di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)
Tutti gli snodi alla base del secondo capitolo della saga spin-off di Rocky, dal momento dei primi annunci sulla storia e i personaggi sembravano fare di Creed II un’operazione di marketing mettendo a confronto il figlio di Apollo Creed contro il figlio di Ivan Drago; insomma una forzatura o una scorciatoia per legittimare il continuo di un franchise.
Invece quel che di più efficace Creed II trasmette è proprio la parabola della famiglia Drago. Il film si apre con Adonis che si appresta a diventare campione del mondo raggiungendo velocemente prestigio e benefici, pronto definitivamente a scrivere la propria storia senza il peso dell’ombra di un padre che non ha mai conosciuto e forse definitivamente emancipato da un legame altrettanto paterno con Rocky, la cui primissima entrata in scena definisce ancora più del primo film la stanchezza e la solitudine di un uomo che non brilla più sotto la luce dei riflettori. Persino il lampione sotto la sua abitazione è spento da anni nonostante le insistenti chiamate dello Stallone Italiano agli uffici comunali per far sostituire una semplice lampadina.
Creed II è come se fosse il retro copertina di Rocky IV, lì il rigore e l’imponenza dell’Unione Sovietica venivano sgretolati dal coraggio e dal cuore di un individuo (Rocky) che al di là di sconfitte e vittorie è sempre stato un losers ma non per questo ha permesso che la società lo relegasse in un angolo, abbandonandolo e ripudiandolo. È stato così per Ivan Drago che ritroviamo trent’anni dopo nella glaciale Ucraina ad allenare il figlio Viktor, appunto al freddo, in un contesto desolante dove la guerra è condizione identitaria oltre che scenografica. Rocky IV mescolato a Rocky III sul piano della rivalsa sportiva: la fine delle proprie certezze, l’arroganza, il timore di non essere all’altezza, ritrovare sé stessi o perdersi definitivamente. Nel Creed di Ryan Coogler la boxe era il nucleo che identificava il protagonista: il pugilato come specchio della propria anima, la ricerca della sfida per migliorarsi come atleta e certificare il proprio destino. In Creed II tutti gli elementi che fanno della boxe un metafora evocativa sulla vita non trovano un equilibrio con i sentimenti e le azioni dei protagonisti sebbene il film diretto da Steven Caple Jr. sia molto pulito e tecnico nel raffigurare le sequenze sul ring.
Creed II è infatti un film dove il dramma è vissuto fuori dalle palestre e dai palazzetti, dove a contare sono le ragioni, le motivazioni che devono condurre a lottare per la corona. Ambizione, spaesamento, rinunce, errori e bisogni, concetti fondamentali nell’epopea di Rocky fanno di Creed II un cammino intimista sul chi siamo davvero e sul come le situazioni più ardue da gestire ci mettono alla prova, rendendoci incapaci di dire quello che proviamo o fare ciò che desideriamo. È un passaggio fondamentale a cui il film non riesce a legarsi perché Michael B. Jordan mostra la sua insofferenza nel far proprio l’essere Adonis Creed: tutta la parte centrale del film soffre dell’indecisione del suo protagonista nell’ incanalare con convinzione il proprio percorso narrativo, cosa che riesce bene ai personaggi secondari attorno a lui. Non comprendiamo davvero perché Adonis voglia accettare la sfida di Viktor, quale sia il suo manifesto e perché voglia combattere.
Lo percepiamo, al netto delle poche parole e dallo spazio ridotto concessogli, dai rivali, padre e figlio Drago, loro sì convincenti dentro e fuori dal ring. Tutta l’inadeguatezza espressa da Michael B. Jordan viene ribaltata dalla famiglia Drago, restituendo al secondo Creed il terreno fertile che permette ai rapporti personali, ai legami familiari di riconoscersi come l’aspetto più importante e veritiero della lunga saga di Rocky, che non vuole spiegare la vita ma ci mostra quanto è difficile fare pochi gradini e con innumerevoli tentennamenti bussare alle porte dei nostri affetti più cari, perché è così tormentato e struggente il rapporto col nostro stesso sangue.