AD ANNI DI DISTANZA ANCORA VIVO IL RICORDO, ANCORA GRANDI GLI EFFETTI
di Avv.Vanessa Marini (Studio Legale RPC)
“..Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.”
(Oriana Fallaci)
Il 15 maggio 2014 il Presidente degli Stati Uniti Obama inaugurò il National Septemper 11 Memorial Museum.
Il Museo, costruito all’interno di Ground Zero (l’area in cui un tempo sorgeva il World Trade Center), ha le sembianze esterne di una torre troncata, completamente in vetro.
All’interno un enorme spazio espositivo, diviso in sale high tech, racconta i fatti di quel fatidico giorno attraverso i ricordi delle vittime e gli oggetti delle torri non andati distrutti, ma anche i fatti che hanno preceduto l’11/9 così come le risposte nazionali e internazionali che lo hanno seguito.
Il Memorial Museum, secondo i newyorkesi, rappresenta a livello mondiale il forziere entro cui preservare la storia del 11 settembre.
“Già…come se fosse possibile dimenticare quel giorno” – osservo.
È evidente che non serviva il Museo per rendere indelebile un ricordo del genere.
Indelebile è il suo ricordo storico.
L’11 settembre 2001, in un limpido martedì mattina, 19 terroristi del gruppo estremista islamico Al Qaeda hanno dirottato 4 aerei commerciali.
Due di essi, schiantandosi contro le loro imponenti vetrate, hanno raso al suolo le Torri Gemelle al World Trade Center a Manhattan nel cuore di New York City.
Un terzo aereo ha distrutto un’ala del Pentagono ad Arlington in Virginia.
E il quarto aereo (il volo 93) si è schiantato in un campo vuoto della Pennsylvania occidentale, dopo che con un coraggioso atto di ribellione i suoi passeggeri ne hanno ripreso il controllo.
Gli attacchi del 11/9 hanno ucciso 2.977 persone provenienti da oltre 90 nazioni.
La vittima più anziana aveva 85 anni, la più giovane solo 2.
Impossibile dimenticare le informazioni, sconnesse ed incredule, che si accavallavano in tv, mentre veniva comunicata una catastrofe umana.
Impossibile dimenticare le persone intrappolate, come in una macabra favola, nelle torri da cui nessun principe o eroe le avrebbero salvate. Gli stracci sventolati dalle finestre.
Gli esseri umani così come i fogli che, come fazzolletti bianchi, cadevano dall’alto nel vuoto.
Impossibile dimenticare gli oltre 400 soccorritori, tra i primi giunti sul posto, che sono morti nel compimento del loro dovere.
Ma forse ancora più indelebile è la visita a Ground Zero.
Già percorrendo Liberty Street, strada che conduce alla base sud est dell’area, si ha la sensazione di allontanarsi anni luce dalla frenetica Wall Street che gli sta accanto.
Il cielo, di un colore intenso quasi surreale, sembra coperto pur in assenza di nuvole.
L’aria è progressivamente più pesante e si appoggia sulla testa come un mantello sacro.
I due edifici che, come mute sfingi, segnano l’incrocio di Liberty Street con la Trinity PI che costeggia Ground Zero, portano addosso i segni dell’inferno a cui hanno assistito. A distanza di 13 anni sono bruciati e sporchi.
Davanti agli occhi, finalmente, Ground Zero. 16 acri di cantiere, a cielo aperto.
Una immensa ferita che ancora oggi sta facendo il lungo suo percorso di guarigione.
Un lungo sentiero ad anello conduce all’interno. Sentiero sul quale, nonostante le tante persone presenti, nessuno si sente di dover parlare ma preferisce chiudersi in un rispettoso raccoglimento.
Lungo il tragitto sempre più vicino un rumore incessante di acqua che scorre. Quasi una malinconica cantilena.
E poi la piazza, Ground Zero. Pavimentata con mattoncini regolari intrecciati l’uno con l’altro; tutti di una pietra porosa e densa, tipica delle tombe, ma di un colore pallido e caldo in cui sembra scorrere sangue.
Intorno alberi. 400 querce bianche di palude i cui rami leggeri, come tantissime braccia al cielo, vengono sfiorati non scossi dal vento. Non fanno rumore.
Anche gli alberi, a Ground Zero, sono in preghiera.
Le querce proteggono come tante ancelle il loro unico fratello diverso: un albero di pere Callery, conosciuto come “l’albero dei sopravvissuti”; l’albero che, ridotto ad un tronco di poco più di due metri, è stato trovato dagli operai tra le macerie di Ground Zero.
Aumenta il rumore dell’acqua. Persiste e scava dentro.
Sono le Memorial Pools. Due vasche, impressionanti e commoventi, installate all’interno dello spazio originario delle Torri gemelle.
Le piscine sono, nello stesso tempo, simbolo di speranza e nuova vita da un lato e un sigillo e tributo alla morte di migliaia di persone.
Sporgendosi dal bordo delle piscine, le eteree cascate di nove metri che cominciano da centinaia di piccoli ruscelletti finiscono nella cavità posta al centro della vasca, in un lento abissarsi di cui non si vede la fine.
Non ci si riesce a sporgere più di tanto sulle vasche. I parapetti in bronzo che le perimetrano sembrano intoccabili sindoni.
Su di esse i nomi delle vittime disposti in un regolare ordine di “vicinanza significativa”; ordine che riflette dove si trovavano le vittime quel giorno e le relazioni che condividevano con le altre persone scomparse.
Nomi di parenti ed amici riposano su quel bronzo gli uni vicini agli altri per tenere vicina e compatta la loro memoria tra i vivi.
Sulla piazza sovrasta l’imponente cavaliere di Ground Zero. Il One world trade center o Freedom Tower, al lato nord ovest.
L’affusolato grattacielo di 105 piani si alza da terra per, quanto mai simbolici, 1776 (anno della indipendenza americana) piedi, cioè 541 metri.
Sulla cima una poderosa antenna di cui si percepisce l’inizio ma non la fine.
La spada sguainata al cielo di questo cavaliere che non sa arrendersi.
Ai piedi del cavaliere, di fronte alle vasche, volgendo lo sguardo verso destra si incrocia il Museo.
Appoggiandosi, come bambini, alla vetrata di questa torre monca per sbirciarne l’anima profonda, ciò che si vede subito sono due torreggianti tridenti.
Pur essendo semplici travi, le ultime due rimosse dalle rovine dopo la catastrofe, si fissano nella memoria come due croci rosso ruggine; su una delle due è rimasta incisa l’agghiacciante parola di disperazione “help”.
Ai piedi di queste croci una scalinata scende al di sotto di dove la vista può arrivare.
Giù, nella parte più segreta ed intima di questo luogo di ricordo dove – così c’è scritto fuori – è custodita “la scala dei sopravvissuti” quella utilizzata da centinaia di vittime per salvarsi.
Alle spalle del Museo una imponente scultura in metallo di un Autore ancora ignoto perché in fase di completamento.
Sembra la carcassa di una torre, piegata su se stessa. O un enorme serpente in metallo che si tuffa nel pavimento a tasselli della piazza. Giù in quegli abissi e in quelle intime profondità dove solo la scala all’interno del museo può condurre.
Un rispettoso e dignitoso silenzio avvolge tutta Ground Zero.
Persino i bambini restano silenziosi, di un silenzio che neppure in Chiesa sanno conservare.
Ecco. Uno sguardo d’insieme lascia emergere la vera natura del World Trade Center di oggi.
E’ un tempio. Una maestosa Chiesa senza soffitto le cui mura sono fatte di preghiere e lacrime.
Tutto qui sa di raccoglimento e preghiera.
Di profonda tristezza e dolore, ma al contempo di vincente rivalsa.
Il rumore delle cascate nelle vasche è interrotto solo dal rumore degli aerei che in cielo sorvolano la zona, ad una imbarazzante vicinanza dal suolo. La loro sagoma alata si riflette sul grattacielo vetrato del One World Trade Center dalla base alla punta come fossero i macabri spettri dei due aerei di quel giorno.
Il senso della scultura incompleta ora è chiaro. È uno scheletro di metallo genuflesso in preghiera.
Il sangue si gela e l’acqua continua a scorrere.
L’11 settembre non è qualcosa che si ricorda ma che si vive da dentro. E il luogo del memoriale non è un luogo che si visita ma da cui ci si lascia visitare nell’intimo.
Ground Zero è una gigantesca cicatrice in cui si entra, ma soprattutto che ti segna dentro.
E quando ne esci hai anche tu la tua cicatrice dell’anima.
Sono le mie voci che cantano
affinché non cantino loro,
gli imbavagliati grigi nell’alba,
i vestiti di un uccello devastato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
un rumore di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una partizione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio”
(Alejandra Pizarnik)