DAL PERICOLO DELLA PRESCRIZIONE AL PERICOLO DEL NE BIS IN IDEM
di Barbara Fuggiano
Il primo processo Eternit. L’epilogo ormai noto del caso Eternit è il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione (n. 7941/2015) che annulla la condanna di secondo grado per disastro innominato doloso (art. 434 c.p.) perché “la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell’amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all’imputato (i magnate svizzero Stephan Schmidheiny): non oltre perciò il mese di giugno dell’anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento della società del gruppo”, pertanto il reato è da considerarsi estinto per intervenuta prescrizione ben prima della pronuncia di condanna di primo grado nel 2012.
Le reazioni alla sentenza (pronunciata il 19 novembre 2014) sono state le più svariate: dallo scandalo gridato dall’opinione pubblica – che ha giustamente ritenuto questo epilogo una grande ingiustizia e ha criticato il P.M. Guariniello – all’avvertita necessità di riformare l’istituto della prescrizione e la disciplina normativa sui reati ambientali.
Un paio di considerazioni, tuttavia, è giusto farle. Innanzitutto, come già questa rivista ha già avuto modo di segnalare, in realtà il problema focale di questo processo (e del sistema giuridico nel suo complesso) non sta nelle lungaggini della giustizia o nell’istituto della prescrizione che, invece, risponde alla sacrosanta esigenza di uno Stato sociale di diritto secondo cui, trascorso un sensibile lasso di tempo, l’interesse punitivo dello Stato va scemando tanto quanto la necessità di rieducare – dando per buona l’idea che la pena detentiva possa realmente rieducare – il reo, che potrebbe essere una persona ormai diversa rispetto a quella che ha commesso il fatto.
Inoltre, la scelta di impostare l’accusa sul disastro innominato doloso piuttosto che sull’omicidio colposo e/o doloso rispondeva alla logica di sottolineare l’entità del danno alla salute della popolazione del posto e, soprattutto, di evitare di affrontare quelle questioni giuridiche che, in materia di nesso causale tra condotta e evento e di prevedibilità/evitabilità dell’evento in concreto verificatosi, hanno portato a pronunce assolutorie in casi non dissimili da quello Eternit.
Per usare le parole dello stesso Guariniello: “Il procedimento (per omicidio) è partito contentemporaneamente, ipotizzando il disastro e l’omicidio. Ma il primo è un reato d’insieme, per cui si procede più rapidamente; altra cosa è disporre perizie e consulenze su oltre 2 mila persona. Ci vuole tempo, i casi vanno esaminati uno per uno”.
Si tratta di una scelta azzardata, fors’anche criticabile, ma di certo non insensata o impulsiva: il tentativo di reinterpretare la disciplina del disastro innominato doloso aggravato sulla scia del caso di Porto Marghera del 2007, tuttavia, non ha funzionato e il P.M. è stato messo alla gogna. Se avesse funzionato, allora, sarebbe stato un eroe? Forse. Ma il problema, appunto, ha radici più profonde e si riferisce all’assenza di una disciplina normativa specifica in grado di punire la condotta di chi, svolgendo un’attività pericolosa, comprometta l’equilibrio ambientale, inquinandolo e danneggiando la salute delle persone.
In risposta alle numerose critiche, il P.M. Guariniello ha sostenuto che: “abbiamo agito per i reati collettivi prima, ora ci sono i singoli casi di omicidio. E’ pacifico che quando si commette un omicidio questo si consuma dal momento in cui avviene la morte del lavoratore o del cittadino e, quindi, abbiamo un reato su cui non peserebbe la prescrizione”.
Dunque, è in corso un procedimento Eternit bis, che percorre quella seconda strada – dell’imputazione delle singole morti/lesioni legate all’esposizione alle fibre di amianto – già presentatasi alla stessa accusa che aveva poi optato per la strada “più semplice” da un punto di vista probatorio (il disastro innominato doloso).
Stavolta certamente nessun rischio-prescrizione, ma aleggia il pericolo del ne bis in idem, come già avanzato dalla difesa dell’imputato. Il P.M., però, sostiene fermamente che “ci troviamo di fronte a reati distinti l’uno dall’altro”.
Il principio del ne bis in idem. L’art. 649 c.p.p. prevede che l’imputato prosciolto o condannato non possa essere sottoposto di nuovo a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo (la quaificazione giuridica del fatto),per il grado (la progressione criminosa) o per le circostanze. Si tratta del principio del c.d. ne bis in idem sostanziale, tenuto distinto da quello processuale di cui all’art. 669 c.p.p.
Giurisprudenza e dottrina hanno speso fiumi di parole sul concetto di “medesimo fatto”, per giungere a concludere che tale espressione allude al “fatto storico – naturalistico del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell’evento e nel rapporto di causalità, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo, di persona e di oggetto materiale della condotta” (tra le ultime sentenze, Cass. SS.UU. 34655/2005).
Dunque, in parole povere e senza perderci in disquisizioni troppo tecniche, per scongiurare una pronuncia di improcedibilità dell’azione penale per ne bis in idem, è necessario che la sfatura tra le imputazioni dei due procedimenti considerati non dipenda solo da una diversa qualificazione giuridica del fatto, ma anche e soprattutto dalla sussistenza di fatti ontologicamente diversi nelle singole componenti strutturali, in un’ottica, prima, naturalistica e, poi, giuridica.
Un nuovo processo per gli stessi comportamenti, ancorché imperniato su un’imputazione più precisa e calzante rispetto alla prima, non ha ragion d’essere né, in un’ottica di garanzia per l’imputato, può sopperire a errori procedurali commessi in precedenza dall’accusa o dall’organo giudicante.
Il processo Eternit bis. Schmidheiny era già stato raggiunto, nel luglio 2014, dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari e l’imputazione, riprendendo la sentenza di condanna di secondo grado, si riferiva all’omicidio di 213 persone (tra il 1989 e il 2013) sorretto dal “dolo diretto”, perché, consapevole sin dal 1976 dei rischi connessi all’esposizione alle fibre di amianto, l’imprenditore non avrebbe protetto gli operai né migliorato le condizioni di lavoro e avrebbe, invece, messo in atto una strategia di disinformazione sui rischi della produzione e commercializzazione dei manufatti con l’obiettivo di tranquillizzare i lavoratori e gli acquirenti dei prodotti Eternit e mantenere i livelli di redditività.
L’avvocato della difesa, sottolineando la coicindenza delle vittime con quelle del primo grado di giudizio nel processo per disastro, ha immediatamente commentato: “I fatti elencati dalla procura d Torino nell’inchiesta per omicidio volontario sono gli stessi che sono stati portati al vaglio della Cassazione nell’ambito del processo per disastro doloso. Vengono solo riproposti in modo diverso”.
Subito dopo l’atteso deposito delle motivazioni della Cassazione, il P.M. di Torino, avendo avuto la conferma che sussistono le basi per andare avanti in questa battaglia, ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per la morte di 258 persone, tra lavoratori (66) e persone che abitavano nelle vicinanze dello stabilimento. “Abbiamo atteso le motivazioni per capire se c’era un netto distinguo tra il reato di disastro e quello di omicidio, visto che secondo la difesa c’era il rischio di processare gli imputati due volte per lo stesso reato. La Cassazione, invece, ha stabilito che questa sentenza nulla ha a che vedere con lesioni e morti”, anche perché “seppure il reato sia prescritto non c’è evidenza che l’imputato non l’abbia commesso, altrimenti la Cassazione l’avrebbe assolto nel merito” ha detto.
Nonostante il P.M. Guariniello continui a ribadire che la diversità tra i processi sia da rinvenirsi principalmente nella diversa qualificazione giuridica, abbiamo già visto come l’art. 649 c.p.p. non si concentra su questa ma, piuttosto, sul fatto storico oggetto di contestazione.
E’ evidente, comunque, la complessità della questione.
La Corte ha sottolineato che il reato di disastro innominato doloso, nella sua forma aggravata, prevede il verificarsi di un evento (il disastro) – da considerarsi accertato nel caso di specie – e l’aver danneggiato il bene protetto (la pubblica incolumità, nella quale può essere ricompreso il bene della vita delle vittime). Tuttavia, l’evento rileva solo quale circostanza aggravante, essendosi il delitto consumato con ‘esaurirsi della condotta, la cessazione dell’esposizione con la chiusura degli stabilimenti.
Gli omicidi oggi contestati nell’Eternit bis, invece, si riferiscono ad un evento (la morte degli orperai) diverso, seppur la condotta incriminata (l’aver esposto alle fibre di amianto la popolazione, nella consapevolezza della pericolisità di questo materiale) nonché le cirostanze di tempo/luogo e l’oggetto materiale sembrano coincidere.
Ai posteri l’ardua sentenza su una vicenda umanamente così odiosa. To be continued.