E’ morto Giulio Andreotti, il Divo.

7 MAGGIO ’13, ROMA – “È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene”  afferma “Il Divo” nel film di Paolo Sorrentino del 2008 e forse può essere questo il sunto che racchiude in una frase un’esistenza controversa, su cui si discuterà per molto tempo, ma che, per dirla con Napolitano, sarà la storia a giudicare.

Si è spento ieri a 94 anni Giulio Andreotti, classe 1919, dopo più di mezzo secolo passato ai vertici dello Stato: padre costituente per volontà di De Gasperi, sette volte Presidente del Consiglio, otto volte Ministro della Difesa, cinque degli Esteri, due delle Finanze, Bilancio ed Industria; passò anche per il Tesoro, l’ Interno e le Politiche Comunitarie. E’ stato un punto di riferimento, un centro di direzione, un monito ed un avvertimento per chi sentiva nominarne il nome: forse nelle sue mani era concentrato un potere che nessun altro politico ha mai avuto nè all’interno del proprio partito, nè nei vari apparati statali.

La quantità dei soprannomi che gli furono affibbiati è elevatissima: “Il Divo” da un articolo del giornalista Mino Pecorelli, direttore della rivista Osservatorio Politico, vittima di un omicidio di cui Andreotti fu sospettato essere il mandante, “il gobbo” per la sua conformazione fisica; “zio” per le dichiarazioni dei pentiti di mafia, secondo i quali, in ambienti mafiosi, Andreotti sarebbe stato chiamato “zù Giulio”, ma anche per il tono paterno con cui pronunciava i suoi discorsi; “Belzebù” per distinguerlo da Belfagor-Licio Gelli, capo della Loggia massonica P2, col quale ebbe stretti rapporti; la “volpe”.  Mai una querela a riguardo, perchè diceva di essere dotato di forte autoironia e questa sua caratteristica lo ha senz’altro aiutato con gli elettori che spesso rinnovavano il loro voto a suo favore.

Storie e contro storie, retroscena e dietrologia: già ieri era evidente il divario tra chi condannava il senatore a vita Andreotti e chi invece lo considera un immenso statista.

La sua storia politica inizia a 20 anni, quando milita nelle file della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, nei seni della quale crebbero molte figure di spicco, come Aldo Moro, Francesco Cossiga, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati.  Come detto, De Gasperi lo volle nell’Assemblea Costituente e  per Andreotti, il suo delfino, il fondatore della Democrazia Cristiana fu un maestro, un apripista, tanto che nel 1947 lo nominò sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Andreotti era dotato di grandissime capacità diplomatiche che ebbe modo di mettere in mostra in moltissimi episodi: in particolare, si ricorda l’operazione Sturzo con la quale riuscì ad evitare la candidatura Dc di Luigi Sturzo, personaggio che attirava le simpatie di monarchici e postfascisti, alle amministrative del 1952. Ad Andreotti era chiaro che una simile scelta avrebbe innestato una crisi di governo e si mosse alloraattivandosi presso Pio XII, sfruttando i servigi di una sua stretta collaboratrice, suor Pascalina: così facendo, ottenne successo dove De Gasperi non era riuscito, guadagnandosi ulteriore considerazione da parte di quest’ultimo.

Due anni dopo, nel 1954, morì De Gasperi ed Andreotti divenne ministro per la prima volta. Alla fine degli anni ’50, iniziò il periodo dei dossieraggi dei servizi segreti quando Andreotti era ormai ministro della Difesa e scoppiò lo scandalo Sifar: 150 mila fascicoli su politici, sindacalisti, intellettuali e altre personalità pubbliche – a iniziare dal candidato al Quirinale Giovanni Leone e soprattutto da sua moglie Vittoria – che avrebbero dovuto essere distrutti in un inceneritore di Fiumicino e che invece vennero in parte ritrovati nell’archivio uruguaiano della P2. A ciò si aggiunse nel 1964 il “Piano Solo”, per il quale si temette un tentativo di golpe, ma il cui intento fu quello di contenere le pretese del partito socialista nei primi gpverni di centrosinistra; con Andreotti alla difesa, si ebbe anche il caso di Enrico Mattei, presidente dell’Eni morto in un incidente aereo: la commissione dell’epoca escluse in 4 mesi l’ipotesi di attentato, che invece venne tirata nuovamente fuori  negli anni ’90 dal sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Galla.

Se gli anni ’60 furono turbolenti e videro l’affermazione del personaggio politico di Andreotti, anche i ’70 non furono da meno. Nel 1974, Andreotti era in stretto contatto con chi tentava il salvataggio degli interessi di Michele Sindona, banchiere nato in Sicilia e trasferitosi a Milano negli anni Cinquanta attestandosi come un mago dell’economia e della sparizione di capitali all’estero. Su questa vicenda, indagò per cinque anni, quasi in solitudine, il commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli, il quale arrivò a ricostruire le trame sindosiane per essere poi assassinato nel luglio 1979 per mano del killer William Joseph Aricò su mandato di Sindona. A riguardo, Giulio Andreotti nel 2010 si lasciò sfuggire un discutibile commento: “in termini romaneschi se l’andava cercando”. In piena polemica, disse di essere stato frainteso.

Ma gli anni ’70 sono anche gli anni delle tensioni sociali. La strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), vicende legate alla Banca Nazionale dell’ Agricoltura vedranno accusati uomini di fiducia di Andreotti, come il generale Gianadelio Manetti, che nel 1979, dopo la sentenza, se ne andò in Sud Africa.

Proprio il giorno del sequestro Moro (16 marzo 1978), Andreotti ottenne la fiducia al suo quarto governo, in un periodo di estrema crisi politica. La sua gestione del sequestro fu controversa: rifiutò ogni trattativa coi terroristi in nome della ragion di Stato e ricevette pesanti critiche da parte della famiglia Moro. Più avanti (1990) si lessero nel memoriale di Aldo Moro, scritto durante la sua prigionia,  durissimi giudizi sul Divo.

Nel 1983 divenne Ministro degli Esteri del primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo. All’interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi , ma nella gestione filoaraba della politica estera fu oggettivamente in consonanza con il premier e sfruttò al meglio i suoi rapporti con Yasser Arafat. Allo stesso tempo, alleggerì i rapporti tra la Democrazia Cristiana e Craxi, che non era molto in sintonia col partito.

Nel 1992 venne nominato senatore a vita da Cossiga, col quale, nonostante, ebbe furenti rapporti e spesso si scontrò anche per via della vicenda Gladio,un esercito segreto nato a seguito di accordi bilaterali risalenti agli anni Cinquanta tra servizi italiani e statunitensi, di cui Cossiga doveva sapere molte cose e la cui esistenza venne scoperta solo nel 1990 . Gli anni ’90 sono stati soprattutto, però, gli anni in cui iniziò il defilarsi politico di Andreotti, che però rimase sempre forte di un potere e di un carisma da pochissimi eguagliati.

Sicuramente la maggiore macchia di Andreotti è quella che riguarda il suo coinvolgimento mafioso. Il Divo venne posto sotto processo a Palermo per associazione a delinquere e nel 1999 ola sentenza di primo grado lo assolse. Successivamente, però, il 2 maggio 2003, la sentenza di appello distinse la vicenda che riguardava il coinvolgimento di Andreotti con ambienti mafiosi in due tronconi temporali: quello antecedente al 1980 e quello successivo. I giudici di merito si espressero statuendo che, per quello che riguardava gli anni precedenti al 1980, Andreotti aveva “commesso” il “reato di partecipazione all’ associazione per delinquere” (Cosa Nostra), “concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980”, reato però “estinto per prescrizione”. Per i fatti successivi, Andreotti è stato invece assolto. La sentenza riconosce “un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980”.

Questa sentenza venne ricorsa sia dalla difesa che dall’accusa, ma la Cassazione, il 15 ottobre 2004, confermò tutto: la prescrizione per i fatti antecedenti e l’assoluzione per i fatti successivi al 1980. Gli Ermellini, di conseguenza, confermarono anche la motivazione della sentenza di appello che recita così: “quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione”.

Poche ore fa numerosi applausi all’uscita del feretro di Andreotti dopo il funerale in forma privata. Forse è vero: un uomo comune non è in grado di capire e comprendere tutti i meccanismi di potere, come vengono oliati e quale sia il prezzo da pagare perchè si possa ottenere il Bene comune o per la maggior parte dei membri della comunità.

Una vita come quella di Andreotti sfugge dai giudizi universali delle chiacchiere da bar e dei politicanti di oggi e forse, come dice Napolitano, solo la storia potrà giudicarlo con oggettività, riconoscendo meriti e demeriti.

MOSE’ TINTI

 

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