Il LIBRO-REPORT “CHI BRUCIA”
ANCONA – di Giampaolo Milzi – Un libro di fuoco, perché i suoi principali protagonisti sono gli “harraga”, termine di valore internazionale ormai, con cui, in dialetto marocchino e algerino, si definisce il migrante che viaggia senza documenti, che “brucia le frontiere”. Un libro di solidarietà verso chi, disperatamente, quelle frontiere-muro cerca di raggiungerle rischiando la vita. E spesso il suo immane sforzo per abbracciare una nuova vita fatta di pace e giustizia rimbalza beffardamente indietro in un mondo globalizzato solo per la ibera circolazione delle merci e non degli esseri umani. Un libro d’amore per il lavoro di giornalista inviato “fai da te”, quello che – con scarsi mezzi, pochi soldi in tasca e una esorbitante passione per il suo “mestieraccio” – riesce a regalarci dei “reportage giornalisti nel senso vero e proprio del termine, legati agli avvenimenti contingenti (…), alla meccanica politica sociale e ai suoi intrecci”, scrive Angelo Ferracuti nella prefazione di “Chi Brucia – Nel Mediterraneo sulle tracce degli harraga” (edito da Vidia).
Per l’autore, Marco Benedettelli, anconetano, oggi 40enne, “scrivere è fare l’amore con il reale”. Ovvero osservare, ascoltare, mettere in gioco corpo e anima, con piglio avventuroso ed estremamente curioso, calandosi profondamente in luoghi, situazioni, circostante animate da genti e incontri di ogni tipo. Là dove l’attualità sta per diventare Storia. Un libro di viaggio lungo le roventi rotte dei migranti, ambientato soprattutto nel 2011, l’anno che ha segnato l’incendio delle primavere arabe, le rivoluzioni, per lo più fallite, tranne il caso Tunisia, dove la scintilla è scoccata.
Prima tappa, a Lampedusa, nel marzo di quell’anno fatidico, l’isola che scoppia, con 2000 richiedenti asilo stipati in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) che ne dovrebbe contenere 800. Tunisini, in gran parte, ma uomini, donne e bambini provenienti da molti paesi dell’Africa. Che, per la stragrande maggioranza, vorrebbero proseguire per il nord Europa, e vagano per le strade come fantasmi, seguiti dal terrore di essere rimpatriati. Il mese dopo Marco è tra gli “harraga” a Ventimiglia, un’altra città che scoppia, dove la frontiera si accesa. Gli “harraga” sono un po’ come palline da ping pong, oggetti cui è stata strappata dignità e umanità, che tentano e ritentano di passare in Francia, in pochi ce la fanno. Nel marzo 2011 Benedettelli è a Tunisi, dove appunta meticolosamente l’atmosfera di gioia, disorientamento, fiducia in un nuovo futuro davvero civile di una nazione appena liberatasi dal dittatore Ben Alì. Una nazione che da un lato registra gli sforzi dei nuovi partiti politiciper eleggere l’assemblea costituente che sarà chiamata a scrivere la nuova costituzione della Repubblica. Dall’altro, mentre cura le profonde ferite della rivolta, si proietta oltremare, verso l’Italia, perché pensa che in patria nulla cambierà. L’autore corre in taxi verso le spiagge della periferia di Sfax e Zarzis, parla coi giovani e meno giovani pieni di entusiasmo che stanno per imbarcarsi coi pescatori diventati trafficanti, mentre l’esercito che ha partecipato alla rivoluzione chiude gli occhi, perché tutto vuole fuorché sparare di nuovo sul suo popolo. Marco entra nelle poverissime case di Kasserine e Sidi Bouzid, città dove la guerra civile è stata più cruenta, intervista chi ha conosciuto il giovanissimo Mohamed Bouzizi, il primo martire della rivoluzione, mercante ambulante che si è dato fuoco perché la dittatura non gli voleva rilasciare la licenza per lavorare. Ben Gardane e Ras Ajdir, altre frontiere che bruciano, ai confini con la Libia, dove parlano le armi e il tiranno Gheddafi è in fuga. Le tendopoli sono piene di gente che scappa dalla guerra e dalle rappresaglie che imperversano a Tripoli, divisa in zone controllate da diverse tribù e bande di militari e paramilitari. Agosto-novembre 2011, ritorno in Italia, a Porto Recanati (MC), per due report dall’Hotel House, una specie di torre di Babele cronicizzatasi in un ghetto di “mille etnie”, dove si sopravvive arrangiandosi, mentre le istituzioni locali sembrano distanti come l’Africa. E nell’Africa più nera, in Malawi, Marco nel gennaio 2018, si chiude in un bar e tesse le fila dei suoi emozionanti e precisi ricordi e dei suoi appunti lungo i tragitti migratori che bruciano di sofferenza, morte e speranze nel Mediterraneo.
Un libro di reportage schietto, che porta i testimonari oculari, i dialoghi in presa diretta, le descrizioni meticolose di ambienti, paesaggi e persone aggrappate alla loro dignità dentro la cronaca. Che, grazie a un eccellente stile narrativo, letterario, si legge come un romanzo privo di orpelli e fantasie, un romanzo di cui attendiamo la fine, quella di un mondo migliore possibile per tutti.
(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)