Il caso Foodora: l’inizio di una grande battaglia?

CRITICITÀ POSTE DALLA ‘GIG ECONOMY’ IN PUNTO DI DIRITTO 

di Dott.ssa Chiara Carioli

538px-foodora_messengerSarà una sentenza che passerà alla storia quella pronunciata dal Tribunale di Torino in materia di “Gig Economy”, la nuova dimensione lavorativa basata su di un sistema che non prevede contratti di lavoro a tempo indeterminato caratterizzati dunque dalla continuità della prestazione lavorativa e dalla costanza, ma da “lavoretti” che possono essere offerti dal web o tramite le tecnologiche “app”, e di seguito accettati a seconda delle proprie competenze ed abilità.

Non a caso, questo nuovo mercato di offerta e domanda di lavoro viene definito “economia delle piattaforme”.

Il ricorso avanzato dai fattorini della Foodora, multinazionale tedesca per la consegna di cibo a domicilio, ha fatto molto discutere le testate giornalistiche nelle ultime settimane.

Contro la società sei riders avevano avanzato la prima causa civile in materia, contestando l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro dopo le mobilitazioni del 2016, al fine di ottenere un giusto ed equo trattamento economico e normativo, il reintegro e l’assunzione, oltre al risarcimento e ai contributi previdenziali non goduti.

Forse, prima di analizzare giuridicamente  quanto pronunciato dai giudici torinesi, sarebbe opportuno porsi una domanda preliminare: l’Italia, ad oggi, è pronta ad accogliere e supportare questo nuovo tipo di economia?

O meglio, il nostro ordinamento è giuridicamente in grado di tutelare coloro che decidono di intraprendere un’attività lavorativa con queste soluzioni di “lavoretti part-time” commissionati tramite app?

Nel nostro Paese, le aziende come Foodora sono entrate a far parte del mercato italiano solo da pochi anni, ed ancora devono trovare la giusta dimensione per adattarsi ad una realtà che, di fatto, non è sufficientemente in grado di accoglierla.

Il nostro paese si è sempre dimostrato un po’ scettico di fronte alla novità, preferendo rimanere tradizionalista e ancorato alla certezza, contrariamente all’apertura e alla voglia di creare innovazione che hanno dimostrato altri paesi – molti dei quali europei-.

Probabilmente, occorrerebbero in questo periodo storico due tipi di interventi.

Il primo di carattere sociale, nel senso di sensibilizzare e guidare la popolazione ad accogliere ed a provare un nuovo tipo di mercato che potrebbe portare notevoli vantaggi non solo di tipo economico, ma anche in termini di produttività e di qualità del servizio proposto, nonché un incremento delle opportunità lavorative che non richiedono particolari titoli e/o competenze.

D’altro canto, sarebbe altresì opportuno e necessario un intervento di carattere strettamente giuslavoristico per garantire una tutela a coloro che si “imbattono” in questa attività lavorativa dinamica, rimanendo ad oggi nel limbo e con il beneficio del dubbio in merito all’essere considerati lavoratori subordinati o autonomi.

È evidente che la differenza tra il primo e il secondo inquadramento è notevole non tanto per quanto concerne l’aspetto economico, ma principalmente per quanto riguarda i diritti che ogni singolo lavoratore può vantare in una posizione di subordinazione, e di contro gli oneri del datore di lavoro che è obbligato a rispettare nei confronti dei suoi dipendenti.

La sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino può essere definita “rivoluzionaria” in quanto non ha riconosciuto ai riders lo status di lavoratori dipendenti, ma bensì quello di lavoratori autonomi scatenando non solo grandi polemiche tra i ricorrenti soccombenti, ma anche un generale malcontento fra tutti questi nuovi operatori della “Gig Economy” che negli ultimi anni hanno investito denaro e forza lavoro per la crescita di queste start up.

In attesa di poter leggere le motivazioni dei Giudici torinesi, si suppone che quest’ultimi abbiano dovuto disporre, e dunque inquadrare, questa nuova figura di fattorini tra gli “status” che l’ordinamento gli ha offerto facendo probabilmente un ragionamento per esclusione, o meglio: non sussistendo tutti i requisiti per classificarlo come subordinato, il lavoratore si identifica come autonomo.

Quest’analisi porterebbe a concludere, come anticipato in premessa, chiedendosi se il nostro ordinamento sia in grado di tutelare a pieno con un giusto inquadramento giuslavoristico queste nuove figure lavorative che emergono grazie ad un mercato in continuo mutamento e innovazione, o piuttosto sia il caso di iniziare a pensare ad un intervento di natura politica, sindacale e di contrattazione collettiva.

In una Paese che prova ad innovare, occorre anche la forza e la volontà di cambiare.

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