ANALISI DEL REATO, COMMENTO E LA QUESTIONE APERTA DEL RAPPORTO TRA FAVOREGGIAMENTO E ATTIVITÀ DEL DIFENSORE
di avv. Annamaria Palumbo
SOMMARIO: I. INTRODUZIONE ALLA NORMA. 1. Cenni storici. II. IL COMMENTO. 1. Nucleo centrale della condotta. 2. Il bene giuridico tutelato. 3. Reato di pericolo. 4. Soggetto attivo. 5. Presupposti. 5.1. Preesistenza di un reato e mancato coinvolgimento nel reato presupposto. La questione ancora aperta del reato permanente: l’emblematico esempio della detenzione illecita di sostanze stupefacenti. 5.2. Il “fatto” di reato presupposto. 6. Il concetto di aiuto e reato a forma libera: configurabilità del favoreggiamento mediante omissione. 7. Elemento soggettivo. 8. Circostanze. 9. Rapporti con altri reati. III. QUESTIONI APERTE. 1. Favoreggiamento ed attività difensiva.
Art. 378.
Favoreggiamento personale.
Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte (1) o l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa, è punito con la reclusione fino a quattro anni.
Quando il delitto commesso è quello previsto dall’art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni.
Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto.
(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall’art. 1 del D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224.
INTRODUZIONE ALLA NORMA.
1. Cenni storici.
Generati dall’emancipazione dal concorso di persone nel reato, il favoreggiamento personale e reale costituiscono strumenti che il legislatore ha messo a disposizione dell’interprete per un’articolazione della risposta sanzionatoria ulteriore rispetto a quanto già ricavabile dagli artt. 110 e ss. c.p. Sin dal Codice Toscano, tali fattispecie vennero ad assumere una connotazione autonoma: “Chiunque, dopo il fatto, senza concerto anteriore al medesimo, e senza contribuire a portarlo a conseguenze ulteriori, scientemente aiuta il delinquente ad assicurare il criminoso profitto, o ad eludere le investigazioni della giustizia, ognoraché non cada sotto una più speciale disposizione della legge, commette il delitto di favoreggiamento”. (Così il testo del I par. dell’art. 60 del Codice penale pel Granducato di Toscana del 1853, Cedam, Padova 1993). Sennonché, la collocazione sistematica della norma nella parte generale del codice, per di più subito dopo la disciplina del concorso di persone nel reato, tradiva una certa pacatezza nel rendere effettiva questa autonomia. Il criterio discretivo dell’assenza di “conseguenze ulteriori” fu mantenuto nella formulazione dell’art. 225 del Codice Zanardelli. Il codice Rocco, invece, irrigidì il criterio cronologico non ammettendo il concorso dopo il fatto dal momento che “non è dato concorrere alla realizzazione di qualcosa che è stato già realizzato” (PAGLIARO (1), 36). La disciplina dettata dal legislatore del 1930 non fu oggetto di sostanziali modifiche, generando piuttosto aspre riserve circa una compiuta affrancazione delle fattispecie favoreggiatrici dalla matrice concorsuale. Il CARRARA ha parlato, a proposito, di una determinazione “tanto necessaria, quanto malagevole”. Il BELING ha definito il favoreggiamento come una fra le disposizioni in assoluto “più infelici” (PULITANÒ (2), 8). Un concreto ausilio ermeneutico perviene piuttosto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ancora impegnate a sciogliere i nodi gordiani tuttora insoluti e di cui si darà conto nei prossimi paragrafi.
IL COMMENTO.
1. Nucleo centrale della condotta.
La condotta contemplata dall’art. 378 c.p. deve consistere in un’attività che abbia frapposto un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini, che abbia, cioè, provocato una negativa alterazione – quale che sia – del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso o si sarebbero comunque potute svolgere (Tribunale di Bari, 12 marzo 2009).
2. Il bene giuridico tutelato.
La non felice formulazione della condotta incriminatrice si riflette, in primis, nella difficoltà di individuare con nettezza l’oggetto giuridico di tutela. Sebbene sia ravvisabile nell’art. 378 c.p. una norma di chiusura nel sistema dei reati a tutela dell’amministrazione della giustizia, non sono mancate interpretazioni tese ad individuarne più precise sfumature, nel pregevole tentativo di evitare che l’art. 378 c.p. da norma di chiusura si trasformi in “clausola generale” nella quale far rientrare tutti i comportamenti possibili di intralcio alla giustizia (PISA (3), 162). Si è assistito, infatti, a spostamenti dell’oggettività giuridica dalla tutela di un generico interesse di natura pubblicistica alla persecuzione dei reati (“all’interesse pubblico che l’opera della giustizia non sia frustrata nella sua finalità di persecuzione del reo”, MAGGIORE (4), 288), alla protezione dell’attività giudiziaria in senso lato quale “interesse della giustizia al regolare svolgersi del processo penale nel momento delle investigazioni e delle ricerche” (PAGLIARO (1), 37; ZANOTTI (5), 56, il quale ha individuato nell’attività pre-processuale di polizia giudiziaria l’oggetto specifico del reato; FIANDACA-MUSCO (6), 392) o quale “lotta giuridica alla delinquenza” o, come più di recente sostenuto, “all’attuazione della volontà della legge”, obiettivo prioritario del processo penale (MANZINI (7), 981; BOSCARELLI (8), 227). In giurisprudenza Cass. Pen. Sez. I, 11 novembre 1971, Di Gennaro; Cass. Pen. Sez. I, 22 marzo 1982, Carli; Cass. Pen. Sez. I, 20 maggio 1987, Bardella). Non è da tacere, poi, l’opinione di quanti, criticando l’eccessiva genericità ed indeterminatezza dei concetti appena richiamati, hanno invece sottolineato la naturale inclinazione di tale figura di reato a “ripresentarsi, per così dire, come forma generale ed esaustiva delle prestazioni post commissum delictum” (PULITANÒ (2), 14, PADOVANI (9), 1). Interessanti poi, ancora oggi, le osservazioni circa il già citato faticoso distacco della fattispecie di favoreggiamento personale dal concursus subsequens e la difficile conquista di uno spazio autonomo (CARRARA (10), 518). Esito comune ad ogni approccio speculativo rimane, comunque, la considerazione per cui il bene giuridico tutelato dall’articolo 378 c.p. è e rimane un’oggettività giuridica di categoria fissa, quale ne sia la sfumatura scelta. Mentre altrettanto non può dirsi del bene giuridico protetto dalla fattispecie plurisoggettiva nascente dalla combinazione della singola previsione di parte speciale con la clausola incriminatrice dell’articolo 110 c.p., che varia a seconda del tipo di reato di volta in volta rilevante.
3. Reato di pericolo.
Il carattere di reato di mera condotta e di pericolo dei delitti di favoreggiamento costituisce un dato pressoché pacifico in giurisprudenza. Ai fini della configurabilità del delitto di favoreggiamento personale non rileva, infatti, l’effettività dello sviamento delle indagini nel caso concreto, essendo sufficiente che la condotta dell’agente abbia l’attitudine, sia pure astratta, ad intralciare il corso della giustizia (Cass. Pen. Sez. I, 14 aprile 2010 n. 21956). Per distinguere l’ipotesi del delitto consumato rispetto a quello tentato, si è anche affermato che la condotta di favoreggiamento, pur se è sufficiente che sia anche solo potenzialmente lesiva delle investigazioni dell’autorità, per essere tale deve in ogni caso pervenire alla percezione ed entrare nella sfera dell’organo investigativo (Cass. Pen. Sez. VI, 18 ottobre 1994, Berutti). Anche la dottrina dominante propende per la costruzione del delitto in termini di reato di pericolo (PISA, (3), 166; FIANDACA-MUSCO (6), 393; ZANOTTI (5), 20).
Si registrano, tuttavia, posizioni minoritarie che costruiscono il favoreggiamento come delitto di evento e reato di danno, argomentando nel senso che la condotta deve aver in ogni caso migliorato la posizione del soggetto aiutato nelle investigazioni o nelle ricerche (in atto o possibili), realizzando un effettivo mutamento della situazione di fatto. Ciò è richiesto, in primo luogo, dal confronto tra il favoreggiamento personale ed altre fattispecie di reato ritenute ipotesi speciali di favoreggiamento, quali la “procurata inosservanza di pena” (articolo 390 c.p.) e la “procurata inosservanza di misura di sicurezza detentiva” (articolo 391 c.p.). Tali ipotesi si caratterizzano, infatti, per una relazione causale tra i comportamenti dell’agente ed il risultato da questi perseguito, che deve comunque essere effettivamente conseguito ai fini del perfezionamento del fatto tipico. In secondo luogo, dall’assenza nella formulazione dell’articolo 378 c.p. di espressioni tendenzialmente usate dal legislatore per descrivere ipotesi di reato di mera condotta a consumazione anticipata (LEONCINI (11), 1; BOSCARELLI (8), 51; PADOVANI (9), 1; MANZINI (7), 849).
Di fondamentale importanza è, in ogni caso, l’idoneità oggettiva della condotta ad intralciare il corso della giustizia. Il delitto, infatti, non si perfeziona quando la condotta non sia potenzialmente idonea al conseguimento del risultato voluto, come nel caso in cui sia già stato disposto il rinvio a giudizio (Cass. Pen. Sez VI, 7 aprile 2011 n. 16558). È stata, per converso, ritenuta configurabile la fattispecie nell’ipotesi in cui l’autorità già fosse a conoscenza dei fatti ed avesse conseguito la prova della commissione del delitto da parte della persona aiutata (Tribunale di Torre Annunziata, 22 febbraio 2008,n. 1393). Ancora, si è sostenuto che l’eventuale ininfluenza concreta del comportamento del soggetto agente sull’esito delle indagini non ha alcun rilievo scriminante (Cass. Pen. Sez. VI, 12 novembre 2002, Chiregatti; Cass. Pen. Sez. VI, 3 novembre 1997, Leanza). Configurabile è il reato di favoreggiamento personale anche nel caso di aiuto fornito al colpevole di un delitto a sottrarsi a investigazioni che non siano ancora in atto (Cass. Pen. Sez. VI, 30 ottobre 2008 n. 43774; Cass. Pen. Sez.VI, 8 marzo 2007 n. 28639).
4. Soggetto attivo.
Il delitto di favoreggiamento personale è un reato comune, non essendo richiesta una specifica qualifica per la commissione del delitto. Questo può, infatti, essere commesso da chiunque ad eccezione del concorrente nel reato e dall’autore medesimo. Quanto alla prima delle menzionate eccezioni, è lo stesso art. 378 c.p. ad escludere l’operatività della norma nel caso di concorso nel delitto presupposto(MANZINI (7), 845; PISA (3), 160). Si è posto tuttavia un problema interpretativo, ossia se il requisito del mancato concorso nel delitto precedente debba intendersi in senso astratto o concreto. Può, infatti, accadere che la condotta di concorso sia sostenuta dalla pubblica accusa nel capo di imputazione e per converso negata dal Giudice nella sentenza conclusiva del giudizio e viceversa. Come è noto la contestazione del reato, così come formulata nel capo di imputazione, assume un fondamentale ruolo nella concretizzazione del diritto di difesa di cui all’articolo 24 della Carta Costituzionale. Con l’imputazione, infatti, si permette all’imputato di conoscere l’accusa e di svolgere in maniera conseguenziale le proprie difese. Per tali ragioni, parte della giurisprudenza ha ritenuto necessario far riferimento alla qualifica di concorrente così come individuata dall’accusa, ascrivendo conseguentemente la condotta successiva nella sfera di operatività della comune difesa (Cass. Pen., Sez. III, Barni. PATALANO (12), 90; LA MARCA-SANLORENZO (13), 520). La giurisprudenza più recente ha tuttavia ribadito che il requisito del mancato concorso nel delitto precedente va considerato con riferimento all’esito del processo, non rilevando l’accusa rivolta all’agente quanto piuttosto la definizione giuridica della sua posizione. Costituendo, infatti, un elemento della fattispecie, il reato presupposto – e dunque la mancanza di concorso nel medesimo – deve essere provato (Corte d’Assise di Roma del 13/09/1999, caso Marta Russo; Cass. Pen., 12 dicembre 1978; Cass. Pen., 19 gennaio 1973; Cass. Pen., 21 aprile 1988. Ritiene in dottrina che tale requisito vada valutato in concreto PISA (3), 163). Insuperate, peraltro, rimangono le obiezioni di quanti ribadiscono che una simile interpretatio abrogans dell’articolo 378 c.p., elidendo la fondamentale funzione di difesa che svolge l’imputazione, finirebbe poi col determinare l’inapplicabilità dell’esimente di cui all’articolo 384 c.p., il quale dispone la non punibilità di colui che ha commesso il fatto di favoreggiamento per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore (per ulteriori approfondimenti, si rinvia al commento sub art. 384 c.p.).
Quanto alla seconda eccezione, affinché possa sussistere il reato di favoreggiamento personale occorre che l’aiuto sia rivolto nei confronti di “taluno”, cioè nei confronti di persona diversa dal soggetto che appresta la condotta favoreggiatrice. L’aiuto di se stessi – cd. autofavoreggiamento – infatti non pone alcun problema di rilevanza penale stante l’operatività indiscussa del principio nemo tenetur se detegere , l’inesigibilità di una condotta collaborativa da parte dell’accusato ed ancor prima l’assenza di tipicità (Cass. Pen., 22 febbraio 1982: “secondo il principio nemo tenetur se detegere non è punibile l’auto-favoreggiamento personale cioè la condotta di colui che – dopo aver commesso un reato – cerca l’impunità”. Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 1971; Cass. Pen., Sez. VI, 3 marzo, 1993, n. 2007; in dottrina PAGLIARO (1), 40, il quale chiarisce come il termine “aiutare” indichi una condotta diretta a realizzare interessi altrui prima che interessi propri). La questione assume, invece, rilevanza allorché la condotta auto-favoreggiatrice determini esiti favorevoli anche nei confronti di chi ha commesso un precedente reato. La giurisprudenza ha risolto la questione sulla base del criterio della direzione della condotta di aiuto, escludendo l’auto-favoreggiamento quando l’imputato abbia agito al fine esclusivo di favorire il terzo responsabile del reato (Cass. Pen. Sez. VI, 17 gennaio 1997 n. 262). Accanto a tale forma di favoreggiamento si rinviene un’ulteriore forma denominata “auto-favoreggiamento mediato” che si verifica nel caso in cui il favoreggiamento del terzo costituisce il mezzo esclusivo e l’effetto automatico e riflesso del favoreggiamento di se stesso (Cass. Pen. 14 dicembre 1992, n. 2007). In questo caso la punibilità è esclusa in quanto la condotta è soggettivamente polarizzata verso l’aiuto di sé, indipendentemente dal miglioramento abusivo di una posizione processuale altrui. Ulteriore ed ultima forma di favoreggiamento non punibile è il cd. favoreggiamento reciproco, che si ha quanto l’attività di favoreggiamento sia posta in essere da due soggetti che siano, vicendevolmente, offesi dal reato commesso dall’altro ed autori del reato subito dall’altro. In tale ipotesi entrambi i soggetti, nell’aiutarsi reciprocamente ad eludere le investigazioni dell’autorità, tendono alla propria impunità (Cass. Pen. Sez. III, 22 febbraio 1982 n. 9336; in dottrina CARINGELLA, DE PALMA, FARINI, TRINCI (14), 356). In conclusione, non sono punibili l’auto-favoreggiamento personale, l’auto-favoreggiamento mediato ed il favoreggiamento reciproco in quanto rappresentano forme di condotta ausiliatrici che si muovono obiettivamente e/o soggettivamente in un contesto di estrinsecazione del diritto di difesa.
Tali esiti interpretativi sono peraltro avallati da specifica norma di legge, l’art. 384, 1 co., c.p. È pertanto lo stesso legislatore ad aver escluso dall’ambito di operatività dell’art. 378 c.p. quelle condotte che sono emanazione della necessità di salvare se medesimo da una possibile condanna, la quale rappresenta senz’altro un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore.
5. Presupposti.
5.1. Preesistenza di un reato e mancato coinvolgimento nel reato presupposto. La questione ancora aperta del reato permanente: l’emblematico esempio della detenzione illecita di sostanze stupefacenti.
In forza dell’espressa clausola “fuori dei casi di concorso” contenuta nell’art. 378 c.p., il delitto di favoreggiamento personale presuppone che il soggetto attivo non sia stato coinvolto, né oggettivamente né soggettivamente, nella realizzazione del reato presupposto (Cass. Pen. Sez. VI, 18 febbraio 2008 n. 21439).
Il rapporto di necessaria alternatività tra concorso di persone nel reato e favoreggiamento ha indotto gli interpreti ad elaborare criteri discretivi al fine di circoscrivere i confini tra le due figure. Tendenzialmente è stata operata una formale distinzione tra tutto ciò che accade prima della consumazione del reato presupposto, addebitabile a titolo di concorso, e tutto quello che succede dopo, addebitabile a titolo di favoreggiamento (od altra fattispecie incriminatrice sussidiaria).
Più precisamente, il concorso si ha quando l’atto posto in essere dal soggetto è destinato ad inserirsi nella realizzazione complessiva della condotta illecita. Si ha, invece, favoreggiamento quando l’aiuto è prestato a seguito della completa attuazione della fattispecie criminosa. A ben vedere, pertanto, quello che abbiamo denominato criterio cronologico potrebbe altrettanto correttamente definirsi criterio eziologico. Ciò che è importante, infatti, non è se l’aiuto sia stato prestato durante o dopo la commissione del precedente reato, quanto capire come questo aiuto si collochi nell’elaborazione del piano criminoso o nella sua attuazione (GIOVAGNOLI (15), 261).
Seri problemi interpretativi si presentano, però, quando il reato base è permanente. Sul tema si registrano da sempre opinioni contrastanti. Secondo l’opinione tradizionale, l’aiuto prestato durante la permanenza del reato principale integrerebbe sempre un’ipotesi di concorso criminoso (MANZINI (7), 977; PAGLIARO (1), 36; PANNAIN (16), 15. In giurisprudenza, Cass. Pen. Sez. VI, 6 febbraio 2004, n. 4927, Domenighini; Cass. Pen. Sez. I, 12 ottobre 1995, Passaro; Cass. Pen. Sez I, 27 settembre 1995, Foglia). Il principale argomento in base al quale parte della dottrina e della giurisprudenza ha negato di poter ipotizzare il favoreggiamento di un reato permanente è letterale, presupponendo la lettera della legge l’avvenuta commissione di un reato ed il mancato concorso nello stesso. Fino alla cessazione della permanenza mancherebbero entrambi tali presupposti, con la conseguenza che qualsiasi condotta favoreggiatrice finirebbe per dover essere inquadrata nell’ambito concorsuale. Emblematica è l’ipotesi di detenzione illecita di sostanze stupefacenti: la giurisprudenza ha precisato che il reato di favoreggiamento non è configurabile con riferimento a tale delitto, in costanza di detenzione, atteso che nei reati permanenti qualunque agevolazione del colpevole prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve inevitabilmente in un concorso quanto meno di carattere morale (Cass. Pen., Sez. IV, 8 marzo 2006 n. 12915).
Tuttavia, non sempre è possibile tale immediata soluzione e talvolta il criterio cronologico può, da solo, non bastare. In tal caso la giurisprudenza ha mostrato di ripiegare direttamente su considerazioni di carattere soggettivo, vagliando se nel caso concreto sia ravvisabile un’adesione interiore all’evento plurisoggettivo o, piuttosto, una certa neutralità. Il discrimine tra la condotta che costituisca concorso nel reato e la condotta che invece dia luogo al reato di favoreggiamento personale è stato, pertanto, rintracciato nell’elemento psicologico dell’agente, da valutarsi in concreto, per verificare se l’aiuto consapevolmente prestato ad altro soggetto, che ponga in essere la condotta criminosa costitutiva del reato permanente, sia l’espressione di una partecipazione al reato oppure nasca dall’intenzione di realizzare una facilitazione alla cessazione del reato (Cass. Pen. Sez. IV, 29 marzo 2007, n. 12793). Portando di nuovo l’emblematico esempio dell’illecita detenzione di stupefacenti, non si può non segnalare l’ulteriore interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità: la condotta consistita nel subitaneo tentativo di disfarsi della droga, all’atto dell’irruzione in un’abitazione delle forze dell’ordine, non è di per sé dimostrativa, in assenza di altri indici significativi, di un previo accordo con la persona convivente nella detenzione dello stupefacente, ben potendo la stessa condotta essere interpretata come l’atteggiamento di chi, spontaneamente o su sollecitazione del detentore, si risolva ad aiutarlo a sottrarsi alla sua responsabilità penale (Cass. Pen. Sez. VI, 10 febbraio 2010 n. 20796; Cass. Pen., Sez. IV, 8 marzo 2006 n. 12915, Cass. Pen., Sez. VI, 6 giugno 1995 n. 9079). Ancora, in tema d’illecita detenzione di stupefacenti, l’aiuto prestato nel corso dell’azione criminosa rientra nella fattispecie del concorso di persone nel reato – e non nel favoreggiamento personale – quando vi sia la consapevolezza di contribuire anche in minima parte alla realizzazione di una condotta più articolata (Cass. Pen. Sez. VI, 4 febbraio 2008 n. 22394).
Altro orientamento, invece, valorizzando la tipicità descrittiva della fattispecie e dunque la rilevanza attribuita al momento della “commissione” del reato presupposto, piuttosto che alla sua “consumazione”, propende per la configurabilità del favoreggiamento pur in costanza della permanenza del reato. In altri termini, se i delitti di favoreggiamento, limitandosi unicamente a chiedere l’avvenuta lesione del bene interesse protetto, prescindono dalla “consumazione” del reato presupposto, nulla impedisce la loro configurabilità anche con riferimento a condotte criminose permanenti (ZANOTTI (5), 86; DELLA SALA (17), 1152; ROMANO (18), 174; PISA (3), 163; in giurisprudenza Cass. Pen. Sez. VI, 21 settembre 2000, Bassi; Cass. Pen. Sez. VI, 9 aprile 1998, Lippi; Cass. Pen. Sez. VI, 1 ottobre 1997, Gaggia). Sempre in tema di detenzione illecita di sostanza stupefacente, un primo approccio a tale interpretazione si rinviene in una pronuncia del 1995, in cui si tenta di incentrare la distinzione tra favoreggiamento e concorso nel reato su di una base oggettiva, valorizzando il dato descrittivo della fattispecie. Si distingue, in sintesi, tra consumazione iniziale e sostanziale, ammettendosi la configurabilità del favoreggiamento in costanza della altrui condotta detentiva di sostanza stupefacente (Cass. Pen., Sez. VI, 6 giugno 1995, Monteleone).
Per concludere, ancora oggi la questione relativa al rapporto tra permanenza e favoreggiamento appare ancora aperta, non intravedendosi approdi unitari a possibili sviluppi argomentativi di opinioni tanto diverse e divise tra quanti negano a priori la configurabilità del favoreggiamento nella permanenza della fattispecie base sul fondamento del criterio ezio/cronologico; quanti ne ammettono la configurabilità, esitando in distinzioni soggettivistiche; quanti ammettono il favoreggiamento in costanza di reato base, tentando di fondare tale risultato su basi oggettive e modali.
5.2. Il “fatto” di reato presupposto.
Proseguendo l’analisi sui presupposti del favoreggiamento, occorre sottolineare che l’ultimo comma dell’articolo 378 c.p., – “le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto” – induce ad individuare più precisamente il presupposto del favoreggiamento nel “fatto di reato”, ovvero negli elementi oggettivi e soggettivi di cui si compone la fattispecie, a prescindere dall’attribuzione del reato stesso ad un soggetto determinato. Come già accennato, poi, costituendo un elemento della fattispecie, il fatto di reato presupposto dovrà essere provato e la sua sussistenza dovrà essere apprezzata con riferimento al momento della “commissione” del fatto. Perplessità sono sorte per quelle ipotesi che richiedono il verificarsi di condizioni obiettive di punibilità con riferimento al reato presupposto. Più precisamente è sorto il dubbio se costituisca favoreggiamento l’aiuto prestato dopo la realizzazione della condotta tipica, ma prima dell’avverarsi della condizione. La miglior dottrina ha risolto la questione attribuendo rilevo, appunto, al momento della commissione del fatto escludendo che il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità possa essere ricondotto al concetto di “commissione” (GIOVAGNOLI (15), 261). Tale limite temporale si identifica, secondo la dottrina tradizionale, con il momento della cessazione del tentativo o della cessazione della permanenza, configurandosi altrimenti concorso nel reato o azione indipendente (MANZINI (7), 985). Tuttavia, secondo la dottrina più recente e la giurisprudenza, la condotta di favoreggiamento è configurabile dal momento in cui il reato presupposto ha raggiunto una soglia minima di rilevanza penale, coincidente con l’inizio del tentativo o con l’inizio della permanenza. Ne consegue che tra tale momento e la consumazione del reato principale è astrattamente configurabile sia il favoreggiamento che il concorso nel reato (PULITANÒ (2), 10; ZANOTTI (5), 86).
È sempre con riferimento al momento della commissione, questa volta del reato di favoreggiamento, che dovrà essere valutata la sussistenza del reato presupposto. Ciò significa che alcun rilievo potrà essere attribuito alle successive modifiche normative incidenti sul reato presupposto. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto la permanente configurabilità del favoreggiamento personale a carico di un soggetto il quale aveva falsamente dichiarato all’autorità inquirente di essere stato alla guida di un autoveicolo, allo scopo di scagionare dall’addebito di guida senza patente, all’epoca costituente reato, chi aveva invece condotto il medesimo veicolo (Cass. Pen. Sez. VI, 5 giugno 2002 n. 38809).
Alcun rilievo ha, inoltre, la circostanza che, dopo la commissione del favoreggiamento, l’evento del reato presupposto muti in uno più grave, sempre però che tale mutamento non sia dovuto all’azione dello stesso favoreggiatore, nel qual caso di avrebbe compartecipazione (Cass. Pen. 27 febbraio 1980, La Rosa)
Altra questione che ha impegnato gli interpreti è se sia configurabile il favoreggiamento qualora per il reato presupposto non si sia verificata una condizione di procedibilità. L’opinione preferibile è quella positiva, non potendo la mancanza della condizione obiettiva di punibilità far venir meno il fatto di reato presupposto (Cass. Pen. Sez. VI, 24 febbraio 1989 – 7 ottobre 1989 n. 13220; Cass. Pen. 12 dicembre 1978, Pepe). Si registra, tuttavia, un’opinione negativa che ravvede in tali casi un difetto di lesività della condotta verso l’amministrazione della giustizia (GIOVAGNOLI (15), 261).
Rispetto alle cause estintive del reato presupposto, occorre invece distinguere a seconda che l’aiuto sia prestato anteriormente o successivamente al verificarsi della causa di estinzione. Nel primo caso si configura il favoreggiamento, in quanto l’articolo 170 c.p. dispone che “quando un reato è presupposto di un altro, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato”. Lo stesso non può dirsi quando il reato è già estinto al momento della prestazione dell’ausilio, poiché in questo caso il reato presupposto, dal punto di vista giuridico, è tamquam non esset.
Ancora, si ritiene escluso il favoreggiamento laddove in riferimento al reato presupposto esista una scriminante (ad esempio, il fatto di reato presupposto è stato commesso per legittima difesa).
6. Il concetto di aiuto e reato a forma libera: configurabilità del favoreggiamento mediante omissione.
A lungo controversa è stata la questione relativa alla configurabilità del favoreggiamento personale mediante condotta omissiva. E’ il caso ad esempio di chi, sentito dalla polizia giudiziaria, renda dichiarazioni reticenti per non coinvolgere terze persone.
Un primo orientamento ha ritenuto di dover escludere, in tali casi, l’applicabilità dell’art. 378 c.p. in considerazione – secondo alcuni – del tenore letterale della norma che richiederebbe una condotta positiva, ovvero dell’impossibilità – secondo altri – di richiamare in tal caso l’art. 40, 2 co. c.p., mancando nel reato di favoreggiamento un evento naturalistico e, ancor prima, l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Non esiste, per i fautori di questa tesi, alcuna fonte o situazione giuridica che a priori imponga a chiunque un dovere di collaborare con gli organi investigativi ai fini dell’accertamento dei reati e dell’individuazione dei responsabili (PAGLIARO (1), 4; FIANDACA-MUSCO (6), 396; MANZINI (7), 992).
Una tesi, potremmo dire intermedia, ha ammesso invece la possibilità di un favoreggiamento omissivo a condizione, tuttavia, che la condotta omissiva costituisca violazione di un obbligo giuridico (ANTOLISEI (19), 478) o realizzi “la mancanza di un’attività attesa e pretesa dall’ordinamento giuridico” (PANNAIN (20), 153). Per tale orientamento, il favoreggiamento sarebbe, perciò, realizzabile mediante omissione – non in via generale, bensì – nei soli casi in cui un soggetto, intraneo alle istituzioni della giustizia penale, rivesta una posizione di garanzia nei confronti del bene tutelato. Anche la giurisprudenza ha mostrato, talvolta, di seguire questa impostazione quando ha ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 378 c.p. il carabiniere che, omettendo di riferire immediatamente ai suoi diretti superiori o all’autorità giudiziaria, il luogo di rifugio del ricercato, ha intralciato l’operato degli inquirenti, determinando così il ritardo nella cattura dell’indagato (Cass. Pen. Sez. VI, 16 marzo 2010 n. 11473).
Per altri autori, in particolare coloro che ritengono il favoreggiamento personale un reato di evento, tale fattispecie sarebbe perfettamente compatibile con la traduzione in forma omissiva del delitto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 40 cpv e 378 c.p. (PULITANÒ (2), 110).
Altra dottrina è giunta, invece, a ritenere configurabile il favoreggiamento mediante omissione individuando nel delitto ex articolo 378 c.p. un modello di reato omissivo proprio. Essendo reato a forma libera, per la sua configurabilità è indifferente il mezzo con il quale l’aiuto è prestato (APICE (21), 278).
La giurisprudenza, dal canto suo, ha costantemente ammesso la configurabilità del favoreggiamento mediante condotta omissiva, quale ad esempio la reticenza (tra le altre, Cass. Pen., Sez. VI, 14 giugno 1993, Darmanin; Cass. Pen. Sez. VI, 8 giugno-21 novembre 1990, Savo; Cass. Pen. Sez. VI, 20 marzo 1990, Catalano; Sez. VI, 16 marzo 2010, D’Alisa). La tesi trae argomento dalla formulazione generica dell’articolo 378 c.p., il quale richiede – quale elemento necessario e sufficiente – che l’agente “aiuti” taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità. Sicché la genericità della locuzione “aiuta” consente di concepire la condotta illecita nelle sue più svariate manifestazioni, purché idonee a favorire l’elusione delle investigazioni. È irrilevante, pertanto, che la condotta del favoreggiatore si sia espressa con il silenzio.
In questo modo, la casistica delle condotte di favoreggiamento ne risulta notevolmente ampliata, comprendendo al suo interno tutta una serie di comportamenti puramente ostruzionistici, caratterizzati non da un’attivazione del reo per impedire od intralciare le indagini, quanto piuttosto dall’attuata intenzione di non collaborare con le autorità inquirenti.
Tale impostazione è stata, peraltro, avallata dalle Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sulla configurabilità di una responsabilità dell’acquirente di modica quantità di sostanza stupefacente per omessa rivelazione dell’identità dello spacciatore (Cass. Sez. Un. 5 giugno 2007 n. 21832). Richiamando il suddetto consolidato orientamento pretorio, la Sezioni Unite hanno ritenuto che il reato di cui all’articolo 378 c.p., quale reato a forma libera, ben può essere realizzato con ogni condotta, anche omissiva come il silenzio, la reticenza, il rifiuto di fornire le notizie richieste dalla polizia giudiziaria, che consapevolmente si traduca in un aiuto al terzo per sottrarsi agli accertamenti degli inquirenti.
Non è mancato tuttavia chi, da questa apertura giurisprudenziale, ha paventato un rischio di “collisione” tra l’area di punibilità dell’articolo 378 c.p. e quella dell’articolo 371-bis c.p. (false informazioni al pubblico ministero). Rischio, peraltro, scongiurato dal carattere di specialità del delitto di cui all’articolo 371-bis c.p. rispetto al favoreggiamento.
Peraltro, la citata sentenza delle S.U. si segnala anche per la soluzione di ulteriori quesiti che si situano “a monte e a valle” (GAROFOLI (22), 419) rispetto alla questione relativa alla contestabilità del favoreggiamento personale mediante omissione. In particolare, i supremi giudici si interrogano sulla possibilità in capo all’acquirente di sostanze stupefacenti, che non rivela alla polizia giudiziaria l’identità dello spacciatore, di esercitare in tal modo un esercizio del diritto di non rispondere (essendo sentito nella qualità di indagato piuttosto che di persona informata sui fatti) ovvero di fruire della causa di non punibilità di cui all’articolo 384 c.p. ove ricorra la necessità di salvarsi da grave ed inevitabile nocumento alla libertà ed all’onore. Per tali questioni si rinvia al commento dell’articolo citato.
7. Elemento soggettivo.
Per la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di favoreggiamento personale è sufficiente il dolo generico, che deve consistere nella consapevolezza dell’agente di fuorviare, con la propria condotta, le ricerche poste in essere dall’autorità nei confronti della persona ricercata, nella ragionevole consapevolezza dell’apprezzabilità del suo contributo di aiuto, conoscendo il reato presupposto ed al di fuori dei casi di concorso in esso (Cass. Pen. Sez. VI, 5 aprile 2007 n. 38516). Pur atteggiandosi come generico, il dolo va pertanto rigorosamente provato in tutti questi suoi elementi e può essere desunto dalle stesse modalità dell’ausilio, dai rapporti intercorrenti tra ausiliatore e ausiliato e dalla stessa personalità delinquenziale dei soggetti (Uff. Indagini preliminari Napoli, 13 aprile 2007). Di conseguenza, dovrà escludersi la configurabilità del favoreggiamento ogniqualvolta l’aiuto prestato, pur se tale da frustrare in concreto l’attività di investigazione o di ricerca dell’autorità, non risulti essere stato soggettivamente diretto a tale scopo. Del tutto irrilevanti sono, invece, le finalità ulteriori o i motivi particolari della condotta (Trib. Milano, Sez. XI, 12 aprile 2007) o la circostanza che l’autore sia convinto dell’innocenza del soggetto favoreggiato (Cass. Pen. Sez. VI, 5 aprile 2007 n. 38516).
8. Circostanze.
L’articolo 378 contempla al secondo ed al terzo comma due ipotesi circostanziate. Il secondo comma c.p. prevede, quale circostanza aggravante, l’essere il reato presupposto l’associazione di tipo mafioso di cui all’articolo 416-bis c.p.; il terzo comma considera, quale forma circostanziata attenuta, l’essere il reato presupposto delitto punito con pena diversa dall’ergastolo o dalla reclusione ovvero contravvenzione. I commi in esame non integrano, pertanto, figure autonome di reato rispetto a quella di cui al primo comma, poiché gli elementi costitutivi essenziali delle diverse ipotesi criminose sono identici: condotta, evento ed elemento soggettivo (Cass. Pen., 4 giugno 1996, Vinci).
La circostanza aggravante di cui sopra ha natura oggettiva, poiché attiene alla maggiore entità del danno subito dall’amministrazione della giustizia per effetto della lesione dell’interesse alla repressione del reato di cui all’articolo 416-bis, considerato di particolare gravità (Cass. Pen. Sez. II, 13 giugno 2007 – 21 settembre 2007 n. 35266). Essa si distingue dall’aggravante speciale di cui all’articolo 7, co. 1 del d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in l.n. 12 luglio 1991 n. 203, di natura soggettiva, secondo la quale per i delitti con pena diversa dall’ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazione di stampo mafioso, la pena è aumentata da un terzo alla metà.
Peraltro, le due circostanze aggravanti sono pienamente compatibili tra loro, obbedendo a finalità diverse: quella di cui all’articolo 378 co. secondo c.p. è relativa al favoreggiamento funzionale al delitto di associazione di stampo mafioso, nel senso che si deve favorire chi faccia od abbia fatto parte dell’associazione criminosa, non occorrendo la prova che l’attività di favoreggiamento sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio; mentre l’altra circostanza concerne l’azione favoreggiatrice diretta, in maniera oggettiva, ad agevolare l’attività posta in essere dal sodalizio criminoso.
Pertanto, esse possono coesistere quando il favoreggiamento si riferisca non solo alla persona facente parte dell’associazione di stampo mafioso ma sia diretto anche ad agevolare l’intera associazione.
Parte della giurisprudenza ha, peraltro, specificato che allorché la condotta favoreggiatrice sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafioso, essa ha per ciò solo una diretta influenza sull’esistenza dell’organismo criminale, ragione per cui l’aggravante speciale di cui all’articolo 7 cit. è configurabile (Cas. Pen. Sez. V, 24 settembre 2007 n. 238181; Cas. Pen. Sez. V, 6 ottobre 2004, Monteriso; Cas. Pen. Sez. I, 25 giugno 1996, Piazzese). Ancora, la condotta posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafioso integra la circostanza aggravante di avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso (art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in L. 12 luglio1991 n. 203), qualora l’aiuto fornito al capo si concretizzi nell’agevolazione per dirigere da latitante l’associazione, traducendosi così in un aiuto all’associazione la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto; mentre, sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l’intenzione dell’agente di favorire anche l’associazione allorché risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capomafia (Cass. Pen. Sez. V, 30 novembre 2010 n. 6199) .
Il principio, tuttavia, non è pacifico in giurisprudenza. Altra impostazione, seguita anche dalla giurisprudenza di merito, non ritiene sussistere l’aggravante di cui all’art. art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152 ove non sussista una specifica prova che il favoreggiamento personale sia stato prestato in favore dell’associazione mafiosa, e non del singolo individuo, anche al vertice dell’associazione stessa (Tribunale Catanzaro Sez. II, 5 agosto 2008). Ancora, si è ritenuto che il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un’associazione mafiosa non determina la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in L. 12 luglio 1991 n. 203 in ragione esclusivamente dell’importanza di questi all’interno dell’associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, dovendosi distinguere l’aiuto prestato alla persona da quello prestato all’associazione e potendosi ravvisare l’aggravante speciale soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’organizzazione criminale (Cass. Pen. Sez. VI 10 dicembre 2007 n. 6571. Nel senso della possibilità di ravvisare l’aggravante soltanto quando si accerti l’oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’intera organizzazione criminale e non solo di un singolo appartenente, anche Cass. Pen. Sez. VI, 27 ottobre 2005, Turco; Cass. Pen. Sez. VI, 15 ottobre 2003, Mesi; Cass. Pen. Sez. VI, 9 giugno 1997, Arcuni ).
9. Rapporti con altri reati.
Il delitto di favoreggiamento si distingue dal delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, in quanto nel primo caso il soggetto aiuta in maniera episodica e fuori dai casi di concorso un associato (autore di reati rientranti o meno nell’attività prevista dal vincolo) ad eludere le investigazioni od a sottrarsi alle ricerche dell’autorità; mentre nel secondo caso il soggetto, quale elemento della struttura organizzativa, interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati anche al fine di fuorviare le indagini di polizia (Cass. Pen. Sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 40966). La giurisprudenza ha, peraltro, precisato che le fattispecie di partecipazione ad associazione mafiosa e di favoreggiamento aggravato, essendo ontologicamente inconciliabili sia per espressa riserva di legge che per coincidenza di attività, non possono concorrere se non nell’ipotesi in cui l’associato aiuti ad eludere le ricerche un altro associato resosi autore di reati non rientranti nell’attività prevista dal sodalizio (Cass. Pen. Sez. VI, 8 ottobre 2008 n. 40966).
Ancora in tema di associazione di stampo mafioso, affinché risulti integrato il concorso esterno (artt. 110 c.p. e 416-bis) piuttosto che il meno grave delitto di favoreggiamento, è necessario – per giurisprudenza costante – che il soggetto, pur non essendo stabilmente inserito nella struttura organizzativa dell’associazione, operi sistematicamente con gli associati fornendo in tal modo uno specifico e concreto contributo ai fini della conservazione e del rafforzamento dell’associazione. I Giudici di legittimità hanno così ritenuto configurabile il delitto concorso esterno, piuttosto che il meno grave delitto di favoreggiamento, nella condotta di soggetti che avevano curato la trasmissione di c.d. pizzini tra uno dei capi dell’associazione mafiosa, latitante da lungo tempo, ed un rappresentante di spicco della stessa, detenuto, garantendo agli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” di mantenere la gestione dell’associazione anche in tali situazioni di difficoltà (Cass. Pen. Sez. I, 22 novembre 2006, Alfano; Cass. Pen. Sez. VI, 26 novembre 2009 n. 2533).
Altra questione controversa in giurisprudenza riguarda il rapporto intercorrente tra il reato di favoreggiamento personale e quello di assistenza agli associati (art. 418 c.p.). Parte della giurisprudenza ha individuato il criterio discretivo nella finalità e negli effetti della condotta di aiuto, ritenendo integrato il delitto di assistenza agli associati qualora il soggetto fornisca rifugio o vitto agli associati se non sono ancora in corso le ricerche da parte dell’autorità giudiziaria (Cass. Pen. Sez. VI, 3 marzo 2004 n. 17704). Tale orientamento, tuttavia, si pone in contraddizione con altro, espresso dalla stessa sezione della Corte, secondo il quale è configurabile il reato di favoreggiamento personale anche nel caso di aiuto fornito al colpevole di un delitto a sottrarsi a investigazioni che non siano ancora in atto (Cass. Pen., Sez. VI, 30 ottobre 2008 n. 43774; Cass. Pen, Sez. VI, 8 marzo 2007 n. 28639).
Come già accennato riguardo ai rapporti con il reato di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.), la giurisprudenza è concorde nel ritenere tale fattispecie un’ipotesi specifica di reato rispetto al favoreggiamento personale (Cass. Pen. Sez. VI, 17 febbraio 2000). Ancora, il reato di favoreggiamento personale si distingue dal reato di procurata inosservanza di pena (art. 390 c.p.) nel fatto che nel primo caso la persona aiutata può essere solo l’indagato o l’imputato del reato oggetto di accertamento, nel secondo caso l’aiuto è prestato a persona condannata con sentenza irrevocabile ed è finalizzato alla sottrazione all’esecuzione della pena (Cass. Pen. 18 ottobre 1995). Infine, può realizzarsi concorso dei delitti di favoreggiamento personale e falsa testimonianza nel caso in cui le false dichiarazione rese alla polizia giudiziaria per aiutare l’autore di un reato siano ripetute in una testimonianza innanzi all’autorità giudiziaria, trattandosi di fatti che violano diversi beni giuridici (Cass. Pen. 10 maggio 1973 n. 9891).
III. QUESTIONI APERTE.
1. Favoreggiamento ed attività difensiva.
I rapporti tra favoreggiamento personale ed esercizio della funzione difensiva rappresentano la più tenace delle questioni aperte, nate dalla complessa interpretazione di una norma dalla formulazione irrimediabilmente ambigua ed in costante tensione verso un’emancipazione definitiva dalle categorie del concorso criminoso. L’evidente indeterminatezza della condotta criminosa, suscettibile di estrinsecarsi nelle più svariate manifestazioni, si ripercuote anche sulla risoluzione del delicato problema relativo alla configurabilità del delitto di favoreggiamento personale in capo al difensore. È indubbio, infatti, che anche il difensore può rendersi soggetto attivo del reato in esame in quanto, trattandosi di un reato comune, chiunque può esserne l’autore, dovendosi escludere limitazioni di carattere soggettivo. Come noto, poi, l’attività difensiva tende per natura a realizzare la condotta tipica del reato di favoreggiamento, ossia “aiutare” il soggetto indagato. Aiuto che si traduce specificamente nell’esercizio del diritto di difesa, nel quale si devono certamente ricomprendere anche tutte quelle attività volte alla ricerca di strumenti ed espedienti utili ad evitare la condanna dell’assistito. L’attività difensiva, pertanto, per propria indole si espone a particolari incertezze: se da un lato il patrocinante è tenuto a difendere adeguatamente gli interessi della parte assistita, dall’altro esso è certamente obbligato all’osservanza della legge. Al riguardo, occorre necessariamente partire da una norma del Codice Deontologico, l’articolo 36, la quale impone al difensore di difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile, nei limiti del mandato e nella osservanza della legge e dei principi deontologici. Si è autorevolmente sostenuto, peraltro, che il difensore abbia l’obbligo di contribuire ad una sentenza giusta (Cass. Pen. Sez. I, 11 novembre 1980). Tuttavia, non vi sono richiami nel Codice Deontologico al dovere di concorrere ad una sentenza giusta, se non nei limiti del rispetto delle norme citate, che semmai devono tendere ad un processo giusto (CORSO (23), 1594). La problematica ha, negli ultimi anni, tenuto banco sia in dottrina che in giurisprudenza, in considerazione dei contrapposti interessi di rango costituzionale che essa involge: da un lato l’interesse dello Stato alla repressione dei reati e ad una corretta amministrazione della giustizia; dall’altro quello dell’indagato a difendersi e ad avvalersi di una difesa tecnica in grado di tutelare i propri interessi mediante qualunque mezzo idoneo ad ottenere il provvedimento giurisdizionale più favorevole. La Suprema Corte ha avuto modo di sottolineare il rilievo che deve sicuramente riconoscersi al diritto di difesa, precisando che tale diritto “anche in relazione al profilo specifico concernente il suo esercizio da parte del patrocinante, è tra quelli al quale l’ordinamento giuridico riconosce il più alto ambito di espansione onde consentire la effettiva attuazione del principio affermato nell’art. 24 co. 2 Cost.” (Cass. Pen. Sez. VI, 27 maggio 1986). L’ordinamento, dunque, riconosce all’avvocato il diritto-dovere di difendere il proprio assistito nel miglior modo possibile, adoperandosi a tal fine con ogni mezzo. La questione consiste, allora, nello stabilire il confine tra il diritto ed il delitto del difensore. Ci si deve cioè chiedere se il difensore incontri limiti nella propria attività, quali essi siano e fin dove tale attività possa spingersi senza oltrepassare i confini della liceità penale. Occorrerà, cioè, valutare il comportamento del difensore in termini di tipicità. In particolare lo sforzo maggiore dovrà essere indirizzato ad una esatta perimetrazione del significato di attività defensionale in senso tecnico. È di immediata evidenza, infatti, che potrà porsi il problema della configurabilità del reato di favoreggiamento in capo al difensore solo nel caso di attività strettamente riconducibile a quella defensionale in senso tecnico, stante la piena ipotizzabilità del delitto a suo carico qualora ponga in essere una condotta non connotata da quel tasso di tecnicismo proprio della funzione difensiva. In proposito non vi è dubbio che debbano ritenersi punibili a titolo di favoreggiamento personale quelle condotte materiali che qualunque soggetto potrebbe realizzare e che si pongono totalmente al di fuori dell’attività tipica di assistenza legale avente ad oggetto prestazioni di carattere professionale, come ad esempio l’eliminazione di prove o la creazione di prove false, il nascondimento del ricercato, il fornire denaro o procurare documenti falsi per la fuga (Cass. Pen. Sez. VI, 21 marzo 2000). Si tratta evidentemente di attività che esulano del tutto dall’esercizio del mandato difensivo poiché suscettibili di essere realizzate da qualsiasi altro favoreggiatore. La questione riguarda, dunque, tutte quelle prestazioni tipiche dell’assistenza difensiva che si traducono in consigli, suggerimenti, comunicazioni, informazioni sicuramente idonee a prestare ausilio all’imputato. Il problema si pone in relazione a casi in cui il difensore abbia fornito al proprio assistito informazioni e notizie riservate circa lo sviluppo delle indagini e delle ricerche, consentendogli così di attivarsi al fine di eludere le investigazioni e sottrarsi alla eventuale cattura. L’ipotesi tipica è proprio quella in cui il legale riveli all’indagato la notizia della probabile emissione di una ordinanza di custodia cautelare oppure della disposizione a suo carico di una intercettazione telefonica. È in relazione a comportamenti di questo genere, invero, che con maggiore complessità si pone la questione se il patrocinatore propalante debba ritenersi punibile a titolo di favoreggiamento oppure non punibile in quanto, rientrando la sua condotta nel normale svolgimento del mandato difensivo, la stessa non realizza il fatto tipico o, pur realizzandolo, deve comunque ritenersi non antigiuridica in quanto scriminata in virtù dell’esimente dell’esercizio del diritto di difesa. Sotto tale ultimo profilo, da una parte della dottrina viene invocata l’efficacia scriminante del diritto di difesa tecnica proprio al fine di porre un limite in qualche modo alla sfera di operatività dell’art. 378 c.p. che, in considerazione dei particolari caratteri di indeterminatezza e genericità, è tale da rendere incriminabili molte condotte del difensore ritenute estrinsecazione della funzione difensiva (LANZI (24), 73). Di contro, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria hanno da tempo escluso la possibilità di ritenere scriminato il favoreggiamento del difensore ai sensi dell’art. 51 c.p. per diversi motivi. In primo luogo, delle due l’una: o il difensore agisce nei limiti di un contratto lecito di mandato difensivo, ed allora non potrà che porre in essere comportamenti leciti, oppure agisce esorbitando da tali limiti e realizzando così condotte penalmente rilevanti. In quest’ultimo caso non sarà legittimato ad invocare l’art. 51 in quanto egli avrà operato al di fuori del titolo legittimante e costitutivo del suo diritto/dovere. In secondo luogo, vengono in considerazione i limiti insuperabili che il diritto di difesa incontra in altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. Il diritto di difesa, infatti, deve necessariamente armonizzarsi con il primario interesse dello Stato all’amministrazione della giustizia e alla sua effettiva e corretta attuazione (art. 101 Cost.). Infine, la posizione soggettiva tutelata dall’art. 24 Cost. e posta a base della scriminante, fa capo all’imputato e non al suo difensore (COSTA-DUBOLINO (25), 488). In sintesi, la condotta del difensore che sia esplicazione del mandato difensivo non realizzerebbe – secondo l’opinione maggioritaria – il fatto tipico. Conseguentemente il problema deve essere affrontato cercando di delimitare la portata del mandato difensivo, verificando se condotte quali quelle evidenziate ne costituiscano o meno esplicazione e conseguentemente valutarle in termini di conformità al fatto tipico.
Sul punto, l’impostazione dottrinale più rigorosa è nel senso di ritenere che nei casi sopra indicati il difensore, esorbitando inevitabilmente dai limiti del suo mandato, commetta sempre il delitto di favoreggiamento (MANZINI (7), 909; ANTOLISEI (19), 488). Anche la giurisprudenza in alcune pronunce di legittimità ha avuto modo di esprimersi nello stesso senso, affermando che comunicazioni quali quelle in esame, costituendo ex se attività criminosa, non possono ritenersi in alcun modo espressione della funzione difensiva, posto che anche a norma del codice deontologico forense è comunque inibito all’avvocato fornire al cliente elementi di conoscenza finalizzati alla realizzazione di una condotta illecita (Cass. Pen. Sez. VI, 17 settembre 2003). In altra occasione, la Suprema Corte ha opportunamente evidenziato che “la linea di demarcazione tra regolare e puntuale espletamento dell’attività difensiva, superamento dei limiti legali sotto il profilo della correttezza deontologica e, infine, illecito penalmente rilevante, non può essere fissata in modo rigido, sulla base di parametri assoluti, ma deve essere individuata caso per caso” (Cass. Pen. Sez. VI, 26 luglio 2000). La Corte ha escluso che gravi sul difensore un obbligo tout court di collaborare con l’autorità giudiziaria, riconoscendo che egli è preminentemente portatore degli interessi del proprio assistito e che si deve comunque adoperare per ottenere un provvedimento per lui favorevole indipendentemente dalla giustizia dello stesso, ma sempre nel rispetto della legalità e senza interferire in modo non conforme alla dignità e al decoro della professione nel regolare svolgimento dell’attività giudiziaria. Non può, pertanto, il difensore oltrepassare i limiti del fisiologico esercizio del diritto di difesa per sconfinare in una “solidarietà anomala” con l’imputato, volta a sviare ed eludere le investigazioni, intralciando il regolare svolgimento della funzione giudiziaria. Secondo tale pronuncia, il criterio per stabilire quando la rivelazione oltrepassi i limiti del legittimo esercizio del diritto di difesa per sconfinare in quella “solidarietà anomala” che integra la materialità della previsione criminosa di cui all’art. 378 c.p., si deve individuare nella modalità di acquisizione dell’informazione da parte del difensore. Si deve cioè accertare il modo attraverso il quale quest’ultimo è venuto in possesso delle notizie, poiché solo in caso di lecita acquisizione potrà ritenersi legittima la loro rivelazione, che è anzi doverosa in virtù del particolare rapporto di fiducia (art. 35 c.d.f.) che lega il difensore alla parte. Viceversa, qualora l’apprensione delle notizie fosse caratterizzata da una originaria illegalità, anche la successiva comunicazione dovrebbe ritenersi illecita in quanto non strumentale ad un corretto esercizio del mandato difensivo ma volta esclusivamente al turbamento della funzione giudiziaria. L’intenzionalità che muove il soggetto agente, secondo l’interpretazione della Corte, si renderebbe palese proprio attraverso la maniera lecita o illecita di acquisizione della notizia oggetto della successiva rivelazione. La soluzione si incentra, dunque, sullo specifico apprezzamento del profilo soggettivo della condotta, escludendo la punibilità del reato per difetto dell’elemento psicologico.
Porre, tuttavia, la questione meramente in termini di liceità/illiceità dell’acquisizione della notizia poi comunicata all’indagato/imputato, focalizzando l’attenzione sull’elemento soggettivo, per farne discendere la insussistenza/sussistenza del reato non pare cogliere nel segno, attesa la prevista punibilità della fattispecie a titolo di dolo meramente generico (COSTA-DUBOLINO (25), 488). Più precisamente, dato per certo che la rivelazione conseguente ad apprendimento illecito di notizie non può che dar luogo a responsabilità ai sensi dell’art. 378 c.p., rimane da verificare se e quando l’apprendimento “non illecito” possa configurare una responsabilità a titolo di favoreggiamento. Potrà, allora, ritenersi punibile la rivelazione di una notizia riservata non appresa ufficialmente mediante gli strumenti tipici offerti dall’ordinamento ma acquisita accidentalmente (si pensi ad esempio al caso in cui l’avvocato capti nella Cancelleria/Segreteria del magistrato le disposizioni date ad un impiegato amministrativo in relazione a misure cautelari). Tale attività, pur non essendo illecita, non può comunque ritenersi esplicazione tipica della funzione difensiva ben potendo essere compiuta da qualunque altro soggetto. Viceversa non potrà dirsi integrato il favoreggiamento in tutte le ipotesi in cui il difensore, avvalendosi delle proprie cognizioni tecniche, proceda ad una valutazione di carattere professionale. Tale verifica non potrà che svolgersi attraverso una specifica disamina del caso concreto.
Volendo sintetizzare le opinioni espresse, taluni hanno sostenuto che si possa applicare la scriminante dell’esercizio di un diritto previsto dell’art. 51 del c.p., mentre altri ne hanno negato la necessità. Altri sostengono invece che l’esercizio legittimo del mandato sia un fattore che esclude già a priori la configurabilità della condotta tipica ed in questo senso molti si sono soffermati sulla differenza data dall’acquisizione legittima o meno della notizia da parte del difensore. Infatti, si sostiene che laddove il difensore abbia avuto contezza legittimamente della notizia poi rivelata al proprio assistito – si pensi sempre al caso della comunicazione dell’ordine di esecuzione – non vi possa essere reato, mentre laddove il difensore abbia acquisito la notizia illegittimamente ovvero al di là dei diritti consentiti, allora vi sarà senz’altro il favoreggiamento. Da parte di altri, ancora, si è criticata questa distinzione poiché non capace di ricomprendere tutte le possibili ipotesi, orientandosi piuttosto sull’importanza dell’elemento soggettivo. Diversi sono quindi i suggerimenti per uscire dalla criticità della norma. Tuttavia, la migliore soluzione sembra essere la riformulazione della fattispecie a livello codicistico, soprattutto in considerazione del fatto che un mero riferimento al contenuto del mandato come limite di liceità non appare appagante, dal momento che il problema trae origine proprio dalla definizione dei contenuti del mandato stesso.
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