UN OPPORTUNO PASSO DI UGUAGLIANZA PER LA FAMIGLIA: L’ANALISI GIURIDICA
di Dott.ssa Vanessa Marini (Studio Legale RPC)
“La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, né dalla testa per essere superiore. Ma dal lato per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta e accanto al cuore per essere amata”(William Shakespeare)
Non dovremmo richiamare le parole di Shakespeare di 5 secoli fa per ricordare che uomo e donna sono uguali e che lo sono, o meglio dovrebbero esserlo, anche e ancor di più quando assumono l’importante ruolo di genitori.
Tuttavia, dato il contenuto della recente sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo sui Diritti dell’Uomo che, per l’ennesima volta, ha condannato la legge italiana per la sua arretratezza, è opportuno rinfrescare la memoria e sollecitare qualche riflessione.
Con la citata sentenza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia giudicando discriminatoria e retrograda – “retaggio di una concezione patriarcale” – la legge italiana laddove, ad oggi, non riconosce alle donne-madri la possibilità di trasmettere ai figli unicamente il loro cognome.
La vicenda, arrivata sino a Strasburgo, è iniziata a Milano.
Due coniugi, Alessandra Cusan e M.Luigi Fazzo, si sono visti rifiutare per 15 anni dalle Autorità italiane la possibilità di dare ai loro tre figli il solo cognome della madre.
L’intento della coppia era quello di consentire alla prole di perpetuare il patrimonio morale del nonno materno – uno straordinario filantropo, a dire della coppia – deceduto nel 2011, di cui sarebbe rimasta cancellata la memoria poiché il fratello della signora (l’unico che avrebbe potuto tramandarne il cognome) non aveva eredi.
Nel 1999, con la nascita della primogenita Maddalena, i coniugi avevano provato ad iscrivere la bambina nei registri dell’anagrafe con il solo cognome materno, ma la richiesta era stata bocciata, non essendo stata rinvenuta alcuna fonte di legge che consentisse per i figli nati nell’ambito del matrimonio una scelta di questo tipo; infatti solo il mancato riconoscimento paterno consentiva l’attribuzione, per ovvie ragioni, del cognome materno.
Due anni dopo i due coniugi milanesi decidevano dunque di rivolgersi al Tribunale, il quale faceva notare che, nonostante nessuna disposizione di legge prevedesse che il neonato fosse registrato con il nome del padre, tale regola corrispondeva ad un principio incardinato sia nella coscienza sociale che nella storia italiana.
I due coniugi non soddisfatti – e chi lo sarebbe stato! – della spiegazione decidevano allora di ricorrere alla Corte di Appello, la quale tuttavia confermava la decisione del giudice di primo grado.
Ma la coppia, ancora una volta, non si arrese.
Pur di veder accolta la loro richiesta o anche solo per avere una spiegazione al suo non accoglimento che andasse al di là del “si fa così”, arrivavano dunque alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Cinque giorni fa, pronunciata in un elegantissimo francese, la lapidaria condanna della Corte alla legge italiana.
“I genitori italiani devono avere il diritto di poter dare ai loro figli il solo cognome della madre”.
La legge italiana, per il Giudice dei Diritti, viola infatti i diritti di cui all’art. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e cioè il diritto di non discriminazione tra i coniugi e il diritto al rispetto della privacy della vita di famiglia da parte dello Stato.
In particolare, i giudici della Corte di Strasburgo si sono pronunciati così: «se la regola che stabilisce che ai figli legittimi sia attribuito il cognome del padre può rivelarsi necessaria nella pratica, e non è necessariamente una violazione della convenzione europea dei diritti umani, l’inesistenza di una deroga a questa regola nel momento dell’iscrizione all’anagrafe di un nuovo nato è eccessivamente rigida e discriminatoria verso le donne».
Dinanzi alla vittoria il sollevato e confortante commento della sig.ra Cusan, donna mamma e tenace lottatrice:“E’ un passo avanti verso il progresso e servirà soprattutto ai nostri figli”, ha detto.
L’arretratezza della legge italiana nell’attuazione di certi principi non necessitava in realtà del riconoscimento europeo che purtroppo ha ottenuto. Essa è anche troppo evidente.
Basti pensare che la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, il cui art. 16 impegna gli Stati aderenti ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, è del 1979 ed è stata ratificata dall’Italia nel 1985, ma ad oggi non ha avuto completa attuazione.
Questo pone ancora una volta l’Italia un passo indietro rispetto a molti paesi occidentali ed europei.
Negli Stati Uniti ai genitori è riconosciuto il diritto di chiamare il figlio con il cognome della madre o comunque di aggiungerlo e anteporlo al cognome paterno.
In Spagna e nei Paesi ispano-americani (salvo l’Argentina) i figli assumono sia il primo cognome del padre che il primo della madre.
In Germania vige il cognome della famiglia, cognome scelto dai coniugi, che però hanno anche la facoltà di mantenere il proprio cognome e di trasmettere ai figli l’uno o l’altro.
In Austria il codice civile stabilisce che i coniugi portano lo stesso cognome, che può essere quello del marito o quello della moglie.
In Francia dal 2005 i genitori possono scegliere di trasmettere ai figli il cognome del padre, della madre o di entrambi.
Nel nostro Paese, come ormai troppo spesso siamo abituati, la “macchina del progresso civile” è stata oleata con estrema lentezza.
Nella legislazione italiana non è mai esistita una norma di legge positiva che prevedesse l’attribuzione del cognome paterno ai figli. Si tratta piuttosto di una prassi consolidata all’interno di una società che storicamente è patriarcale.
Un piccolo passo avanti verso la parificazione dei cognomi dei genitori si è avuto nel 2000, quando è stata attribuita ai cittadini la possibilità di aggiungere al cognome paterno quello materno; passo, tuttavia, come ha sottolineato la Corte di Strasburgo, non ancora sufficiente per avere quella uguaglianza tra i genitori che la Convenzione del ’79 auspica.
Nel corso degli anni anche la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi. Varie le censure da parte della Corte di Cassazione.
Con la sentenza n. 13298 del 17 luglio 2004 la Cassazione avanzava sull’art. 143 bis (che ad oggi attribuisce alla donna di accompagnare il proprio cognome a quello del marito) e sulle altre norme del codice civile attinenti, addirittura, questione di legittimità costituzionale per supposto contrasto con gli artt. 2, 3 e 39, secondo comma, della Costituzione.
Questione, tuttavia, rigettata dalla Corte Costituzionale con la sent. 61/06 per il vuoto di regole che si sarebbe venuto a determinare in seguito «alla caducazione della disciplina denunciata».
Nella sentenza, comunque, la Corte non esitava ad esprimere la propria opinione sul problema, affermando senza mezzi termini che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i princìpi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Rimetteva, dunque, al Parlamento, unico legittimato ad emanare o abrogare leggi, la decisione sulle modalità con cui attuare il principio costituzionale dell’uguaglianza tra i genitori anche in fatto di trasmissione del cognome.
Nonostante il velato (neanche troppo!) consiglio della Corte Costituzionale e nonostante la proposta di legge in questo senso presentata da alcuni parlamentari nel 2006, una norma che riconoscesse la parità dei genitori anche quanto al cognome non veniva comunque emanata.
Solo oggi, a seguito dell’autorevole “richiamo all’ordine” europeo, il Governo ha finalmente preparato una bozza di disegno di legge (composta di 4 articoli) che attua i principi messi in luce per molti anni dalla Cassazione e da ultimo dalla Corte di Strasburgo e che dovrebbe modificare l’art. 143 bis c.c..
Secondo quanto riporta l’agenzia Public Policy i figli nati sia dentro che fuori dal matrimonio avranno il cognome del padre oppure, in caso di accordo tra i genitori che deve risultare nella dichiarazione di nascita, quello della madre o di entrambi. Anche ai bambini adottati viene attribuito lo stesso diritto ma, ovviamente, l’accordo è contenuto in una apposita dichiarazione scritta.
È previsto, infine, che queste nuove disposizioni si applichino dopo l’entrata in vigore della legge e alle adozioni pronunciate con decreto emesso in data successiva all’entrata in vigore della legge.
Una nota di Palazzo Chigi precisa che la materia dovrà, comunque, essere approfondita da un gruppo composto dal Ministero degli Interni, quello degli Affari esteri, quello di Giustizia e quello delle Pari Opportunità.
Va detto, per completezza, che il meccanismo di permettere il conferimento ai figli del cognome materno esiste, in realtà, da qualche anno presso le prefetture – come ha prontamente ricordato il Ministro della Giustizia Cancellieri dopo la sentenza europea; tuttavia, come giustamente ha stabilito la Corte di Strasburgo, necessitava di un riconoscimento a livello statale. Riconoscimento che deve tenere conto dei cambiamenti di costume avvenuti nella società e soprattutto che prenda atto dell’uguaglianza uomo donna che fa del diritto di famiglia il suo terreno elettivo (basta pensare alla disciplina dell’affido condiviso dei figli o ancor prima agli obblighi dei coniugi verso i figli).
Alla luce della vicenda descritta, chi scrive si permette di fare due osservazioni.
La prima attiene al rispetto che questa coppia merita da parte di tutti.
Rispetto che nasce sia per la motivazione che li ha spinti – onorare la memoria paterna – sia per la tenacia con cui si sono battuti per vedere riconosciuto un loro diritto, ma ancor prima un principio di legge (uguaglianza dei coniugi) che in altri ambiti e per altre ragioni è invece riconosciuta. Tenacia, purtroppo, che non tutti hanno o riescono sempre ad avere.
La seconda osservazione è, invece, personale e attiene al significato che potrebbe avere una modifica della legge così come suggerita dal disegno di legge.
Posto che viene comunque riconosciuta tale facoltà solo previo accordo dei coniugi, e dunque nel riconoscere pari dignità alla donna-mamma non si arriva all’estremo opposto di escludere l’uomo-papà, la vera prospettiva da cui va guardata questa proposta è, a mio avviso, quella dei bambini.
Al di là di quelle che possono essere le opinione circa l’uguaglianza dei coniugi, che si sia favorevoli (pro uguaglianza) o contrari (patriarcali), ciò che si attuerebbe è l’uguaglianza tra i bambini.
Ad oggi i bambini che hanno il solo cognome materno sono quelli che, come una lettera scarlatta, portano addosso il marchio dei loro papà che non li ha voluti riconoscere.
La legge, modificata secondo la proposta, permetterebbe a questi bambini di mescolarsi, finalmente, con tutti gli altri, di essere uguali ad altri bambini; anche se, va detto, per alcuni avere il solo cognome della mamma sarà comunque frutto di una scelta e non una imposizione del destino.