L’INTERVENTO DELLA CONSULTA SUL DIVIETO DI CONCESSIONE DEI BENEFICI IN FAVORE DELLE DETENUTE MADRI
di Dott.ssa Barbara Fuggiano (praticante avvocato)
Il caso: una donna nigeriana detenuta per l’espiazione di una pena risultante dal cumulo di pene inflittele da tre sentenze irrevocabili comprensive di reati “ostativi”, ossia in relazione ai quali opera il divieto di accesso ai benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario in assenza di precise condizioni (quali la collaborazione con la giustizia, l’esclusione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e risultati positivi dell’osservazione scientifica della personalità).
All’atto di ingresso in carcere, la donna aveva tenuto con sé il proprio bimbo (attualmente di età inferiore a dieci anni) fino al suo terzo compleanno, quando il Tribunale per i minorenni ne aveva disposto l’affidamento ai servizi sociali con provvedimento non ancora divenuto definitivo.
Per permettere alla madre di occuparsi del figlio fuori dal circuito carcerario, gli addetti dell’area educativa avevano individuato una struttura di accoglienza messa a disposizione dal Comune di Firenze. Tuttavia, pur in presenza di due dei tre presupposti necessari per la concessione della detenzione domiciliare speciale (l’assenza di elementi da cui poter desumere l’attualità e la concretezza di legami con la criminalità organizzata di cui all’art. 4 bis comma 1 bis o.p. e l’esclusione di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione delle condotte illecite da parte della condannata ai sensi dell’art. 47 quinquies o.p.), la sua richiesta non sarebbe stata accolta, stante la preclusione legata alla collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p. (art. 4 bis comma 1).
Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze – sempre in prima linea in tema di diritti dei detenuti – aveva sollevato, con ordinanza del 31 gennaio 2013, la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis o.p. in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione (che tutelano rispettivamente l’uguaglianza di fronte alla legge e la coerenza e ragionevolezza del sistema giuridico, la famiglia e il matrimonio, l’infanzia e la maternità) nella parte in cui estende il divieto di concessione dei benefici penitenziari, stabilito nei confronti dei detenuti e degli internati per taluni gravi delitti i quali non collaborino con la giustizia, anche alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge, in favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni.
La situazione della detenuta nigeriana non è unica. Quella dei bambini che crescono in carcere con le madri e che scontano pene per reati commessi da costoro è una realtà spesso sconosciuta ed ignorata, ma abbastanza diffusa. Sono poco meno di una sessantina i “figli del carcere”.
Lo stesso ordinamento penitenziario, all’art. 11, sembra ammettere e incoraggiare la crescita dei figli delle detenute madri nell’istituto di pena, al fine di tutelare non solo la maternità ma anche il diritto del minore alla presenza del genitore. La cruda realtà carceraria, tuttavia, si presenta spesso come una sofferenza ulteriore rispetto a quella già insita nella pena inflitta, dal momento che, come noto, non è pronta ad accogliere neanche coloro che ne sarebbero i diretti destinatari.
Da un lato, infatti, la detenuta madre è privata dell’intimità della propria sfera familiare, della posizione di autorevolezza connaturata al rapporto genitori-figli – considerato che le madri devono sottostare alle regole del regime penitenziario così come i loro bambini – e, soprattutto, della possibilità di assistere ed educare la prole che, compiuti i tre anni, viene affidata a parenti o a qualche comunità, interrompendo così la funzione materna nell’età evolutiva. Dall’altro lato, i bambini nati e/o cresciuti in carcere – come emerge da numerose testimonianze rese note dall’Associazione Antigone – accusano disturbi nell’umore e ritardo nella parola e la qualità della loro vita varia a seconda dei servizi offerti dalle strutture carcerarie, le quali, spesso, non sono né dotati di asili nido né convenzionati con quelli pubblici locali.
Sulla problematica dei “figli dietro le sbarre” si sono inserite due importanti riforme: la legge 40/2001 – con lo slogan “mai più bambini in carcere” – voluta dall’ex ministro delle Pari Opportunità Anna Finocchiaro e l’ancora non pienamente attuata legge 62/2011.
La prima ha ampliato l’istituto del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per le madri condannate e ha introdotto l’istituto della detenzione domiciliarespeciale (interessato dalla recente pronuncia della Consulta) e quello dell’assistenza all’esterno ai figli minori di cui all’art. 21 bis o.p.
La seconda, invece, oltre ad aver previsto che, ricorrendo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la custodia cautelare può essere diposta nei confronti di imputate madri e, di riflesso, ai figli sino al sesto anno di età con essa conviventi, ha previsto la costruzione degli Istituti di Custodia Attenuata per Madri (ICAM), ove i “figli del carcere” dovrebbero poter crescere in modo meno traumatizzante. Si tratta di istituti dove gli operatori di polizia penitenziaria lavorano senza divisa, insieme ad educatori specializzati con il compito di offrire opportunità di formare alle madre e sostenerle nel rapporto affettivo con i figli, e i bambini possono correre nei corridoi e usufruire di un’area giochi. Ma le sbarre rimangono, la destituzione della figura materna anche. A ciò si aggiunga che, essendo strutture pubbliche, ad oggi non sono state realizzate (a parte due, a Milano e a Venezia), in assenza di adeguati finanziamenti pubblici.
Da più parti si avverte tanto l’esigenza di una maggiore apertura delle misure alternative nei confronti delle detenute madri di minori quanto l’opportunità di istituire “case famiglia protette” private nelle quali il rapporto genitore-figlio possa seguire l’ordinaria routine (portare i figli a scuola, preparargli da mangiare, assisterli nei compiti o durante i periodi di malattia), pur rimanendo sempre sotto controllo in ossequio a quell’esigenza di difesa sociale che caratterizza la detenzione e alla pretesa punitiva statale.
La Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza n. 239/2014 depositata il 22 ottobre 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis o.p. nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura alternativa di cui all’art. 47 quinquies o.p. (detenzione domiciliare speciale) e, in applicazione dell’art. 27 della legge 87/1953, anche la misura di cui all’art. 47 ter comma 1 lett. a) e b) (detenzione domiciliareordinaria), ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Le motivazioni dell’ordinanza di rimessione muovono dall’assunto secondo il quale la detenzione domiciliare speciale “sarebbe finalizzata, dunque, alla tutela di quel «superiore interesse» del minore cui fa riferimento l’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza del quale «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»”.
In tale prospettiva, risulterebbe irragionevole sottoporre al vincolo di cui all’art. 4 bis o.p. tanto le misure alternative volte al reinserimento sociale del reo (in questo senso, “benefici”) quanto le misure alternative volte a salvaguardare il “superiore interesse del minore” ad uno sviluppo regolare e sano della propria personalità.
In un primo momento la Corte Costituzionale, ripercorrendo brevemente la ratio della disciplina speciale di cui all’art. 4 bis o.p., afferma che “l’elenco dei reati che rendono operante il regime speciale abbraccia, allo stato, ipotesi criminose notevolmente eterogenee, comprensive anche dei delitti contro la personalità individuale di cui agli artt. 600 e 601 cod. pen., per i quali la detenuta istante nel procedimento a quo ha riportato condanna. Il nesso con l’originaria matrice politico-criminale della norma si coglie, al riguardo, nel fatto che la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone, nell’attuale momento storico, costituiscono solitamente espressione del crimine organizzato, anche per il loro frequente collegamento con lo sfruttamento della prostituzione”; successivamente, dopo aver descritto l’evoluzione normativa in tema di “figli del carcere”, sostiene che, contrariamente da quanto ritenuto dal giudice rimettente, “la misura in questione partecipa, in realtà, anch’essa della finalità di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione: il che è comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilità, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca (art. 47-quinquies, commi 3 e seguenti, e 47-sexies della legge n. 354 del 1975)”.
Tuttavia, la Consulta condivide sia il fatto che, nell’economia dell’istituto, assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo, sia la considerazione secondo la quale, assoggettando anche la detenzione domiciliare speciale al regime “di rigore” sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, il legislatore abbia accomunato fattispecie tra loro profondamente diversificate.
Pertanto, la sentenza così conclude: “è ben vero che nemmeno l’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, malgrado il suo elevato rango, forma oggetto di protezione assoluta, tale da sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze contrapposte, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato. Come già rilevato da questa Corte, proprio ad una simile logica di bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale stabilite dall’art. 47-quinquies, comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le quali figura anche quella, più volte ricordata, della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata. Ma affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto – così come richiede la citata disposizione – e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni”.
Potrebbe essere un primo passo verso un cambiamento necessario, per evitare di confermare quello che la Finocchiaro affermò nell’ormai lontano 2001, ossia che “quei bambini sono troppo pochi per interessare a qualcuno”.
Barbara Fuggiano