ANALISI DI UN REATO CHE AFFONDA LE RADICI NELLA MORALE E NELL’OSTACOLO ALL’ATTIVITA’ GIUDIZIARIA
di Dott.ssa Erika Martinelli
“Non devi attestare il falso nel testimoniare contro il tuo prossimo” (Esodo 20:16) così scriveva Mosè sotto ispirazione divina. Questo infatti è uno dei comandamenti che Dio diede all’antico Israele e che ancora oggi nella società odierna ha o dovrebbe avere importanza.
Come infatti si può notare, non tutte le persone dicono sempre la verità, alcuni lo fanno per abitudine altri invece per necessità, ma come insegna chiaramente la Bibbia, Dio condanna i bugiardi, poiché come è scritto nel Vangelo di Matteo (Matteo 5:37) “Dio ci dice che dobbiamo dire sempre la verità” e quel sempre è fondamentale per piacere a Dio.
Questo principio vale anche nel diritto penale, in quanto prima di essere una regola giuridica è un precetto morale e, spesso, come tale viene rispettato, a prescindere dal fatto che sia anche norma giuridica. Ne è di esempio per l’appunto, il delitto di falsa testimonianza di cui all’art. 372 c.p.
Esso è un delitto contro l’amministrazione della giustizia che ha come fine quello di tutelare il normale svolgimento dell’attività giudiziaria, in quanto durante i processi si potrebbero verificare situazioni anomale in cui i testimoni rilasciano deposizioni false o reticenti. Il testimone infatti potrebbe; 1) “affermare il falso”ovvero dire una cosa diversa dal vero, come ad esempio alterare la realtà; 2) “negare il vero”cioè negare la verità di un fatto che è realmente accaduto; 3) “tacere” ovvero restare in silenzio, ad esempio essere reticente.
Dalla dottrina viene definito reato proprio esclusivo, perché l’intraneus, cioè il testimone, può essere il solo autore del reato. Il testimone quindi è detentore di scienza diretta dei fatti, è un soggetto terzo rispetto alle parti processuali, il quale è chiamato a rendere, nella istruzione dibattimentale o nell’incidente probatorio, dichiarazioni su fatti determinati e specifici che sono a sua conoscenza.
Nel nostro ordinamento giuridico il legislatore fornisce delle garanzie al testimone, in quanto il codice di procedura penale negli artt. 198 e ss. c.p.p. prevede che, prima di rendere le suddette dichiarazioni, il giudice lo informa di quelle che saranno le sue responsabilità processuali cui andrebbe incontro nel caso in cui dovesse rendere dichiarazioni non corrispondenti al vero e gli consente addirittura di astenersi dal testimoniare nel caso in cui sia un prossimo congiunto dell’imputato, detentore di segreto professionale, di segreto d’ufficio e infine di segreto di Stato. Laddove però, tutto questo non dovesse accadere, il teste andrebbe incontro al reato oggetto di disamina e il giudice trasmetterebbe gli atti al P.M., il quale procederebbe con la formulazione del capo d’imputazione per il delitto de quo.
L’elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo generico, in quanto il testimone palesa la sua coscienza e volontà di dire il falso, di essere reticente o di rifiutarsi nel testimoniare e per questo motivo la dottrina lo considera anche un reato di pericolo ed istantaneo, che si consuma una volta conclusa la deposizione medesima.
L’obiettivo dunque del legislatore è quello di ottenere una dichiarazione genuina e non contaminata da elementi che potrebbero non condurre il giudice penale a prendere serenamente una decisione circa la definizione delle vicenda processuale. La testimonianza infatti è un prezioso mezzo di prova di cui si avvale il giudicante, visto che non è detentore di alcuna verità già processualmente acquisita e per agevolare il suo operato dunque, bisognerebbe che le testimonianze fossero sempre vere, questo sia per una questione giuridica sia per una questione etica.