DAL ROMANZO DI BORIS VIAN, IL RITORNO DEL CINEMA VISIONARIO DI GONDRY
di Sabina Loizzo
Mood Indigo è il titolo con cui in America è conosciuto “La schiuma dei giorni”, il romanzo più celebre di Boris Vian, artista, musicista e scrittore francese dalla intensa e purtroppo breve vita. Amava il jazz, Boris, e il suo stile non è certo quello che può definirsi canonico, ma anzi è insolito e originale, surreale e a tratti non-sense, sincopato e vertiginoso come la musica che amava tanto. Difficile, quindi, trovare un regista più adatto di Michel Gondry per portare la sua opera al cinema. Se si va a vedere un film di Gondry, si è quasi certi di trovarsi di fronte a qualcosa di poco convenzionale, di cui non sempre riusciremo ad afferrare ogni significato ma che forse il lasciarsi sfuggire sempre qualcosa fa proprio parte del suo fascino. Un regista visionario per uno scrittore fuori dal comune. Una bella accoppiata.
La storia che anima il libro, di per sé, è molto semplice. Si tratta della storia di Colin (Romain Duris), giovane ricco e spensierato, che vive una vita fatta di aggeggi fantasmagorici come il pianococktail, in compagnia di un topo, un cuoco-avvocato e un amico fanatico. Un giorno Colin incontra Chloé (Audrey Tatou) e i due si innamorano. Ma il loro amore è messo in serio pericolo da una ninfea che si annida nel petto di Chloé, causandole una malattia mortale. Disposto a tutto per salvarla, Colin finirà sul lastrico, ma ogni suo sacrificio sembra essere vano.
Se la storia, raccontata in modo spicciolo, appare quasi banale, ciò che rimane e che fa la differenza è, come sempre, il modo in cui viene presentata e raccontata. Colin vive in un mondo tra il surreale e lo steampunk, fatto di colori vividi, accesi quasi da far male agli occhi, di musica jazz e balli come lo “sbircia sbircia”, dove al primo appuntamento si va su una nuvola che vola sui cieli di Parigi e il campanello se ne va in giro per casa fino a quando non lo si colpisce brutalmente, mentre uno chef di fama internazionale vive nel frigorifero e insegna a cucinare pietanze roteanti e multiformi.
Devo essere sincera, il primo quarto d’ora (forse anche mezz’ora) si assiste al susseguirsi delle scene leggermente storditi e parecchio confusi. Dopo questa prima fase, però, l’allegria e la vivacità del film prendono il sopravvento sullo spettatore e lo aiutano a calarsi in questo strambo ma alquanto divertente universo. E si inizia a sorridere mentre Nicolas (Omar Sy) disquisisce di cucina con lo chef nel forno, mentre tutti ballano e le gambe si allungano in modo spropositato, mentre Colin rincorre le sue scarpe ringhiose, quando lui e Chloé sono avvolti da piume o quando c’è la gara di kart davanti al celebrante il giorno del loro matrimonio, quando, infine, si allontanano sulla macchina di vetro trasparente. Pian piano, però, il sorriso scema ritornando solo di tanto in tanto e molto amaro, mentre la malattia di Chloé peggiora e Colin si trova costretto a svolgere i lavori più tristi e miserabili, come quello di riscaldatore umano di canne di pistola, un’immagine che ha in sé un significato simbolico tagliente e che durante la visione del film mi ha trasportato verso altre amare riflessioni.
La storia di Colin e Chloé è raccontata con grande drammaticità ed enorme poesia: la malattia di Chloé è dovuta a una ninfea che si è annidata vicino al suo cuore; la radiografia mostra una cavità toracica fatta di garze leggiadre e stoffe lanuginose, volatili e soffici al sol guardarle; per guarire Chloé deve vivere tra i fiori; il buon Nicolas invecchia di dieci anni in otto giorni per le preoccupazioni, l’amico Chic si inietta le pagine di Jean Soy Partre – parodia agrodolce del filosofo Jean-Paul Sartre – direttamente negli occhi e prende pasticche che racchiudono i capitoli dei suoi libri per immergersi in quel sapere fino troppo esaltato e di cui pagherà le conseguenze. Mentre la storia va sulla pellicola, con levità e in modo impercettibile i colori, semplicemente, sbiadiscono: le prime scene sono sature e i colori ritraggono l’allegria e la gioia di Colin e della sua vita spensierata, ma pian piano, mentre gli anni passano e Chloé peggiora, il grigio penetra nelle vite dei personaggi, il colore del cielo è slavato, così come grigie appaiono le stanze della casa, mentre una patina lattiginosa, una ragnatela sottile, avvolge cose e persone, appanna le grandi finestre del vagone che funge da corridoio e la luce si nasconde, sparisce mentre il solo a cercare una via di uscita sembra essere il topolino di casa, che gratta sui vetri fino a far sanguinare le sue zampette. Un atmosfera claustrofobica si impadronisce della casa, esaltata dal lento ma inesorabile contrarsi delle stanze, mentre i muri si restringono e la casa sprofonda. Fino ad arrivare a un bianco e nero – con i contorni sfumati e un’immagine sempre più piccola, ricordando lo stile del cinema muto – che non lascia più spazio ad alcun dubbio.
Anche per gli attori non deve essere stato facile entrare nella storia e nel suo universo, ma, onore al merito, ci sono riusciti. Romain Duris appare goffo in alcune scene iniziali, salvo poi riscattarsi man mano che la storia procede; Omar Sy sembra aver trovato la sua dimensione nella parte dell’amico tuttofare e la Tatou, con quegli occhi sempre strabuzzati, è riuscita ad essere meno urticante del solito (si, io non sono una grande amante del favoloso mondo di Amelie, per quanto abbia apprezzato all’epoca il film).
Su tutto, una colonna sonora che è una celebrazione della vita e delle passioni di Vian, un jazz imperante e onnipresente – se si salva la canzoncina stucchevole che però diventa il tema dell’amore di Coline e Chloé –dove Duke Ellington la fa da padrone, sia con il suo brano “Chloè”, proprio come la protagonista, sia per il suo essere quasi un personaggio vero e proprio del film (e, infatti, viene interpretato in carne e ossa da Kid Creole).
Vian riscrive la realtà dei suoi giorni e ci dà la sua idea dell’amore. Lo fa con un mondo talmente assurdo da apparire incontrovertibilmente vero.
“Solo due cose contano, nella vita: l’amore in tutte le sue forme con ragazze carine, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse, perché il resto è brutto, e la dimostrazione contenuta in questo romanzo deriva tutta la sua forza da un unico fattore: questa storia è totalmente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi”
Gondry intreccia armoniosamente lo stile di Vian con la sua regia, riuscendo a trovare la sua dimensione e a inserire le tematiche del suo cinema in un universo con cui si trova in indubbia sintonia. Il risultato è un film affatto facile, che non si piega allo spettatore nel tentativo di stabilire un contatto, ma che semplicemente esprime se stesso, lasciando che sia chi lo guarda ad adeguarsi e a lasciarsi trasportare, sospendendo ogni giudizio e ricerca di veridicità.
Mood indigo è un film dagli autentici sprazzi di poesia. A luci accese vi guarderete attorno per un attimo come sperduti, mentre nell’aria aleggia qualcosa di inafferrabile, e vi sembrerà di riemergere come Colin e Chloé dalla schiuma dei loro giorni. Uscendo, avrete la sensazione che non sapete ancora se quello che avete visto vi è piaciuto davvero. Ma nei giorni a venire, sarà difficile togliersi dalla testa il favoloso mondo di Vian e Gondry.
Personalmente ho trovato il film pessimo e gratuito, spreca un grande potenziale visionario. Si salva solo la colonna sonora.