnata dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, c.c., l’identità familiare del figlio, che preesiste all’attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi, “il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare; e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare”, la selezione legislativa, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre. La Corte è determinata nell’affermare che, “a fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna”.

L’automatismo previsto dalla disposizione impugnata, dunque, recherebbe, volendo usare le parole della Consulta, “il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio”: in questo modo si ha violazione non solo dell’art. 2 Cost., secondo quanto finora enunciato, ma anche dell’art. 3 Cost.

Con riferimento a questo secondo profilo di incostituzionalità, la Corte evidenzia, richiamando anche qui le sue precedenti pronunce, che la norma sull’attribuzione del cognome del padre è il “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”, “il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto”.

Tale automatismo – spiega la Corte – non trova alcuna giustificazione né, appunto, nell’art. 3 Cost., “sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l’interesse del figlio”, né nel coordinamento tra principio di eguaglianza e “finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.” (qui, in particolare, il riferimento è ancora una volta alla sentenza “pilastro” del 2016). 

Più nel dettaglio, la Corte specifica come la stessa riforma del diritto di famiglia del 1975, pur non modificando la sulla disciplina dell’attribuzione del cognome ai figli, tuttavia abbia contribuito a “mettere a fuoco il senso del rapporto fra eguaglianza e unità familiare”: l’unità della famiglia fondata sul matrimonio si basa sull’esistenza di stessi diritti e doveri in capo ai coniugi (art. 143 c.c.), sulla reciproca solidarietà e sulla condivisione delle scelte (art. 144 c.c.). “Parimenti, l’assunzione di responsabilità in capo ai genitori, dentro e fuori il matrimonio, si radica nell’eguaglianza fra di loro e nell’accordo sulle decisioni che riguardano il figlio”.

Insomma, “unità ed eguaglianza non possono coesistere se l’una nega l’altra, se l’unità opera come un limite che offre un velo di apparente legittimazione a sacrifici imposti in una direzione solo unilaterale”. Queste considerazioni portano la Corte a reputare non più tollerabile “il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno”.

I Giudici costituzionali, infine, sempre con riferimento ai parametri costituzionali fondanti le censure sollevate con le ordinanze esaminate, non tralasciano di richiamare le conclusioni raggiunte su tali aspetti dalla già citata sentenza Cusan e Fazzo contro Italia della Corte EDU, osservando come, sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, gli obblighi internazionali, cui si è vincolato l’ordinamento italiano con l’art. 117, primo comma, Cost., abbiano sollecitato l’“eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari […], compresa la scelta del cognome” (sentenza n. 61 del 2006, con riferimento, in particolare, all’art. 16 della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979).

    1. Il rapporto di pregiudizialità tra l’ordinanza di auto-rimessione della Corte e l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bolzano. L’esame delle questioni pregiudiziali.

Occorre ricordare, a questo punto, che l’ordinanza di auto-rimessione aveva posto le questioni di legittimità costituzionale in via pregiudiziale rispetto a quelle sollevate dal Tribunale di Bolzano, che denunciava l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c. nella parte in cui tale disposizione non consente, sulla base di un accordo fra i genitori, di attribuire al figlio il solo cognome della madre. Ecco che allora la Corte, come preannunciato nella stessa ordinanza di auto-rimessione, si spinge a valutare prioritariamente, in ragione del rapporto di presupposizione e continenza tra la questione specifica dedotta dal giudice di Bolzano e la più ampia questione avente ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno, la sussistenza o meno di un eventuale contrasto tra quest’ultimo automatismo e i parametri costituzionali sopra enunciati.

A tal riguardo, la Corte rileva anzitutto che “il cardine su cui il Tribunale di Bolzano fonda il suo petitum, vale a dire l’accordo fra i genitori in funzione derogatoria, presuppone il rispetto del principio di eguaglianza”. 

Ebbene, posto che “a fronte di una disciplina che garantisce l’attribuzione del cognome del padre, la madre è posta in una situazione di asimmetria, antitetica alla parità, che, a priori, inficia le possibilità di un accordo, tanto più improbabile in quanto abbia a oggetto l’attribuzione del solo cognome materno, ossia il radicale sacrificio di ciò che spetta di diritto al padre”, la Corte evidenzia come in questo contesto verrebbe a mancare l’eguaglianza, e in assenza di eguaglianza verrebbero a mancare “le condizioni logiche e assiologiche di un accordo”.

La conclusione dei Giudici costituzionali, allora, è quella per cui “la regola dell’automatica attribuzione del cognome paterno, nel violare il principio di eguaglianza, racchiude un vizio di legittimità costituzionale che inficia ab imis anche l’elemento costitutivo dell’intervento additivo invocato dal Tribunale di Bolzano” con la sua ordinanza di rimessione.

Di conseguenza, la Corte non può più esimersi dal rendere effettiva la “legalità costituzionale”, il che significa, come si evince dal successivo iter logico-argomentativo dei Giudici, non solo pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dei meccanismi che, nell’ordinamento giuridico italiano, determinano l’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno, ma anche rimuovere, “con una regola che sia il più semplice e automatico riflesso dei principi costituzionali coinvolti”, “il carattere in sé discriminatorio della disposizione censurata, il suo riverberarsi sull’identità del figlio e la sua attitudine a rendere asimmetrici, rispetto al cognome, i rapporti fra i genitori devono essere”. 

“Il cognome del figlio deve comporsi con i cognomi dei genitori, salvo loro diverso accordo”. In particolare – afferma la Corte – “l’illegittimità costituzionale della norma che comportava la preferenza per il cognome paterno rende ora necessario individuare un ordine di attribuzione dei cognomi dei due genitori compatibile con i principi costituzionali e con gli obblighi internazionali”, posto che “la proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis: trasla sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori, essendo al contempo il riconoscimento più immediato e diretto «del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali”.

Pertanto, non si potrà – avverte il Giudice delle Leggi – “riprodurre, con un criterio che anteponga meccanicamente il cognome paterno, o quello materno, la medesima logica discriminatoria” alla base della declaratoria di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza: in base al più volte richiamato principio di parità, dunque, l’ordine dei cognomi del figlio sarà (anche sulla scorta delle previsioni adottate negli altri Paesi europei che prevedono l’attribuzione del doppio cognome) quello concordato dai genitori. L’eventuale disaccordo, in mancanza di diversi criteri che eventualmente potranno essere previsti dal Legislatore, non potrà che essere composto mediante il ricorso all’intervento del giudice22.

    1. L’esame delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Bolzano.

Posta la soluzione delle questioni presupposte, la Corte passa all’esame di quelle sollevate dal Tribunale di Bolzano con l’ordinanza di rimessione del 17 ottobre 2019, come fatte proprie dall’ordinanza di auto-rimessione. Quest’ultima – spiega la Corte – ha posto questioni di legittimità costituzionale della norma, che impone l’attribuzione del cognome paterno, in luogo di quelli di ambo i genitori, “in mancanza di diverso accordo”, così riferendosi alla possibilità di derogare all’attribuzione del cognome di entrambi i genitori. E, invero – precisa la Corte – “quanto prospettato dal Tribunale di Bolzano – ossia il sospetto di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non consente, sulla base di un accordo, di attribuire il solo cognome della madre – si ripropone in termini esattamente speculari anche per la posizione del padre”.

Chiaramente, come afferma la Corte, “nel rispetto dell’imprescindibile legame fra il cognome del figlio e lo status filiationis, il «diverso accordo» resta circoscritto al cognome di uno dei due genitori e incarna la loro stessa volontà di essere rappresentati entrambi, nel rapporto con il figlio, dal cognome di uno di loro soltanto”.

Sulla base di queste premesse, allora, la Corte ritiene costituzionalmente illegittima la mancata previsione della citata regola derogatoria, “poiché impedisce ai genitori di avvalersi, in un contesto divenuto paritario, di uno strumento attuativo del principio di eguaglianza, qual è l’accordo, per compendiare in un unico cognome il segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete di interessi del figlio”.

A proposito dell’“accordo” dei genitori, la Corte apre infine un ampio raggio di opzioni: “l’accordo può guardare in proiezione futura alla funzione identitaria che svolge il cognome per il figlio e può tenere conto di preesistenti profili correlati allo status filiationis, quale il legame con fratelli o sorelle, che portano il cognome di uno solo dei due genitori”; “potrebbe trattarsi del cognome del padre, come di quello della madre, che potrebbe aver riconosciuto i precedenti figli prima del padre”; infine, non dovrebbe trascurarsi “l’eventualità che i genitori – nell’interesse del figlio – condividano la scelta di trasmettere il cognome del solo genitore che abbia già altri figli, dando così prioritario risalto al rapporto tra fratelli e sorelle”.

    1. Le dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

In conclusione, ritenendo fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dall’ordinanza di auto-rimessione del 2021 e dall’ordinanza del Tribunale di Bolzano del 2019, la Corte enuncia la nuova “regola” per cui, “per poter attribuire al figlio il cognome di uno dei genitori, è necessario il loro accordo, non surrogabile in via giudiziale, in quanto implica la scelta di identificare con il cognome di uno dei genitori il duplice legame con il figlio”, aggiungendo che “in mancanza di tale accordo, devono attribuirsi i cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dagli stessi deciso”. Ove poi difetti l’accordo sull’ordine di attribuzione dei cognomi dei genitori, che è parte della regola suppletiva, il contrasto dovrà essere risolto con lo strumento che le norme attualmente vigenti predispongono, ossia quello dell’intervento giudiziale.

In conclusione, la Corte dichiara “costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”. 

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione determina, in via consequenziale, come già detto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale anche della norma che disciplina l’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio: ciò, in ragione della loro sostanziale identità di contenuto, tant’è – evidenzia la Corte – che la disposizione censurata è fra quelle da cui si evince la norma di sistema23. Analogamente a quanto stabilito con riferimento all’art. 262, primo comma, c.c., la norma sull’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima “nella parte in cui prevede l’attribuzione del cognome del padre al figlio, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, volto all’attribuzione del cognome di uno di loro soltanto”.

Per le medesime ragioni esposte con riferimento alla norma sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, sempre in via consequenziale, dell’art. 299, terzo comma, c.c., che, nell’ambito della disciplina sull’adozione del maggiore d’età da parte dei coniugi, dispone che “l’adottato assume il cognome del marito”24, nonché dell’art. 27 della legge n. 184 del 1983, secondo cui, per effetto dell’adozione, l’adottato “assume e trasmette il cognome” degli adottanti, univocamente interpretato con riferimento al cognome del marito25.

    1. Gli inviti rivolti dalla Corte costituzionale al Legislatore.

Come anticipato, come corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, la Corte costituzionale formula un duplice invito al Legislatore.

In primo luogo, rileva come sia necessario un “impellente” intervento, finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome: ciò, anche in considerazione del fatto che, a partire dal 2006, varie fonti normative (enunciate nel dettaglio dalla Corte) hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi, che la sentenza n. 286 del 2016 ha consentito, sulla base di un accordo fra i genitori, l’attribuzione del cognome della madre in aggiunta a quello del padre, e che “da ultimo, il presente intervento rende l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori regola di carattere generale”. “La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l’interesse preminente del figlio, indica l’opportunità di una scelta”, da parte del genitore titolare del doppio cognome, “di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale”: ciò, “sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto”.

In secondo luogo, la Corte invita il Legislatore a tutelare, nella predisposizione della disciplina, “l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle”. Ciò – suggerisce la Consulta – “potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia)”.

Da ultimo, la Corte precisa che “tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardano il momento attributivo del cognome al figlio”, sicché la sentenza in esame “dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo”: “il cognome, infatti, una volta assunto, incarna in sé il nucleo della nuova identità giuridica e sociale, il che comporta che possibili vicende che incidano sullo status filiationis o istanze di modifica dello stesso cognome siano regolate da discipline distinte rispetto a quelle relative al momento attributivo”26.

  1. Conclusioni.

Senza dubbio vi è da rilevare come le dirompenti parole dei Giudici costituzionali siano un forte segno del mutare dei tempi, nonché un’espressione plastica della volontà della Corte di dare attuazione (se del caso, appunto, dettando essa stessa la regola che dovrebbe indirizzare il Legislatore) a quel principio di parità di genere che a fatica, e secondo un trend iniziato solo dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, sta riuscendo a svincolarsi dalle strette maglie di quella “dimensione patriarcale” di cui parlava la Corte stessa nella sua sentenza del 2016. 

Ora non rimane che confidare in un tempestivo intervento del Legislatore, per troppo tempo rimasto inerte di fronte alle plurime pressioni della giurisprudenza27 e al vivace dibattito dottrinale. La speranza è che il nostro ordinamento tuteli adeguatamente le istanze privatistiche, ben espresse dalle parole della Corte, connesse all’uso del cognome, mediante la previsione di una disciplina organica, secondo criteri finalmente consoni al principio di eguaglianza (da intendersi, come “non discriminazione” e “parità reciproca”) di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell’identità personale del figlio, eventualmente traendo spunto dalle legislazioni degli altri Paesi europei nei quali si sia pervenuti, sia pure con soluzioni diverse, ad un regime meno discriminatorio nei confronti della donna e più coerente con l’esigenza di tutelare il diritto all’identità personale del minore ad essere identificato sin dalla nascita anche con il cognome della madre28.

Sembra utile, in chiusura del presente articolo, evidenziare che il Tribunale di Pesaro, con provvedimento emesso in data 28 aprile, ha emanato quella che possiamo ritenere la prima decisione di un Tribunale italiano relativa all’assegnazione del cognome materno al figlio minorenne di genitori non coniugati, in applicazione della sentenza della Corte costituzionale in commento. In particolare, il giudice pesarese ha accolto il ricorso di una madre che aveva chiesto di poter trasmettere alla figlia anche il proprio cognome, oltre a quello del padre, il quale invece si opponeva a tale richiesta. Nel decreto, il Tribunale, ordinando all’Ufficiale dello Stato civile del Comune ove risiede la minore di modificare lo stato di nascita della stessa, con l’aggiunta del cognome materno, espressamente ha richiamato la sentenza della Corte costituzionale. 

Che sia l’inizio di una nuova “era” giuridica? NOTE:

1 Ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”).

2 Cioè, rispettivamente: alla norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, c.c., 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983 (“Diritto del minore ad una famiglia”) e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 (“Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127”), quanto al figlio di genitori uniti in matrimonio; e all’art. 299, terzo comma, c.c., nonché all’art. 27, primo comma, della legge n. 184 del 1983, quanto al figlio di genitori adottivi.

3 L’attribuzione del solo cognome materno alle figlie nate prima della celebrazione del matrimonio era avvenuta ai sensi dell’art. 262, primo comma, c.c., che, a seguito della riformulazione intervenuta ad opera del d.lgs. n. 154 del 2013, recita attualmente: “Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto”. In particolare, il fine dei ricorrenti era quello di consentire all’ultimo nato di formare la sua identità in maniera omogenea a quella delle sorelle maggiori.

4 La dichiarazione di illegittimità costituzionale era peraltro estesa, in via consequenziale, all’art. 262, primo comma e all’art. 299, terzo comma c.c., nella parte in cui non consentivano, ai genitori del figlio nato fuori dal matrimonio, da un lato, e ai coniugi adottanti, in caso di adozione compiuta da entrambi, dall’altro, di trasmettere di comune accordo al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno.

Con la richiamata pronuncia e dal giorno successivo alla sua pubblicazione, veniva definitivamente rimossa dall’ordinamento la preclusione, implicita nel sistema di disposizioni passate al vaglio della Corte costituzionale, della possibilità di attribuire al figlio, al momento della nascita e in presenza del comune accordo dei genitori, anche il cognome materno. 

Ai fini della pratica attuazione del provvedimento, era stata diramata dal Ministero dell’Interno la circolare n. 1/2017, volta a portare a conoscenza dei Sindaci le novità conseguenti dalla pronuncia della Consulta. La circolare sollecitava a dare le opportune direttive agli uffici di stato civile per la puntuale applicazione dei principi di diritto affermati nella richiamata sentenza.

5 Sebbene nel nostro ordinamento non esista una previsione normativa espressa in base alla quale al figlio nato da genitori coniugati deve essere attribuito il cognome del padre, tale automatismo costituisce comunque una regola operativa, osservata e fatta rispettare dalle istituzioni preposte. Ci si è allora interrogati, in dottrina e in giurisprudenza, in ordine alla sua natura di questa disposizione. Sull’alternativa tra norma consuetudinaria (fondata sulla risalente tradizione dell’attribuzione ai figli del cognome paterno) e norma implicita di sistema (scaturente da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse da questa, contenute prevalentemente nel Codice civile), l’orientamento privilegiato dalla giurisprudenza, nonché dalla stessa Corte d’Appello di Potenza nel caso in esame, aderisce alla seconda tesi. In particolare, i sostenitori di tale secondo orientamento tendono ad identificare una serie di eterogenee previsioni normative dalle quali, come afferma la Corte di Cassazione nella sua sentenza n. 13298 del 2004, “si desume (…) l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa” e che “si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo”, alla stregua della quale “il cognome del figlio legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo”. Nello stesso senso, peraltro, si esprime anche la Corte costituzionale nella summenzionata sentenza n. 286 del 2016.

Le disposizioni che, in combinato disposto fra loro, porterebbero a ritenere che esista una regola implicita di sistema, conforme agli usi e in base alla quale il figlio assume il cognome del padre, sono gli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262 e 299, comma 3, c.c. nonché gli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, sia pure con le rilevanti modifiche introdotte dalla riforma della disciplina sulla filiazione.

6 Secondo la Corte d’Appello, la “regola del patronimico”, desumibile dalle previsioni normative di cui abbiamo detto, non sarebbe suscettibile di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata, e pertanto dovrebbe essere disapplicata. Siffatta regola sarebbe, infatti, caratterizzata da “automatismo”: d’altronde – precisano i giudici d’appello – il fatto che nel 2016 la Corte costituzionale è intervenuta su analoga questione con sentenza di accoglimento, presupporrebbe, appunto, l’impossibilità di una diversa interpretazione della norma denunciata.

7 I giudici rilevano come, nel caso in questione, la scelta dei genitori di attribuire il solo cognome materno al terzogenito non sia riconducibile ad un “capriccio”, bensì all’esigenza di tutelare l’interesse dei tre figli minori ad un armonico sviluppo della personalità e alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea, contribuendo all’unità familiare mediante l’adozione del medesimo cognome. Seguendo il ragionamento del decreto impugnato, i reclamanti sarebbero stati costretti ad attribuire al terzogenito un cognome differente da quello delle sorelle: ciò, in ragione del matrimonio intervenuto successivamente alla nascita delle due figlie, riconosciute dalla madre per prima. In alternativa, i genitori avrebbero potuto attribuire anche alle prime due figlie il doppio cognome, a questo punto con pregiudizio per l’identità di queste ultime (in particolare per la figlia più grande, segnatamente undicenne a quel tempo, e, dunque, con identità pienamente formata nella comunità, innanzitutto scolastica).

8 A tal proposito, la Corte d’Appello richiama espressamente la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 7 gennaio 2014Cusan e Fazzo c. Italia, nella parte in cui afferma che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale “dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane”. In particolare, come evidenziato dalla Corte E.D.U., la preclusione all’attribuibilità al figlio del solo cognome materno, secondo la Corte E.D.U., integrerebbe la violazione dell’art. 14 (“Divieto di discriminazione”), in combinato disposto con l’art. 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) della C.E.D.U., principi che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,, che pure verrebbero in rilievo.

9 Ai sensi dell’art. 95, secondo comma, del d.P.R. n. 396 del 2000.

10 A riguardo, anche l’ordinanza del Tribunale di Bolzano richiama la sentenza della Corte E.D.U., Cusan e Fazzo c. Italia.

11 Dunque l’attribuzione cognome materno in sostituzione di quello paterno, e non semplicemente, come previsto nella sentenza n. 286 del 2016, “in aggiunta a” quello paterno.

12 Infatti, come rilevano i Giudici costituzionali, la secolare prevalenza del cognome paterno trova il suo riconoscimento normativo, oltre che nella disposizione censurata dal giudice rimettente, negli artt. 237 e 299 c.c.; nell’art. 72, primo comma, del R.d. n. 1238 del 1939; negli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000.

13 Come afferma la Corte nella motivazione dell’ordinanza in esame, con parole già impiegate in sue precedenti pronunce, infatti, “il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite”.

14 Con l’ordinanza n. 586 del 1988, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione, degli artt. 6, 143-bis, 236, 237, secondo comma, 262, secondo comma, c.c., nella parte in cui non prevedevano la possibilità per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, la Corte, nel concludere per la manifesta inammissibilità della questione, ribadì le argomentazioni contenute nella precedente ordinanza n. 176 del 1988. 

Nell’occasione si precisò che il denunciato limite derivante dall’ordinamento vigente alla uguaglianza dei coniugi non è in contrasto con l’art. 29 della Costituzione, in quanto utilizza una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela della unità della famiglia fondata sul matrimonio e che, oltre al sistema preferito dal giudice rimettente, si prospetta un’altra soluzione, che evita la «complicazione del doppio cognome», ponendosi pertanto un problema di scelta del sistema più opportuno e delle relative modalità tecniche, la cui decisione compete esclusivamente al legislatore.

15 Nella sua sentenza del 2006 la Corte osservava come, nonostante l’attenzione prestata dal giudice rimettente a circoscrivere il petitum, attraverso una limitazione di questo alla “richiesta di esclusione dell’automatismo della attribuzione al figlio del cognome paterno nelle sole ipotesi in cui i coniugi abbiano manifestato una concorde diversa volontà”, comunque venisse lasciata aperta una serie di altre opzioni. Ad esempio: quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente a detta volontà; quella di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare ad una regola pur sempre valida; quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi. 

16 Dichiarazione di illegittimità costituzionale estesa in via consequenziale e negli stessi termini, come già detto, all’art. 262, primo comma, quanto ai figli di genitori non coniugati, e all’art. 299, terzo comma, c.c., quanto ai figli di genitori adottivi.

17 Nella specie, la richiesta congiunta dei coniugi per l’attribuzione del cognome materno alla figlia era stata respinta dall’ufficiale dello stato civile, che aveva d’ufficio attribuito il cognome paterno. Il Tribunale di Milano aveva quindi rigettato il ricorso dei genitori, sul presupposto che, anche se nessuna previsione espressa di legge imponeva di registrare il figlio di una coppia coniugata con il nome del padre, questa regola corrispondeva ad un principio radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana.

Esaurite le vie di ricorso interno senza successo, i genitori si sono rivolti alla Corte EDU, lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione (che protegge la famiglia), da solo o in relazione all’art. 14 (che vieta le discriminazioni di genere), nonché la violazione dell’art. 5 del protocollo addizionale alla Convenzione n. 7 (che sancisce l’uguaglianza tra i coniugi tra loro e nelle loro relazioni con i figli).

Con la sentenza in questione, la Corte di Strasburgo, pur nella consapevolezza dell’assenza di previsione espressa sul punto nell’art. 8 della C.E.D.U., ha ricordato che il nome è strumento per determinare sia l’identità personale sia la connessione della persona con una famiglia, ricollegandosi in tal modo la sua tutela anche al diritto al rispetto della vita privata e familiare della persona. Ritenuto che il diritto azionato rientri quindi nel campo di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, la Corte ne ha dedotto l’applicabilità dell’art. 14 (norma che non ha ambito autonomo di applicazione, ma ha operatività solo correlata ad altro diritto protetto dalla Convenzione), in particolare del divieto di discriminazioni tra i sessi in esso contenuto. La Corte E.D.U. ha così condiviso l’assunto dei ricorrenti, secondo i quali le disposizioni della legge nazionale non garantivano la parità tra i coniugi, ed ha ritenuto che lo Stato italiano avrebbe dovuto prevedere la possibilità di assegnare il nome della madre, se vi fosse consenso dei genitori su questo punto. 

18 Il riferimento della pronuncia è a tutti figli: siano essi nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio o adottivi.

19 Si noti come in questo caso la Corte costituzionale non abbia perseguito la via del monito al Legislatore, né abbia impiegato quella modalità, innovativa ma oramai consueta nel modus operandi della Corte, consistente nel concedere al Legislatore un tempo prestabilito per modificare una disciplina vigente in senso costituzionalmente compatibile senza dichiararla, nel frattempo, incostituzionale. Strada, quest’ultima, che invece la Consulta ha più volte seguito in precedenza, in particolare nel pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, ad esempio, l’incriminazione del suicidio assistito e l’ergastolo ostativo. 

20 “Il marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la residenza”.

21 La Corte, in particolare, cita a questo riguardo una serie di sue precedenti pronunce, in cui compare la costante affermazione secondo cui il nome è “autonomo segno distintivo della […] identità personale” (sentenza n. 297 del 1996), nonché “tratto essenziale della […] personalità” (sentenza n. 286 del 2016), “riconosciuto come un bene oggetto di autonomo diritto dall’art. 2 Cost.”, e dunque come “diritto fondamentale della persona umana” (sentenza n. 268 del 2002).

22 Il riferimento della Corte è in particolare ai rimedi previsti dagli artt. 316, commi secondo e terzo, c.c., nonché – con riferimento alle situazioni di crisi della coppia – dagli artt. 337-ter, terzo comma, 337-quater, terzo comma, e 337-octies c.c.

23 Oltre all’art. 262, primo comma, c.c., la Corte fa riferimento anzitutto all’art. 299, terzo comma, c.c., sull’adozione da parte dei coniugi del maggiore d’età, il quale dispone che “l’adottato assume il cognome del marito”, ma poi anche all’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, il quale stabilisce che l’adottato assume e trasmette il cognome degli adottanti, posto che tale cognome, in conformità allo stato di figlio nato nel matrimonio dei coniugi adottanti, viene univocamente riferito a quello del marito. Ancora, la Corte rileva, quanto ai figli nati nel matrimonio, che è tuttora presupposta l’attribuzione del cognome del padre dalla norma che vieta di assegnare al bambino lo stesso nome del padre o del fratello o della sorella viventi: tale disciplina si rinviene attualmente nell’art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000.

24 L’art. 299, terzo comma, c.c. è, dunque, costituzionalmente illegittimo, in particolare “nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome del marito, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto”.

25 Anche l’art. 27 della legge n. 184 del 1983 è, pertanto, costituzionalmente illegittimo, in particolare “nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto”.

26 Motivo per cui, come afferma la Corte, “eventuali richieste di modifica del cognome, salvo specifici interventi del legislatore, non potranno, dunque, che seguire la procedura regolata dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, come sostituito dall’art. 2, primo comma, del d.P.R. n. 54 del 2012”.

27 Già nella sentenza n. 286 del 2016, infatti, la Corte costituzionale riteneva “indifferibile” l’intervento del Legislatore in materia di attribuzione del cognome al figlio.

28 In Germania, ad esempio, permane il rifiuto del c.d. Doppelname, e, pertanto, ai figli viene in ogni caso attribuito un unico cognome (ovvero quello del padre o della madre secondo la libera volontà dei genitori) oppure un cognome familiare comune (c.d. Ehename).

 

*** ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE PER IL MESE DI MAGGIO del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata

 

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