QUANDO LE STRATIFICAZIONI LEGISLATIVE MINANO LA COERENZA DEL SISTEMA GIURIDICO
di Barbara Fuggiano (praticante avvocato)
Il d.l. c.d. svuotacarceri 146/2013, convertito nella legge 10/2014, ha innovato la disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale estendendo la possibilità di accedere a tale beneficio non solo ai condannati definitivi che devono espiare una pena (residua) non superiore ai 3 anni (come per l’affidamento in prova “ordinario” di cui ai primi tre commi dell’art. 47 ord. pen.) ma anche ai condannati definitivi con una pena espianda non superiore ai 4 anni di reclusione.
Si tratta del nuovo comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen. che così recita: “L’affidamento in prova può, altresì, essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2”.
Coloro che non sono pratici del diritto probabilmente non conoscono l’istituto qui in esame, anche se negli ultimi mesi è stato spesso citato per una delle vicende giudiziarie di Berlusconi.
L’affidamento in prova è una misura alternativa alla detenzione in carcere mutuata dalla probationanglosassone e si applica ai soggetti condannati con sentenza passata in giudicato e già in fase di esecuzione. Si sostanzia nell’affidare il condannato ad un servizio sociale fuori dall’istituto per il periodo di pena ancora da espiare, stante la sussistenza di determinati presupposti incentrati su una prognosi di concreta efficacia rieducativa e di idoneità preventiva del beneficio penitenziario.
Si tratta, insomma, di una sorta di “scommessa” che lo Stato fa sul condannato. Proprio per questo, infatti, è considerata la misura alternativa più ampia e dal contenuto prettamente risocializzante e rieducativo (almeno nelle originare intenzioni del legislatore). Un vero e proprio “fiore all’occhiello” dell’ordinamento penitenziario, per usare la metafora di Bricola.
L’antagonista storico dell’affidamento in prova è la detenzione domiciliare, dal contenuto molto più modesto e restrittivo. Questa misura alternativa, infatti, oltre a consentire un notevole risparmio in termini di risorse finanziarie per l’Amministrazione, rappresenta un compromesso tra la finalità rieducativa e di reinserimento sociale della pena e l’esigenza di prevenzione e protezione della collettività.
Pertanto, la detenzione domiciliare è stata l’oggetto non solo di diversi progetti di riforma del codice penale (dalla Commissione Grosso a quella Nordio, sino alla Commissione Pisapia) volti ad elevarla a pena principale in luogo della detenzione in carcere, ma anche di numerose riforme, all’esito delle quali le originarie finalità (umanitarie) dell’istituto sono state spazzate via da un’ottica preminentemente deflativa in nome della quale, ad oggi, si contano sette diverse forme di detenzione domiciliare (l’ultima è contenuta nella legge 199/2010, stabilizzata con la l.10/2014).
Questa volta, invece, l’obiettivo di svuotare le carceri italiane sovraffollate, anche per mettere a tacere le pressioni dell’Unione Europea, ha investito l’affidamento in prova, probabilmente ponendo le basi per lo stesso progressivo processo di trasformazione che ha colpito in passato la detenzione domiciliare. Tuttavia, sembrerebbe che la strategia non sia stata quella di introdurre una nuova forma del beneficio, bensì di modificarne l’impianto di base.
L’intento deflativo del nuovo comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen. è evidente tanto dal titolo della legge di conversione (“misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”) quanto dai lavori preparatori.
A questo punto, però, non è chiara la ragione del disallineamento sistematico che l’innalzamento del limite di pena in presenza del quale poter chiedere (e ottenere) l’affidamento in prova al servizio sociale ha determinato.
Infatti, il d.l. 146/2013 non ha modificato l’art. 656 coma 5 c.p.p. in relazione alla possibilità, per lo stesso P.M., di sospendere l’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati in stato di libertà che potrebbero beneficiare di una misura alternativa alla detenzione. Come noto, questa procedura, introdotta dalla legge Saraceni-Simeone (165/1998) ha il chiaro intento di evitare a tali soggetti lo shock (spesso troppo traumatizzante) conseguente all’ingresso in carcere, qualora riescano, entro un congruo termine, a ottenere l’ammissione a un beneficio penitenziario cui hanno, per legge, diritto.
Ad oggi, la sospensione dell’ordine di esecuzione è riconosciuta solo per i condannati in stato di libertà che abbiano riportato una pena definitiva inferiore ai tre anni (così da poter chiedere l’affidamento in prova), ai quattro anni solo per la detenzione domiciliare c.d. “umanitaria” di cui all’art. 47 ter comma 1 ord. pen. (in seguito alla modifica di cui al d.l. 78/2013) e ai sei anni per l’affidamento in prova speciale c.d. “terapeutico” (artt. 90 e 94 del testo unico sugli stupefacenti, d.p.r. 309/1990).
Dunque, per i soggetti liberi che siano stati condannati ad una pena detentiva in carcere compresa tra i tre e i quattro anni e che vogliano godere della misura alternativa più ampia, ai sensi del nuovo comma 3 bis dell’art. 47 ord. pen., nessuna sospensione dell’ordine di esecuzione: l’ingresso in carcere è necessario per poter chiedere il beneficio.
Si tratta del medesimo distorto meccanismo che si lamentava in ordine alla detenzione domiciliare prima della modifica introdotta dal d.l. 78/2013 e passibile di dichiarazione di illegittimità costituzionale in riferimento sia all’art. 3 (sotto il duplice profilo del principio di uguaglianza e del principio di ragionevolezza) sia all’art. 27 comma 3 Cost. (in punto di finalità rieducativa della pena).
Innanzitutto, la mancata sospensione dell’ordine di carcerazione per i soggetti liberi condannati a una pena detentiva compresa tra i 3 e i 4 anni determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra condannati liberi e condannati detenuti in carcere, in favore di questi ultimi.
Inoltre, è minato il c.d. principio di ragionevolezza delle leggi (ancorato, dalla giurisprudenza costituzionale, al principio di uguaglianza), dal momento che una modifica legislativa avente un dichiarato intento di deflazione carceraria dovrebbe sia favorire l’uscita dal circuito carcerario per i soggetti già ristretti sia evitarne l’ingresso a coloro i quali, in stato di libertà, siano colpiti dalla definitività del titolo esecutivo di condanna. In parole povere: che senso ha riconoscere a un individuo il diritto a chiedere un beneficio penitenziario per evitare la detenzione in prigione se non si prevede la possibilità di far in modo che egli non “assaggi” il carcere neanche per un breve periodo?
Infine, è intaccata anche la finalità rieducativa della pena, dato che un fulmineo ingresso in carcere, finalizzato alla concessione dell’affidamento in prova, non avrebbe alcun contenuto trattamentale né risocializzante.
Mi chiedo, a questo punto, vista l’assenza di qualunque interpretazione conforme, se questa incoerenza è destinata a trovare il giusto epilogo in seguito ad un controllo di legittimità costituzionale (se un Tribunale di Sorveglianza – magari su istanza difensiva – ne sollevi la relativa questione) o alla correzione ad opera di un più accorto legislatore. D’altra parte, il diritto penitenziario vive di queste incongruenze.