LA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE DELLA MODA A BASSO COSTO
di Alessandra Pagani **
Il dibattito attorno alla sostenibilità della moda si sviluppa a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. Le criticità riguardavano l’intero ciclo di vita del prodotto fashion, dal design fino alle pratiche relative allo smaltimento che seguono l’utilizzo e il consumo.
Gli anni 90 e 2000 sono stati momenti d’oro per i colossi del Fast fashion con una vera e propria diffusione globale. Da allora i grandi brand del Fast fashion hanno conquistato il mercato, arrivando a competere per diffusione e fatturato anche con realtà del luxury. Il loro successo è correlato all’offerta ai propri consumatori di tendenze del momento ad un prezzo concorrenziale.
Il decennio che stiamo vivendo è definito l’epoca di cambiamento: l’impegno è quello di orientare questo processo verso la sostenibilità e pretendere un nuovo tipo di moda basata su atti improntati alla trasformazione più che al consumo. La sfida della sostenibilità sta lentamente modificando la coscienza di consumatori e produttori.
In alcuni ambiti, l’aggettivo “fast” è letto con accezione pienamente negativa, sinonimo di moda che veicola concetti di non sostenibilità. Molte sono le questioni sottese alla velocità, profondamente interconnesse con i sistemi economici, i modelli imprenditoriali e i sistemi di valori sui quali si fonda il settore della moda oggi. Pressoché inesistente per questi colossi del “fast” il paradigma della sostenibilità.
Dati di dominio pubblico affermano che ognuno di noi possiede almeno tre decine di capi. Moltiplicando quindi per il numero della popolazione mondiale, non sarebbe neanche immaginabile poterne calcolare il numero complessivo.
A tal proposito, ci interroghiamo su cosa e quanto sappiamo del nostro abbigliamento. Siamo a conoscenza della loro composizione, dei materiali utilizzati, della qualità?
Nella coscienza culturale collettiva gran parte del mondo legge la moda essenzialmente come novità, consumo, materialismo, vale il paradigma più acquisti-più possiedi-più utilizzi, ancor meglio se a basso costo. Con la moda consumistica appaiono “naturali” al nostro modo di pensare che quegli stessi prodotti acquistati poco prima appaiano fuori moda e stilisticamente fuori luogo nel giro di una stagione.
Conseguentemente ed imprescindibilmente le ripercussioni ambientali su larga scala sono disastrose, poiché l’utilizzo di sostanze industriali inquinano i fiumi e i terreni vicini alle fabbriche di produzione ed a seguito della lavorazione i coloranti tossici ed aggressivi utilizzati per la colorazione o lo sbiancamento dei tessuti, vengono scaricati ed immessi attraverso fumi ed emissioni inquinanti direttamente nell’atmosfera. Si consideri poi, un dato significativo, ovvero il fatto che la produzione del fast fashion segue un ciclo continuo, la produzione è infatti h 24 per 7 giorni su 7.
Purtroppo, le esigenze di produzione impongono questo ritmo incessante, dettato dalla spasmodica richiesta di consumatori accaniti per assicurarsi l’ultima tendenza.
L’avvento della pandemia da Covid -19 e il potenziamento dell’utilizzo di internet ha fatto si che le colonne del fast abbiano creato in alcuni casi – potenziato in altri – il loro e-commerce, per far fronte alle numerose richieste su scala mondiale. Potenzialmente, con un click è possibile acquistare decine di capi, i quali potranno essere recapitati direttamente nelle nostre case da corrieri con conseguenti emissioni derivanti anche dalle consegne a domicilio.
Tuttavia, un’esca da parte delle catene fast fashion è stata quella di inserire l’opzione del reso gratuito di ogni capo acquistato. Così facendo, la vendita è stata moltiplicata e da una indagine è emerso che i capi resi venissero direttamente raccolti e spediti in container per lo smaltimento, senza possibilità di ri-immetterli nel mercato.
Da un recente report è stato reso noto che, l’Europa, l’Asia e gli Stati Uniti non hanno intenzione di far transitare le tonnellate di indumenti invenduti nel loro territorio dirottando così 39.000 tonnellate circa di indumenti nel deserto di Atacama in Cile. Questa scelta da parte dei paesi occidentali avviene principalmente per l’alto costo del processo di smaltimento dei capi che non sono biodegradabili, ma al contrario altamente inquinanti, proprio per il processo di produzione. Questi capi, abbandonati impieghino almeno 200 anni per decomporsi, per cui il rischio di inquinamento, per le popolazioni limitrofe già in gravi difficoltà, è altissimo.
L’utilizzo di sostanze e materiali di qualità scadente, permettono ai colossi di produrre più capi con materia prima ridotta, al contrario avere altissimi costi per lo smaltimento; nella maggior parte dei casi lo smaltimento è anche contrario alle regole e agli standard di sostenibilità. A titolo esemplificativo si stima che, per l’intero processo di produzione di semplici t-shirt in cotone, l’acqua utilizzata sia superiore ai 2700 litri e si generi un altissimo consumo di energia.
Il binomio ambiente-sostenibilità e fast fashion, è ancora molto lontano dal poter funzionare correttamente.
Pronta risposta è giunta dalla c.d. moda made in Italy che ha recepito la tensione verso un atteggiamento di maggiore responsabilità in cui si aggiunge la dimensione etica all’imprescindibile dimensione estetica. Sono nati molti eventi come il Fashion Revolution Day, campagne di sensibilizzazione e si è coniata una nuova veste del baratto dei primi anni del 900’: è nata così “l’arte dell’uso”.
Spicca tra le molte iniziative il progetto “Carmina Campus”: trattasi dell’idea imprenditoriale di Ilaria Venturini Fendi. Questo brand è l’esempio di come la sostenibilità nel lusso possa realmente entrare nel “core value” di un’azienda se l’imprenditore sposa la filosofia del “vivere sostenibile”.
La strategia di Ilaria Venturini Fendi è impiegare il lavoro di eccellenti artigiani italiani su materiali di scarto, vintage, fondi di magazzino, fine serie. Si tratta di riuso e non di riciclo. Così le borse, gli accessori prodotti da questa nuova filiera risultano pezzi unici ed inimitabili.
In definitiva, la spiccata sensibilità dei consumatori verso le questioni correlate alla sostenibilità impone ai brand della moda di migliorare la loro reputazione inglobando le problematiche legate alla responsabilità sociale e alla sostenibilità nella loro proposta di valore.
In concreto, la scommessa è assicurare percorsi di sostenibilità nel sistema della moda inteso su tutte le fasi della catena: dall’approvvigionamento delle materie prime (a basso impatto ecologico, derivanti da riciclo, da fonti rinnovabili); alla produzione (l’adozione di tecnologie ispirate al riciclo scarti ed eccedenze di produzioni) e da ultimo alla logistica (miglioramento del parco mezzi, riduzione degli imballaggi).
Siamo in balia di una rivoluzione del Fashion, ci si augura che il Fast ceda il passo alla moda Eco-friendly e Slow fashion.
*ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE PER IL MESE DI FEBBRAIO del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata
Bibliografia e sitografia:
ALESSANDRO CASTIGLIONI E GIANNI ROMANO, (a cura di) Moda, design e sostenibilità di Kate Fletcher Postmedia Srl, Milano, 2018
PIETRO LUPPI, Indumenti usati: una panoramica globale per agire eticamente, Milano, 2018.
LIDIA FABIETTI, Made in Italy: quando la moda guarda all’etica, Editoriale La stampa, 2015.
Rivista economia aziendale, 2/2020, Vol.10.
Rivista trimestrale di scienze dell’amministrazione: MORTARA- FRAGAPANE (a cura di) Moda, made in Italy e sostenibilità: un connubio possibile?, vol.4/2016.