IL DISEGNO DI LEGGE AL VAGLIO DELLA COMMISSIONE GIUSTIZIA DELLA CAMERA
di Barbara Fuggiano (Dottoressa in Giurisprudenza)
La proposta di legge n. 2168, già approvata lo scorso 5 marzo 2014 dal Senato, è stata immediatamente trasmessa alla Camera dei deputati per l’approvazione definitiva. Tuttavia, dal 6 maggio ad oggi, l’esame della Commissione Giustizia, tra audizioni e critiche, non si è ancora concluso.
La necessità dell’introduzione del delitto di tortura, sconosciuto al nostro ordinamento, è da ricondursi tanto a esigenze di politica criminale quanto a pressioni a livello sovranazionale.
Tra le prime si annoverano il fatto che le norme incriminatrici attualmente esistenti e applicabili in presenza di condotte assimilabili alla tortura (minaccia, percosse, lesioni personali, violenza privata, abuso di autorità contro persone arrestate o detenute) non sono idonee ad esplicare quell’effetto deterrente insito, in parte, in ogni fattispecie di reato e il fatto che la prescrizione e la perseguibilità a querela di alcuni tra questi reati costituiscono un ostacolo alla punibilità di comportamenti penalmente rilevanti che accendono l’opinione pubblica. Basti ricordare, tra i tanti, i fatti della Scuola Diaz e di Bolzaneto, le morti di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva.
Tra le seconde, invece, spiccano la ben nota Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti inumani e degradanti, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1984 a New York e ratificata nel 1988 dall’Italia, la quale, sino ad ora, non ha mai adempiuto all’obbligo di introdurre il reato di tortura così come definito dall’art. 1 della Convenzione stessa nell’ordinamento di ciascuno Stato firmatario (art. 4); e, ancora, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che all’art. 3 riconosce il diritto a non essere sottoposti non solo a tortura ma anche a “pene e trattamenti inumani e degradanti” nonché le sentenze della Corte di Strasburgo che più di una volta hanno condannato l’Italia per l’impunità delle violenze fisiche e morali intenzionalmente perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in stato di privazione della libertà personale (da ultimo: Alberti c. Italia del 24 giugno 2014 e Saba c. Italia del 1 luglio 2014).
Laura Boldrini, presidente della Camera, ha inaugurato la calendarizzazione dell’inizio della discussione in Commissione il 6 maggio affermando che “questo è un testo che rafforza la democrazia e non è un provvedimento contro qualcuno” in risposta alle reazioni critiche di diverse sigle sindacali di polizia.
Il testo approvato dal Senato (già esaminato qui: https://www.fattodiritto.it/reato-di-tortura-un-primo-passo-avanti-ma-con-polemiche/), oltre ad aver destato sin da subito perplessità, ha continuato ad essere fortemente criticato nel corso delle audizioni in seno alla Commissione Giustizia della Camera non solo dai rappresentanti sindacali delle forze dell’ordine, ma anche da autorevoli personalità, quali il Prof. Francesco Viganò e il Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli.
Nel corso delle audizioni, la segretaria dell’Associazione Nazionale dei Funzionari di Polizia, Lorena La Spina, e il segretario del Sindacato Italiano degli Appartenenti alla Polizia, Giuseppe Tiani, hanno affermato che “l’attuale ipotesi di reato licenziata dal Senato non prevede né un dolo specifico da parte del reo né l’esclusione del reato di tortura quando l’afflizione è causata da sanzioni legittime, come peraltro previsto dal regolamento europeo del 2005” e che “la norma presenta una scarsissima tipizzazione della condotta sanzionata tale da suscitare ampi riserve in ordine alla compatibilità con il principio di tassatività della norma penale”. A tal ultimo proposito, la Confederazione Sindacale Autonoma di Polizia ha concluso sostenendo che “una errata formulazione del testo normativo in esame ostacolerebbe l’operatività delle forze dell’ordine, costrette ad agire in condizioni di ulteriore difficoltà ed incertezza, senza peraltro raggiungere le finalità condivisibili insite nella norma proposta”.
In particolare, all’attuale proposta di formulazione dell’art. 613 bis c.p. (da inserirsi, dunque, tra i delitti contro la libertà individuale) viene rimproverata la ridondanza, per via della scarsa specificazione in termini di condotta punibile, rispetto ad altre fattispecie criminose già previste e punite dallo stesso Titolo XII del codice penale.
Il delitto di tortura, infatti, sarebbe strutturato come reato ad evento – quest’ultimo consisterebbe nelle “acute sofferenze fisiche o psichiche” cagionate – a forma vincolata, prevedendo alternativamente (ma genericamente) quali condotte rilevanti le “violenze o minacce gravi” o i “trattamenti inumani e degradanti la dignità umana”. E’ proprio quest’ultima specificazione ad animare – a ragione – i numerosi sindacati di polizia; partendo dalla premessa per cui la Corte EDU ritiene la collocazione di un detenuto in celle sovraffollate un “trattamento inumano e degradante” ai sensi dell’art. 3 CEDU, le perplessità sollevate nascono dal fatto che si rischierebbe non solo di scaricare sugli operatori penitenziari le responsabilità per una problematica di competenza del potere esecutivo e legislativo (il sovraffollamento carcerario), ma anche di inquinare il concetto di “tortura” includendovi quello di “trattamento inumano e degradante” che, invece, le stesse fonti sovranazionali si preoccupano di tenere distinto, quale forma meno grave di inflizione deliberata di sofferenza ad un soggetto indifeso.
Critiche ancora più aspre sono state mosse nell’ambito di altre udizioni.
In primo luogo, vari enti di tutela (tra i quali, Amnesty International Italia e Antigone) contrastano fortemente il plurale utilizzato nella locuzione “violenze o minacce gravi” che sembra evitare la condanna in presenza di un unico atto del genere anche qualora idoneo a generare acute sofferenze fisiche o psichiche (ovvero, l’evento tipico), nonostante esso intenda evitare in concreto il conflitto apparente di norme in modo che un singolo atto di violenza o minaccia sia qualificato come lesione personale, mentre più atti come tortura.
In secondo luogo, il segretario dell’UCPI, solo dopo aver sottolineato che l’Unione “è tendenzialmente contraria alla creazione estemporanea di nuove norme penali”, ha sostenuto la necessità di introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura, in ossequio alla tutela costituzionale della libertà personale e della salute, purché si tratti di un reato proprio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio connotato da una condotta a forma libera e dal dolo specifico alternativo di ottenere informazioni o confessioni su fatti che il soggetto passivo ha commesso (o sia sospettato di aver commesso), di punire, intimorire o discriminare, così come espressamente previsto dalla definizione di “tortura” veicolata dalla Convenzione ONU del 1984 (art. 1). In tutta evidenza, quindi, il testo attualmente in esame e già approvato dal Senato non sarebbe soddisfacente, in virtù della previsione di un reato di tortura comune – che, se commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, comporta un mero aggravamento di pena eventualmente neutralizzato dalla concorrenza di altrettante attenuanti –, a forma vincolata e dolo generico.
A questo punto, non solo sembra inevitabile, da una parte, che la Camera non approvi il testo trasmesso dal Senato senza emendamenti e, dall’altra, che i tempi di approvazione della legge si allunghino -“perdendosi” nella navette parlamentare – ma, anzi, si rivelano sempre più condivisibili le considerazioni che l’Associazione Antigone, poco più di un anno fa, ha fatto nell’ambito della discussione del disegno di legge in Senato: “Nel caso della proibizione legale della tortura il lavoro del parlamento può e deve essere facilitato dai testi internazionali. La definizione dell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 non richiede sforzi di fantasia da parte del legislatore. È necessaria, piuttosto, una seria volontà politica, che purtroppo nell’ultimo quarto di secolo è mancata”.