DI MICHELE AMORUSO – Città Vecchia di Taranto, caos di salsedine e di anime affascinanti, lembo di terra unito da due cordoni ombelicali di ferro e pietra alla terra ferma in mezzo a due mari, Piccolo e Grande. La meta era stata scelta con cognizione: i palazzi storici mangiati dall’aria carica di sale, i bambini dimenticati tra le rovine, i vicoli bui e pieni di inquietudine. E poi c’è il mare. Verso cui tutti tendono, chi per la calura, chi per lavoro.
Si passa il primo ponte, quello vecchio, i cantieri navali in abbandono e gli allevamenti di cozze: non esistono luoghi veramente abbandonati, tra le reti, tra le barche, tra le rovine qualche anima si muove furtiva e pensierosa. La Città Vecchia è un polmone di pietra affannato, respira al ritmo del caldo e si nasconde dal sole piegandosi su se stessa. La torre dell’orologio segna sempre orari troppo accaldati, a qualsiasi ora la si guardi.
Da lì si hanno due scelte: costeggiare il mare o addentrarsi tra i palazzi. Punto sulla seconda consapevole che di lì a poco incontrerò obbligatoriamente anche la prima. Di persone in strada ce ne sono poche, a qualsiasi ora si lavora o si riposa. Mi aggiro affascinato e teso come una corda di violino: i vicoli, le finestre, i volti, immergono la mia anima in un sudore agitato dal pericolo e dalla adrenalina. I modi delle persone e le facciate dei palazzi storici sono ruvidi, spigolosi, poco inclini al dialogo e meno che mai alla fotografia. Bisogna comunque scavalcare gli indugi e rischiare. Anche l’esibizionismo dei bambini, fortemente sfacciato, ha pazienza breve e complicità limitata. I loro capelli sono tagliati in casa. Sorridono, di un sorriso pericoloso e sveglio, cresciuto su labbra screpolate troppo in fretta. Si sente musica forte, copre le urla dei giochi e pare uscire dalle bocche dei murales che coprono le enormi e rovinose pareti della Città Vecchia. La street-art qui ha un sapore malinconico, ma non è semplice esibizione artistica: ci vedo dentro il diario personale di chi l’ha realizzata, la sua storia, la sua mano nervosa nel realizzarla. È così potente in alcuni vicoli, che pare quasi sostenere da sola le puntellate pareti. Perché qui è quasi tutto puntellato, tutto sostenuto da ferraglie e carpenteria a cui è stato chiesto più un miracolo che una dimostrazione fisica di ingegneria. Eppure in queste case si vive, si muore, si fa l’amore, sapendo che il pavimento dell’appartamento di lato è crollato sotto il peso dell’incuria o degli orgasmi. Molte finestre sono sbarrate, ma la Città Vecchia ha tantissimi occhi e poco importa se alcuni di questi sono offesi. E se fai l’amore sotto tanti occhi sei pronto a cadere insieme al tuo pavimento. È una continua prova di sopravvivenza, e fin quando la si vince è giusto festeggiare a letto. Ragazzi non se ne incontrano, qui o sei fanciullo o sei uomo. L’età la si misura sulla pelle, più è scottata dalla salsedine, meno tempo ti rimane da vivere. Decido di uscire sul mare, quello Piccolo. Tra le barche si vedono spruzzi e risa, mi avvicino. Piccolissimi uomini, esperti bambini, stanno usando il pontile e un barcone per dei tuffi. La loro pelle è lavata dall’acqua del molo e oliata dagli scarichi dei motori delle barche. Mi vedono e la loro esibizione si carica di agonismo. Fingo distrazione per non snaturare l’affascinante moto dei loro tuffi. Sgrammaticati e saturi di follia. Affrontano il mare da uomini, ne escono ancora più fanciulli. Ne fotografo un paio, mi allontano. Rientro nel cuore dell’abitato.San Cataldo m’affascina. Duomo scuro e solenne, vive silenziosamente la visita dei turisti mostrando le proprie mercanzie nella penombra. Fotografo un bel Cristo illuminato male. Nei giorni di permanenza ho la fortuna di poter uscire con un barcone per vedere da vicino gli allevamenti di cozze, i cantieri spenti, gli impianti dell’Ilva.
Tutto si mescola, tutto schiaccia ed è schiacciato da tutto. Il pensiero più banale riguarda proprio gli allevamenti: laddove scaricano gli impianti industriali riposano anche le migliori cozze d’Italia. È l’uomo che si prende gioco della natura o l’esatto contrario? Ritorno sulla terra ferma, affronto lo sguardo truce ed impegnato dei lavoratori del pesce. Sono incorniciati da ruderi, da gatti rognosi, da tende nuove a finestre scardinate. È difficile incontrare qualcuno per strada, a qualsiasi ora. E quando capita bisogna farne tesoro. La vera popolazione di Taranto sono le tante ciminiere che in lontananza artigliano l’orizzonte. Quelle le incontri sempre, perchè sempre bruciano, sempre lavorano. Quando la mia permanenza volge al termine ho la certezza che sarà necessario tornare, tornare più attenti, forse più fortunati. M’allontano abbagliato dal colore dei campi, dalle nuove palazzine spuntate come erba cattiva, dai ruderi avvelenati d’oblio. Ora la Città Vecchia torna a distorcersi nella foga dei treni attentando alla memoria. Ci penseranno forse i miei scatti a non farmene dimenticare.
Michele Amoruso
Caro Michele,sei un millantatore,questo non è il fatto quotidiano…
Caro xxx, senza un nome sei ancora meno che un vile.
Ah e per inteso, il gruppo Fatto e diritto deriva proprio dal fatto quotidiano. Per inteso il tuo commento vale quanto il tuo coraggio, nulla.
Signori calma. Fatto&Diritto non c’entra nulla con il Fatto Quotidiano. Michele Amoruso che ha partecipate al nostro Contest con il suo bellissimo reportage in totale buona fede si è evidentemente sbagliato……. E il sig. XXX, che evidentemente non è solito firmarsi quando giudica gli altri, chiaramente non conosce le buone maniere…Buona lettura e buone foto a tutti!
complimenti …….. IO C 'ero!!!!