di Gaia Di Bonaventura **
La produzione di rifiuti sul suolo europeo supera i 2,5 miliardi di tonnellate, per ovviare tale problema l’Unione Europea negli ultimi decenni ha provveduto ad arginarlo con l’aggiornamento della legislazione in materia di gestione dei rifiuti.
Si tratta di un problema che affonda le sue radici nel lontano XIX secolo, durante la rivoluzione industriale, in cui assistiamo ad un enorme mutamento della società. Un esempio lampante è la città di Londra, che, in brevissimo tempo, si converte in una metropoli la cui produzione, industriale e in serie, subisce una esponenziale crescita. Qui sorge la difficoltà: vi fu, da un lato, la crescita della produzione, ma dall’altro, non venne previsto un sistema di smaltimento di rifiuti idoneo a contenere tali maggiori fonti di inquinamento e sporcizia.
Nel 1850 vennero introdotti i recipienti della raccolta dei rifiuti e la situazione emergenziale iniziò a rientrare. Con il passare degli anni, nell’era del consumismo, i rifiuti divennero qualcosa da allontanare dalle città, iniziando così a farsi strada la consapevolezza e la volontà dell’uomo di scaricarli e abbandonarli il più lontano possibile dai centri abitati. Un comportamento che presuppone un ambiente naturale che cambi la propria funzione e che assuma la forma di una discarica a cielo aperto e dalla capacità infinita.
Presto ci si accorse dei gravissimi danni provocati da questa strategia, aggravati anche dalla comparsa di nuovi materiali, plastiche e primi apparecchi elettronici. In aggiunta, il boom economico del secolo scorso ha accentuato questo percorso: in una società in cui l’imperativo è comprare e consumare, non c’è posto per pensare al destino di tutto ciò che si getta via. Con queste premesse è chiaro come la produzione di rifiuti giunse alle stelle, concentrandosi nelle città e aumentando al ritmo della crescita economica.
Come anticipato all’inizio dell’articolo, l’UE attualmente continua a procedere nello studio di strategie al fine di sfruttare sempre più i rifiuti e limitare un’altra incombenza: l’esaurimento delle fonti naturali di energia, diretta conseguenza dell’economia lineare, basata sull’estrazione di queste ultime.
Come? Attraverso l’introduzione di un nuovo modello economico, la cosiddetta “economia circolare”. L’economia circolare è, in primo luogo, un modello di produzione e di consumo basato sulla condivisione, sul riutilizzo, riciclo dei materiali e prodotti già esistenti. In secondo luogo, come risulta chiaro dalla sua definizione, essa è l’antitesi dell’economia lineare, che ha governato costantemente la nostra politica economica, portandola ad un graduale fallimento, in quanto basata sulla continua estrazione delle materie prime, sulla produzione e utilizzo di beni destinati a diventare rifiuti non più sostenibili a livello ambientale.
Al contrario, l’economia circolare provvede ad allungare il ciclo vitale dei prodotti, contribuendo notevolmente a ridurre i rifiuti. Una volta che il bene ha terminato la sua funzione, i materiali di cui era composto vengono reintrodotti nel ciclo economico, generando ulteriore valore e limitando l’estrazione delle materie prime.
Da questa trattazione, emerge che sono davvero molteplici i benefici che si possono trarre da questo schema di comportamento economico: riduzione dell’inquinamento ambientale, più sicurezza circa la disponibilità di materie prime, incremento dell’occupazione e aumento della competitività. Ancora, analizzando i dati dell’UE, emerge che, attraverso misure come quelle appena indicate, le imprese europee otterrebbero un risparmio netto di 600 miliardi di euro, pari all’8 % del fatturato annuo e ridurrebbero, nel contempo, le emissioni totali annue di gas serra del 2-4 %
La conseguenza più eclatante di questa economia circolare è la formazione di SMART CITY, ovvero città intelligenti in cui, grazie all’utilizzo generale dell’innovazione tecnologica, è possibile ottimizzare e migliorare le infrastrutture e i servizi ai cittadini rendendoli più efficienti. In particolare, si tratta di introdurre l’Internet of things (ossia la tecnologia) nelle diverse sfere della pubblica amministrazione: trasporti pubblici e mobilità, gestione e distribuzione dell’energia, illuminazione pubblica, sicurezza urbana, gestione e monitoraggio ambientale, gestione dei rifiuti, manutenzione e ottimizzazione degli edifici pubblici, sistemi di comunicazione e informazione e altri servizi di pubblica utilità.
Ovviamente, l’UE ha stabilito le caratteristiche che una smart city deve necessariamente avere: le “smart people”: cittadini coinvolti e partecipi, attraverso il processo decisionale di “bottom up” cioè da basso verso l’alto e di politica partecipativa; “smart governance” in quanto, come ricordato, l’amministrazione deve dare centralità al capitale umano e alle risorse ambientali; “smart economy” che vede l’economia e il commercio urbano rivolti all’aumento della produttività basandosi sull’innovazione tecnologica; “smart living”, che innalza il livello di benessere garantito ai cittadini; “smart mobility” soluzioni di mobilità intelligente; “smart environment” sviluppo sostenibile, con basso impatto ambientale.
Nel 2020, questo sistema teorizzato e disciplinato dall’UE, inizia a trovare applicazione in diverse città: Amsterdam, che cerca sempre più sostenibilità, Londra, che punta sulla raccolta e sull’analisi dei dati, Singapore diventa la città-Stato più intelligente del mondo, a Milano vincono la mobilità sostenibile e le start up, mentre Firenze si converte nella città più digitale d’Italia. Con questa prospettiva, saremo in grado di fare nostro il futuro, salvaguardando quell’elemento che sfruttiamo da secoli, senza regalarle nulla in cambio: la terra.
Fonti utilizzate: economiacircolare.confindustria.it ; www.economyup.it; it.businessinsider.com
**ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE EX AEQUO DELLA CATEGORIA “DIRITTO AMBIENTALE” del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata