ANCHE LA CORTE DI CASSAZIONE AFFRONTA LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA DA INTERNET
di Avv. Valentina Copparoni (Studio Legale associato Rossi-Papa-Copparoni di Ancona)
Qualche giorno fa Fatto & Diritto Magazine aveva approfondito con il dottor Giorgio Rossi una nuova forma di dipendenza, tra le tante ormai diffuse, costituita dalla Internet Addiction Disorder (IAD) chiamata anche “dipendenza da Internet”.
La IAD è un disturbo nuovo, differente dalle altre dipendenze; è una condizione caratterizzata da un forte ed insistente desiderio di connettersi al Web ed è oggetto di studio e di attenzione clinica da poco più di una decina di anni, in continuo sviluppo da parte delle comunità scientifiche, le quali evidenziano che ancora molta strada va percorsa in quanto tanti rimangono gli aspetti da approfondire e i nodi critici da affrontare. La dipendenza da Internet viene classificata, quindi, come un’alterazione del comportamento che ingenera nella vittima, a seguito di un uso compulsivo del computer, l’esasperata e incontrollata ricerca del contatto con il web e con le relazioni virtuali, sino a creare stati psichici di irritabilità, aggressività, nervosismo, disturbi del sonno, fino anche alla malnutrizione.
Il fenomeno sta ormai dilagando sempre di più e , come spesso accade, è passato anche sotto i riflettori di Giudici.
Analizzando quindi il fenomeno dal punto di vista più strettamente giuridico una recente sentenza della Cassazione Penale, sezione terza (n. 1161 del 20 novembre 2013, depositata il 14 gennaio 2014), ha avuto modo di pronunciarsi proprio sulla questione valutando in maniera più specifica l’incidenza di tale “dipendenza” sulla capacità di intendere e volere, e quindi sull’imputabilità, di un soggetto autore di determinate condotte penalmente rilevanti.
Veniamo ora al fatto. Ne febbraio 2012 la Corte di Appello di Reggio Calabria riformava parzialmente una sentenza, emessa a seguito di rito abbreviato, del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palmi, con la quale un certo Tizio era stato condannato per il reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3 e art. 600 quater c.p., comma 2 perchè, non essendo concorso nella produzione o commercializzazione, essendo iscritto a un determinato sito internet, deteneva e divulgava un ingente quantitativo di materiale pedopornografico, mediante l’inserimento di altri link, consentendo ad utenti internet non iscritti di accedere all’area riservata e di scaricare immagini e filmati, tutti di pornografia minorile.
L’imputato aveva addotto a propria giustificazione, chiedendo il riconoscimento di un vizio parziale di mente, una condizione di dipendenza dal computer e da internet, derivante da disagio esistenziale da cui si era liberato soltanto dopo aver conosciuto una donna che poi sarebbe divenuta sua moglie. Era stata, pertanto, espletata perizia da cui era emerso che l’imputato era affetto da “Nevrosi depressiva- Internet Addiction Disorder”, situazione che però non aveva alcuna incidenza sulla capacità di intendere e di volere dello stesso.
Ricordiamo, per maggiore facilità di comprensione della vicenda, che nel nostro ordinamento penale gli artt. 88 e 89 del codice penale richiedono, ai fini della esclusione della imputabilità, l’esistenza di una e vera propria malattia mentale, ossia di uno stato patologico che incida sui processi intellettivi e volitivi della persona oppure di anomalie psichiche che, seppur non classificabili secondo precisi schemi medico-legali, risultino tali per la loro intensità ad escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e volere dell’autore di un reato.
E’ previsto che in caso di riconoscimento della totale incapacità di intendere e volere al momento in cui l’autore del reato ha agito, lo stesso venga dichiarato non imputabile con la conseguenza che non viene applicata la pena ma la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario- o in altro luogo di cura- laddove il soggetto sia considerato socialmente pericoloso. Nel caso, invece, di un riconoscimento di parziale incapacità di intendere e volere il soggetto risponde del reato compiuto, ma la pena viene diminuita.
Il raptus, invece, chiamato anche “reazione a corto circuito” ossia una situazione spesso ricollegata a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendenti da una causa patologica bensì emotiva o passionale, non viene considerato dal nostro sistema penale quale causa di esclusione o diminuzione della capacità di intendere e volere in quanto non è considerato un fattore in grado di diminuire o limitare la capacità di rappresentazione della realtà e di autodeterminazione di un soggetto. In ogni caso, qualora le c.d. reazioni a corto circuito risultino manifestazioni di una vera e propria patologia in grado di incidere negativamente sulla capacità di intendere e volere, l’imputabilità del soggetto autore del reato potrà essere esclusa oppure diminuita con le diverse conseguenze sanzionatorie anzidette.
Tornando al caso di cui parlavamo, la difesa dell’imputato ricorreva alla Suprema Corte di Cassazione in particolare, tra gli altri motivi, sia contro le argomentazioni con le quali era stata rigettata la richiesta di riconoscimento del vizio parziale di mente dell’imputato ritenendo sussistente un contrasto con quanto disposto sul punto dalle Sezioni Unite (si legga sentenza n. 9163/05) che hanno attribuito rilevanza anche a forme di dipendenza non strettamente patologiche, sia perchè il disturbo individuato dal perito sull’imputato non avrebbe assunto connotati di gravità essendo di natura transitorio.
La Suprema Corte rigettava il ricorso affermando che, secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9163 del 25.1.2005, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto ambito delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità purchè, però, “siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.
Il perito, dopo aver spiegato le ragioni per cui non potevano essere confermate le diagnosi (“depressione maggiore con episodi ricorrenti” e “disturbo bipolare di tipo 2^”), formulate in via alternativa dal consulente di parte, aveva concordato in ogni caso nel ritenere che l’imputato all’epoca dei fatti contestati avesse una forma di dipendenza da Internet, cosi detta Internet Action Disorder. Tale condizione psicologica poteva sì manifestarsi anche attraverso comportamenti del tipo di quelli oggetto di contestazione ma tale dipendenza da Internet non aveva alcuna incidenza sulle facoltà cognitive del soggetto, ma solo sulle facoltà volitive. In altri termini, vi era una possibile incidenza sulla capacità di volere ma non intendere ed in ogni caso “una forma di condizionamento dei processi volitivi non derivante da una patologia o da un disturbo conclamato o chiaramente riconoscibile”.
Sul problema poi della mancanza, ancora oggi, di una precisione qualificazione medica della dipendenza da internet, la Corte ha escluso ogni incidenza nel caso di specie di tale lacuna dato che il vizio parziale di mente non poteva essere riconosciuto “perchè l’incidenza dei turbamenti psichici sulle facoltà mentali dell’imputato è priva dei prescritti connotati di gravità”. La conferma della mancanza di gravità (e non di irreversibilità) del disturbo veniva provata dalla circostanza che “il cambio di abitudini e l’avvio della relazione sentimentale con colei che sarebbe diventata sua moglie” sono state “circostanze sufficienti a far venir meno la dipendenza da Internet”.
Il dottor Rossi ha continuato poi nell’approfondimento di tale dipendenza spiegando che “Il termine IAD venne coniato nel 1995 da Ivan Goldberg, psichiatra e docente alla Columbia University di New York; nel 1996 la psicologa statunitense Kinberly Young per la prima volta presentò un proprio lavoro sull’argomento a Toronto in occasione alla conferenza annuale dell’American Psycological Association dal titolo “Internet Addiction:The Emergence of a New Dosorder”. In Italia lo psichiatra Tonino Cantelmi descrisse il fenomeno nel 1998. Nel 2013 la Kinberly Young è diventata la fondatrice e direttrice del Center for On-Line Addiction in Bradford USA per la diagnosi e cura del disturbo. Nel marzo 2014 si è tenuto a Milano il primo Congresso Internazionale su Internet Addiction Disorders ove studiosi di tutto il mondo hanno cercato di mettere a punto gli aspetti epidemiologici, patogenetici, diagnostici e terapeutici. La IAD racchiude in sé diverse forme e sottocategorie legate alla tecnologia e al mondo della rete :
-
game, dipendenza dai video giochi di rete;
-
sex, dipendenza dalla visione e scambio di materiale pornografico e dalla frequentazione di chat per soli adulti;
-
social networks, dipendenza dalle relazioni interpersonali virtuali;
-
info surfing, dipendenza dalla continua ed insaziabile ricerca di notizie su internet;
-
net compulsion, dipendenza dallo shopping online, dalle aste online, da eBay, dal trading finanziario;
-
gambling, dipendenza dal gioco d’azzardo online.
La dipendenza si sta instaurando quando la persona comincia a presentare alcuni dei sottoelencati sintomi :
-
trascorre una grande quantità di tempo in rete perdendone la cognizione;
-
mostra irritabilità, aggressività e insofferenza quando viene interrotto e quando non ha a disposizione il web;
-
è in uno stato di euforia durante la navigazione ;
-
tende ad usare il PC anche in contesti che non lo permettono;
-
trascura gli impegni della vita quotidiana : studio, lavoro,igene personale,amicizie, altre relazioni;
-
compaiono anche disturbi fisici: perdita di peso per malnutrizione, disturbi del sonno, cefalea , problemi alla vista, enuresi notturna, sindrome del tunnel carpale ed altri.
La caratteristica costante che fa da sfondo alle varie sottoclassi di Dipendenza da Internet è la capacità della rete di rispondere ( o illudere di rispondere) a molti bisogni umani, consentendo di sperimentare dei vissuti importanti e di vivere le emozioni sentendosi, al contempo, protetti. Esistono poi delle condizioni predisponenti come ansia, depressione, stress, la presenza di un’altra condizione di dipendenza ( alcol, droga, gioco compulsivo), difficoltà relazionali, fobie o isolamento sociale” (leggi qui l’articolo completo).