DEPOSITATE LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DELLO SCORSO NOVEMBRE
di Avv. Valentina Copparoni (Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni di Ancona)
Il 23 febbraio sono state depositate le 146 pagine di motivazioni per le quali la Suprema Corte di Cassazione il 19 novembre scorso ha deciso per l’annullamento delle condanne e dei risarcimenti nell’ambito del processo Eternit.
Il reato contestato, ossia il disastro, è stato considerato già prescritto sia al momento del rinvio a giudizio dello svizzero Schmideiny che al momento della sentenza di primo grado.
Per la Cassazione “a far data dall’agosto dell’anno 1993” era ormai acclarato l’effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell’anno, era stata “definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti”. “E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti per la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005”.
In ogni caso è il 1986 la data di riferimento alla quale si è risaliti per definire la consumazione del reato di disastro, ovvero il giugno 1986, data del fallimento degli
stabilimenti Stephan Schmidheiny e data in cui cessò l’immissione di polveri di amianto. I reati contestati e attribuiti in primo e secondo grado erano prescritti ancor prima del rinvio a giudizio pertanto il Tribunale di Torino, secondo la Corte di Cassazione, avrebbe confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato e poi la Corte d’Appello di Torino in maniera inopinata avrebbe aggiunto all’evento costitutivo del disastro eventi ulteriori come le malattie e le morti.Tali eventi, invece, avrebbero dovuto costituire reati diversi ossia quelli di lesioni e e omicidio.
Secondo la Cassazione poi, l’imputazione di disastro a carico dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il rinvio a giudizio dal momento che la condanna massima sarebbe troppo bassa perché punita con 12 anni di reclusione. In pratica “colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage” verrebbe punito con solo 12 anni di carcere e questo è “insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso”, afferma la Suprema Corte.
La Corte poi si sofferma anche sull’imputazione di mancata bonifica richiesta dalle parti civili e svolge un ragionamento analogo.
“Non può annettersi rilievo, nella situazione normativa data, alla circostanza della mancata o incompleta bonifica dei siti” contaminati dall’amianto nelle zone di produzione dell’Eternit. Lo sottolinea la Cassazione respingendo la tesi di alcuni dei difensori delle vittime che ritenevano che l’imprenditore svizzero Schmidheiny dovesse essere dichiarato responsabile per la mancata o incompleta bonifica dei siti produttivi. La Corte spiega che la fattispecie incriminatrice del reato di disastro “non reca traccia di tale obbligo, né esso, o altro obbligo analogo, può desumersi dall’ordinamento giuridico, specie se riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986)”.
Per la Cassazione poi “la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri d’amianto prodotte dagli stabilimenti gestiti da Stephan Schmidheiny” e cioè “non oltre il mese di giugno dell’anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo”. Con il fallimento, infatti, “venne meno ogni potere gestorio riferibile all’imputato e al gruppo svizzero” e gli stabilimenti (Casale Monserrato e Cavagnolo in Piemonte, Napoli-Bagnoli in Campania e Rubiera in Emilia), cessarono l’attività produttiva “che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante”.
Essendo la prescrizione intervenuta anteriormente alla sentenza di primo grado cadono “tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni”.
Intanto nello stesso giorno del deposito di queste motivazioni la Procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per l’imprenditore svizzero della Eternit, Stephan Schmidheiny. L’accusa questa volta è di omicidio volontario aggravato per la morte da amianto, tra il 1989 e il 2014, di 258 persone. Lo ha reso noto il Pubblico Ministero dott. Guariniello commentando le motivazioni della sentenza di prescrizione della Cassazione.
Le reazioni anche dopo il deposito delle motivazioni della sentenza non sono mancate.
La sentenza “ha seguito una logica giuridica che andava bene 80 anni fa” afferma Bruno Pesce, portavoce dell’Afeva, associazione che riunisce i parenti delle vittime dell’amianto di Casale Monferrato. “I giudici non hanno tenuto conto del fatto che il disastro è ancora in essere negli effetti e nelle cause. Questa sentenza è un atto di giustizia anacronistica”. Pur ammettendo che “la legge non è del tutto chiara in materia di disastri ambientali”, e che “per fatti come questo non dovrebbe esserci la prescrizione”, l’Afeva sostiene che “era doveroso prendere atto delle caratteristiche di questo disastro, che vede le cause, non gli effetti, ancora in essere. Siamo esterrefatti”.
I parenti delle vittime auspicano “che lo Stato si costituisca parte civile nel prossimo processo, visto che spende milioni per la bonifica dei siti. Per ora, infatti, ce la dobbiamo prendere con lo Stato e non con chi ha commesso il reato”.
Sul capo di imputazione, infine, l’associazione concorda con la linea portata avanti dall’accusa nei primi due gradi di giudizio: “Con l’accusa di omicidio colposo non ci sarebbe stata la fotografia esatta della situazione e si sarebbe evitato di affermare il principio che disastri di questo genere non devono più verificarsi. È un principio forse troppo importante per poter essere affermato… Siamo in un mondo che è ancora molto indietro”.
LA RICOSTRUZIONE DEL PROCESSO
IL SECONDO GRADO PRIMA DELLA CASSAZIONE
Il processo a carico della multinazionale elvetica Eternit, operativa anche in Italia con quattro stabilimenti, è considerato il più grande processo per disastro ambientale mai svolto in Europa ed i numeri in effetti parlano da soli: quasi 2890 persone offese tra lavoratori e cittadini di cui più di 2000 decedute e le restanti ammalate a causa delle polveri tossiche sprigionate dalla lavorazione di un particolare tipo di cemento-amianto, chiamato appunto Eternit, utilizzato in edilizia soprattutto come copertura.
Il 3 maggio 2013 è arrivata la sentenza anche di secondo grado. La decisione è stata parzialmente riformata con la condanna a 18 anni di reclusione per disastro ambientale doloso permanente ed omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, con aggravamento della pena inflitta disposta in primo grado (16 anni) a carico del magnate svizzero Stephan Schmidheiny. Quest’ultimo è l’ unico imputato rimasto dopo la morte, avvenuta il 21 maggio scorso, del barone belga Louis De Cartier De Marchienne, a 92 anni; per quel che riguardano le contestazioni a carico di quest’ultimo i giudici si sono pronunciati per l’assoluzione per alcuni degli episodi contestati, mentre hanno dichiarato il non luogo a procedere data la morte dell’imputato per gli altri.
Alla lettura del dispositivo è seguito il lungo elenco dei risarcimenti alle numerose parti civili.
Disposte provvisionali per 20 milioni di euro alla Regione Piemonte e di oltre 30,9 milioni per il comune di Casale Monferrato. Ammontano a 89 milioni gli indennizzi che la Eternit dovrà versare a titolo di provvisionale; a ciascuna delle 932 persone fisiche (malati o parenti di persone decedute) sono stati destinati 30 mila euro.
Le somme dovranno essere pagate dall’imputato, Stephan Schmidheiny e dai responsabili civili Anova, Becon e Amindus.
Tuttavia la Corte d’Appello ha escluso l’Inail dal gruppo delle parti civili che devono essere indennizzate e questo perché è stata pronunciata l’assoluzione dell’imputato dall’accusa di omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. Con questa formula l’esecuzione della sentenza (ossia il recupero delle somme), come spiegato dall’Avv. Lamacchia difensore di molti lavoratori ed organizzazioni sindacali, ricade tutto su quest’ultimi mentre prima era a carico dell’Istituto di Previdenza.
Per quanto riguarda Schmidheiny la Corte di appello torinese ha stabilito che il periodo in cui gestì la Eternit è quello dal giugno del 1976 per gli stabilimenti di Casale (Alessandria), Cavagnolo (Torino) e Bagnoli (Napoli) e dal 1980 per quello di Rubiera (Reggio Emilia) arrivando fino al giugno del 1986 per Casale e Cavagnolo, fino al 1985 per Bagnoli e fino al 1984 per Rubiera. Assoluzione, invece, per il periodo che va dal giugno del 1966 al 1976 per non aver commesso il fatto.
Il Pubblico Ministero Raffaele Guariniello ha definito la sentenza “un inno alla vita. È un sogno di giustizia che si avvera. Speriamo che si avveri anche a Taranto (n.d.r. riferimento al caso Ilva) e in tutti i Paesi del mondo in cui si continua a usare l’amianto. Non è che uno sia mai contento delle sentenze di condanna ma questa è un grande messaggio lanciato al nostro Paese e ai Paesi di tutto il mondo; una sentenza importante anche per tutta la popolazione.
Dobbiamo cercare di raccogliere questa sentenza e diffonderla nel mondo: qui in Italia noi siamo riusciti a fare un processo che nessuno è riuscito mai a fare in alcuna parte del mondo. La posta in palio è la tutela dell’uomo e della sua salute. Il disastro ambientale doloso riconosciuto dalla Corte non è solo per i lavoratori ma riguarda tutta la popolazione”.
Il processo di primo grado
Le richieste di condanna in primo grado sono arrivate dopo circa cinquanta udienze del processo iniziato nel 2009 a carico dei vertici della Eternit.
I fatti contestati ai massimi responsabili della multinazionale svizzera risalgono al periodo 1952-2008; in particolare i reati contestati a Stephan Schmidhein e a Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne, dirigenti della Eternit, sono :
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disastro ambientale doloso in riferimento all’inquinamento ed alla diffusione delle fibre tossiche del cemento-amianto:
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omissione volontaria di cautele sui luoghi di lavoro
Per disastro ambientale si intende un reato previsto dall’art. 434 del nostro codice penale per cui chiunque commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro, è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da 1 a 5 anni. Se però il crollo o il disastro si verificano, la pena è aumentata e la reclusione prevista è da 3 a 12 anni.
L’omissione volontaria di cautele sui luoghi di lavoro invece è un reato previsto dall’art. 437 c.p. che prevede che chiunque omette di collocare impianti, apparecchiature o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è aumentata ed è prevista la reclusione da 3 a 10 anni.
La condanna
La sentenza conclusiva del processo di primo grado è stata definita storica.
In 713 pagine sono state scritte le motivazioni della condanna a 16 anni di reclusione (oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, l’interdizione legale per la durata della pena e l’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione per tre anni) a carico dei dirigenti della multinazionale svizzera Eternit.
Il processo e la sentenza sono stati definiti “storici” perché è stata riconosciuta in capo ai vertici dell’azienda una responsabilità non semplicemente colposa (ossia dovuta da negligenza,imprudenza, imperizia, violazioni di leggi, regolamenti, ordini o discipline) ma di natura dolosa (ossia volontaria) seppur nella forma eventuale. Infatti entrambe le accuse sono contestate a titolo di “dolo eventuale” che è una forma di imputazione del reato che consiste nell’aver agito rappresentandosi la concreta possibilità di realizzazione del fatto di reato e accettando il rischio del verificarsi dello stesso.
Tale elemento psicologico si differenzia dalla cosi detta “colpa cosciente” o “con previsione” (che è una aggravante comune che comporta un aumento fino ad un terzo della pena prevista per ipotesi di reato colposo semplice) che invece è una forma della colpa che consiste nell’aver agito con rappresentazione della mera possibilità di realizzazione del fatto di reato senza però accettazione del rischio ossia con convinzione che il fatto medesimo non si sarebbe verificato.
Nel lungo corpo delle motivazioni pesano come un macigno le parole del collegio giudicante che definisce l’elemento psicologico della condotta degli imputati “dolo di elevatissima intensità” e che nonostante i danni dell’amianto fossero noti dal 1968 “sia De Cartier che Schmidheiny hanno continuato nonostante tutto e non si sono fermati, né hanno ritenuto di dover modificare radicalmente e strutturalmente lasituazione al fine di migliorare l’ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l’inquinamento ambientale”.
Agli imputati inoltre non è stata concessa alcuna attenuante perché “hanno cercato di nascondere e minimizzare gli effetti nocivi per l’ambiente e le persone derivanti dalla lavorazione dell’amianto pur di proseguire nella condotta criminosa intrapresa, facendo così trasparire un dolo di elevatissima intensità” ed ancora “Non può essere riconosciuta alcuna attenuante mentre risulta evidente che gli imputati hanno agito in esecuzione del medesimo disegno criminoso”.
“Il comportamento degli imputati, come risulta evidente da tutto quanto fin qui considerato, assume caratteri di notevole gravità con riferimento alla pluralità dei luoghi e degli stabilimenti interessati, con riferimento alla notevole durata della loro condotta e con riferimento alla straordinaria portata dei danni e del pericolo che ne sono conseguiti e che, come si è detto, tuttora continuano a conseguire”
Il giudizio di condanna inoltre si è fondato sul fatto che hanno “fornito a privati e a enti pubblici e mantenuto in uso, materiali di amianto per la pavimentazione di strade, cortili, aie, o per la coibentazione di sottotetti di civile abitazione, determinando un’esposizione incontrollata, continuativa e a tutt’oggi perdurante, senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei predetti materiali e per giunta inducendo un’esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività ludiche” ed “omesso di organizzare la pulizia degli indumenti di lavoro in ambito aziendale, in modo da evitare l’indebita esposizione ad amianto dei familiari conviventi e delle persone addette alla predetta pulizia. Con l’aggravante che il disastro è avvenuto, in quanto l’amianto è stato immesso in ambienti di lavoro e in ambienti di vita su vasta scala e per più decenni mettendo in pericolo e danneggiando la vita e l’integrità fisica sia di un numero indeterminato di lavoratori sia di popolazioni e causando il decesso di un elevato numero di lavoratori e di cittadini”.
Questa sentenza potrebbe influenzare anche il cosi detto processo “Eternit bis” sui singoli casi delle persone decedute per l’esposizione all’amianto che potrebbe arrivare davanti al Gup di Torino a fine di quest’anno ed il filone “Eternit ter” che riguarda gli italiani che hanno contratto la malattia all’estero, in Svizzera ad esempio, e poi sono rientrati in Italia.
Sull’Eternit bis e’ aperta la possibilità che l’incriminazione degli imputati, sempre gli stessi, passi dal disastro, all’omicidio volontario con dolo eventuale.
Una lunga parte della motivazione della condanna di primo grado nel processo Eternit riguarda le condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti in Italia, in particolare vengono ricostruite le condizioni in cui si svolgeva la lavorazione dell’amianto nei diversi stabilimenti (soprattutto in quello di Casale Monferrato dove si è verificato il maggior numero di vittime). Dalla ricostruzione emerge come il processo produttivo non rispettasse le più elementari regole precauzionali non solo nel periodo in cui la proprietà era del gruppo belga (anni 50-inizio anni 70) durante il quale la lavorazione di materiale di amianto si svolgeva prevalentemente “a secco” ossia con elevata dispersione di polveri nell’ambiente di lavoro, ma anche nel periodo della proprietà svizzera (metà anni ’70-anni 80) che, pur avendo migliorato le misure di prevenzione, non aveva comunque tutelato in maniera adeguata la salute dei lavoratori.