L’OMS DICHIARA CHE L’EMERGENZA DEL VIRUS E’ PASSATA, MA RESTA L’ATTENZIONE
del dottor Giorgio Rossi
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel suo ultimo comunicato per voce del direttore generale Margaret Chan dichiara che l’emergenza Ebola è finalmente in via di estinzione. I nuovi casi continuano a calare; nelle ultime tre settimane sono stati registrati 10 nuovi casi in Liberia, mentre va peggio in Guinea con 152 e in Sierra Leone con 235 nuovi casi. Ma non si può abbassare la guardia, perché basta un procedura non corretta nell’accudire un malato o una sepoltura non sicura, che subito ritorna il rischio che Ebola rialzi la testa. E’ necessario pertanto continuare a concentrare gli sforzi sulle misure di sanità pubblica di comprovata efficacia per finire il lavoro, ma non sarà semplice; infatti il virus a sfruttato rapidamente un mix di opportunità fatto di fattori culturali, storici, geografici e di infrastrutture deboli. Questo mix è lì ancora pronto a mettere le ali a una nuova epidemia.
Uno dei problemi maggiormente pressanti, che l’OMS si trova a fronteggiare in questa fase nei tre paesi dell’Africa occidentale ( Liberia, Guinea e Sierra Leone) maggiormente colpiti dall’epidemia, è quello di come gestire i rifiuti speciali derivanti dalle attività di assistenza sanitaria e pertanto potenzialmente contaminati. A cominciare dall’acqua , un problema non da poco in paesi con sistemi idrici ancora largamente inadeguati.
Ogni posto letto per curare un paziente affetto da Ebola produce 300 litri di rifiuti liquidi al giorno, costituiti da acqua sporca, disinfettanti e farmaci che vengono raccolti in cisterne, le quali attraverso aziende locali, vengono decontaminate e successivamente stivate in appositi impianti. A novembre scorso l’OMS ha chiesto aiuto all’UNICEF per sensibilizzare la popolazione locale su queste problematiche e contemporaneamente ad individuare aree adeguatamente recintato per lo stivaggio dei rifiuti e ove possibile aprire apposite discariche. Ma l’obiettivo di realizzare interventi efficaci e sicuri in tutti i posti in cui ci sia un ospedale che cura pazienti affetti da Ebola, è ancora lontano.
I liquidi, tuttavia, non rappresentano gli unici rifiuti pericolosi prodotti dagli ospedali per la cura dei pazienti con Ebola. Ogni persona che entra nell’unità di trattamento Ebola per assistere i pazienti, per fare le pulizie o semplicemente per visitare i malati deve indossare un Kit di protezione usa e getta composto almeno da mascherina, camice resistente all’acqua, guanti, copriscarpe e grembiule. Ciò significa che per ogni paziente trattato vengono usati almeno quattro kit al giorno. Una montagna di rifiuti potenzialmente contaminati il cui smaltimento sta cominciando a diventare problematico. Se in alcuni ospedali è stato possibile realizzare degli appositi inceneritori, in alcune aree i kit usati vengono ancora bruciati all’aria aperta con non poche preoccupazioni per la popolazione.
Pertanto ancora sono necessarie importanti risorse economiche e qui emergono ulteriori criticità . La beneficenza internazionale è stata tanta., ma troppo lenta. E’ ciò che afferma Karen A. Grépin, esperta di politica sanitaria dell’Università di New York in un editoriale apparso in questi giorni sul British Medical Journal. Un terzo delle don azioni promesse deve arrivare ancora a destinazione, la macchina degli aiuti ha viaggiato con tempi eccessivamente lunghi, incompatibili con il rapido evolversi iniziale dell’emergenza. Un punto debole che rischia di vanificare la generosità dei donatori, superiore persino alle richieste della United National Mission for Ebola Emergency Response (UNMEER), l’organismo delle Nazioni Unite istituito per affrontare la crisi.
Secondo la Grépin le cifre parlano chiaro: a metà novembre 2014, otto mesi dopo l’inizio dell’epidemia, gli aiuti richiesti erano 1,5 miliardi di dollari, alla fine di dicembre i soldi promessi dalla comunità internazionale erano arrivati a 2 miliardi e 890 milioni, ma alla stessa data quelli effettivamente giunti nelle regioni colpite dal virus erano 1,09 miliardi di dollari. Un sussidio inferiore al necessario, ma soprattutto atteso a lungo: il primo sostanzioso pagamento di 500 milioni di dollari è arrivato infatti solo a metà ottobre 2014, più di sei mesi dopo l’allarme lanciato l’OMS dal primo ministro della Guinea preoccupato per l’evoluzione particolarmente rapida dell’epidemia.
Sembrerebbe che, secondo la Grépin, che gli ingranaggi del sistema hanno faticato a mettersi in moto sin dalla fase iniziale; in particolare gli organismi internazionali, in primis l’OMS, avrebbero avuto difficoltà nel quantificare le risorse necessarie per affrontare l’epidemia, fornendo inizialmente stime al ribasso, ciò ha comportato ritardi che ha consentito una ulteriore diffusione del virus che ha sua volta a comportato un ulteriore aumento delle spese necessarie per bloccare il contagio.
Altro punto per spiegare il ritardo degli aiuti è rappresentato dal fatto che molti donatori non hanno mantenuto le loro promesse di pagamento. Gli USA e il Regno Unito, responsabili del 60% delle donazioni, al 31 dicembre avevano in moneta sonante rispettivamente il 95% e il 98,4% del loro annunciato aiuto economico. La Banca Mondiale, invece, che ha contribuito solo per 11,5% delle donazioni,ha concretizzato solo il 51% di quanto previsto.
L’autrice dell’editoriale prosegue affermando che solamente il 11,5% delle risorse è andato direttamente ai governi dei paesi colpiti dall’epidemia; la maggior parte è stata raccolta dalle agenzie delle Nazioni Unite, come l’OMS e l’UNICEF, e dalle organizzazioni non governative. Inoltre non tutti gli Stati hanno ricevuto lo stesso trattamento; ad esempio la Liberia ha ottenuto un finanziamento doppio rispetto alla Sierra Leone: 110.000 dollari per singolo malato rispetto ai 49.000 destinati ai suoi vicini.
Condizioni che potranno pesare a lungo termine sul processo di ricostruzione dei paesi colpiti.
Il peggio è passato, ma la guerra non è finita.