DOV’E’ FINITA PARTE DEI FONDI?
– ANCONA – di Giampaolo Milzi –
Fotoservizio di Davide Toccaceli
Dopo il devastante terremoto del 1972 moltissimo è stato fatto, e in genere molto bene, in un quarto di secolo per riedificare e restaurare edifici e strutture pubblici e privati, e per realizzare nuove opere urbanistiche nell’area più antica di Ancona, quella dei quartieri Guasco-San Pietro e Capodimonte. Ma molto è rimasto sulla carta progettuale. Così come alcune decine di miliardi di vecchie lire, che si sarebbero potuti-dovuti utilizzare per completare l’impegnativa missione, ma pare che non siano stati spesi, almeno in parte; o forse sono stati spesi per altre necessità, magari sempre urbanistiche, tuttavia stornati per obiettivi non compresi nel Piano di ricostruzione del centro storico del capoluogo marchigiano. Già, i più non lo sanno, alcuni forse l’hanno dimenticato o fingono di averlo dimenticato, ma quel Piano di ricostruzione, voluto apposta dal Governo nazionale per sanare l’emergenza post-sismica della città dorica, nasconde un giallo finanziario-operativo ancora attuale.
Per abbozzare un “replay” di questa intricatissima vicenda ci siamo affidati alla memoria di Eugenio Duca, consigliere comunale prima e poi parlamentare anconetano, e del’architetto Anna Giovannini, ex autorevole membro dell’Ufficio Centro Storico del Comune. Due protagonisti della ricostruzione.
Subito dopo la cessazione dello sciame sismico, nella seconda metà del 1972, a Roma viene emanata una serie di leggi e provvedimenti speciali (la prima dovrebbe essere la n° 734), seguiti da una legge regionale, che destinano una gran quantità di finanziamenti pubblici – circa 180 miliardi di lire – per il Piano di ricostruzione del centro storico di Ancona. Sono attinti dai fondi dell’ente statale Gescal (Gestione case per i lavoratori), fondi accumulati coi versamenti ordinari dei lavoratori dipendenti italiani. Nel 1974 una nuova legge speciale dispone l’affidamento del Piano in convenzione-collaborazione Gescal-Comune di Ancona. Ma passa un anno, e col rischio di complicare le cose, ecco un’altra legge, la n° 7, che sopprime la Gescal. Nel frattempo, in quel bienno, ancora una legge, regionale, che perimetra esattamente la parte de centro storico (quasi tutto) che può beneficiare dei lavori e delega direttamente il Comune a gestirli ed attuarli sulla base dei primi capitoli progettuali già approntati dalla Gescal.
E così tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 parte la maggior parte dei cantieri. Va ricordato che molti di questi sono frutto di un progetto redatto dall’Ufficio comunale Centro storico, dove lavora l’architetto Giovannini, un ottimo progetto, tanto che nel 1981 vince un premio per l’urbanistica del Consiglio Europeo. Tra il 1986 e il 1991 arriva il turno dell’area lungo la rupe che sale da via XXIX Settembre a via Cialdini, con la zona ad uso pubblico e verde attrezzato nell’area più in alto e il sito del grande parcheggio Traiano (opera ricompresa nel progetto del team cui ha partecipato la Giovannini). Il sito del parcheggio resta però incompiuto per quanto riguarda la torre con l’ascensore, il quinto piano votato ad usi socio-culturali e i brevi percorsi che avrebbero dovuto completare il collegamento pedonale Capodimonte – lungomare porto.
Si tratta di un segnale che il complicato meccanismo normativo della ricostruzione sta inceppandosi? Sta di fatto che proprio all’inizio degli anni ’90 quel meccanismo si blocca. Perché? “Il ministero inizia a deviare i fondi per Ancona per programmi urbanistici riguardanti altre città”, sostiene Eugenio Duca. Inoltre è necessario recuperare circa 30 miliardi di lire frutto di un decreto legge del ‘91, un tesoro intoccabile dal Comune, paradossalmente, perché quei soldi sono stati stanziati a favore della gestione Gescal, Gescal che però è soppressa da un pezzo. Inizia allora un annoso braccio di ferro tra Ancona e Roma, che si acuisce a partire dal 6 dicembre 1994.
Quel giorno il Comitato di gestione del centro storico di Ancona (un organismo municipale tecnico-politico composto anche dai rappresentanti dei vari gruppi del Consiglio comunale) tira fuori dal cassetto un corposo e dettagliatissimo dossier al quale ha lavorato a lungo: disegna lo “stato dell’arte”, ovvero quanto è stato fatto e quanto deve essere ancora fatto per ultimare il Piano di ricostruzione. Il relatore, Duca, espone il dossier in Consiglio comunale. L’assise impegna la Giunta comunale a reperire e destinare in bilancio i fondi necessari per completare il Piano. Già, ma la Gescal è morta. Come si fa? Duca, assieme all’allora sindaco Renato Galeazzi e all’architetto Giovannini incontra ad Ancona il segretario della Cer (Commissione ministeriale edilizia residenziale) chiedendo con forza che a Roma si emendi il decreto beffa del ’91 in modo che si restituiscano fondi e gestione della ricostruzione direttamente al Comune di Ancona.
Il segretario promette, ma il blocco resta. Infatti, incredibilmente, il decreto legge viene reiterato indugiando sullo stesso contraddittorio paradosso: i destini della piena rinascita del centro storico restano in mano alla Gescal, un ente defunto dal 1975! Al deputato Duca, appoggiato dalla senatrice Luana Angeloni (di Senigallia) non resta che sferrare una forte offensiva meno diplomatica nella capitale. I due intervengono sul caso Ancona in Parlamento, premono sul sottosegretario del ministero ai Lavori pubblici, Mattioli.
E alla fine ce la fanno: Mattioli mantiene la parola e finalmente nel ’96 viene approvato l’agognato, corretto emendamento grazie al quale Il ministero e la Cer delegano direttamente al Comune di Ancona la gestione dei 30 miliardi residui e dei cantieri rimasti al palo. Ma Duca rilancia. Il meccanismo normativo può essere ancora migliorato. Infatti in base a quel meccanismo, fino ad allora, si era seguito questo iter: il Comune espropriava i titolari degli immobili da risanare o ricostruire ed eseguiva i lavori; gli ex proprietari si impegnavano a restituire il 50% del costo dei cantieri al Comune in rate spalmate lungo 25 anni; il Comune infine si obbligava a restituire i soldi allo Stato. Duca propone a Roma che quella quota del 50% di fondi privati il Comune non la debba restituire.
E la sua proposta viene approvata con la legge 136 del 30 aprile 1999. A questo punto, secondo alcuni calcoli, pare che il Comune sia destinato ad incassare circa 100 miliardi di lire (poi tradotti in euro) nell’arco di 15 anni. Nel 2001 viene eletto sindaco Fabio Sturani e, per motivi poco chiari, viene sciolto l’Ufficio comunale Centro storico – un team amministrativo di provata eccellenza nella ricostruzione conservativa di beni storici, che ha fatto scuola in Italia – con relativa dispersione di esperienza e memorie tecnico-amministrative.
Da allora, sulla vicenda, anni di buio, oblio, il sospetto di una beffa. Siamo nel 2016. Secondo Duca, “tutti quei soldi il Comune li avrebbe intascati”. Ma come sono stati utilizzati? “Di sicuro non per il completamento del sito del parcheggio Traiano. E’ probabile che siano stati impiegati per altre priorità urbanistiche cittadine, ad esempio per cantieri, opere e interventi al di fuori dell’area del centro storico perimetrata dalla legge regionale”.
(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)