di Dott.ssa LAURA FRANCESCHI (Scienze e Tecnologie dell’ambiente e del territorio Università Bicocca di Milano)
Pensando allo studio della storia si ha come l’impressione che i secoli precedenti alla rivoluzione industriale siano stati caratterizzati da una sorta di laico fissismo in cui, di tanto in tanto, quasi ciclicamente, le carestie, le guerre e le epidemie mietevano molte vittime senza però troppo mutare l’aspetto della società. Quasi come se ci si trovasse dinanzi a una sorta di presepe in cui l’avvicendarsi del giorno e della notte non porta mai alcun mutamento. Qualcosa è cambiato con l’introduzione della macchina: la prima rivoluzione industriale ha scardinato i principi delle vecchie società e a quella staticità si è contrapposto un dinamismo che, oggi, rasenta la frenesia. La modernità non ha permesso all’uomo di spingere il piede sull’acceleratore ma lo ha “costretto” ad avere fiducia in un futuro migliore portandolo a fare i conti con il rischio e la sua accettabilità.
Cosa è il rischio
La prima definizione scientifica di rischio è contenuta all’interno dell’ISO31000. In questa norma è definito come l’“effetto sugli obiettivi dell’incertezza”. Questa definizione asettica, applicabile a qualsiasi disciplina mostra un chiaro riferimento a eventi potenziali e alle conseguenze che ne derivano.
Se si utilizzasse una definizione più attuale, ossia quella fornita da Mary Douglas nel libro “Risk and Culture”, si dovrebbe dire che “Il rischio è una costruzione sociale: la sua percezione pubblica ed i suoi livelli di accettabilità si prospettano come costruzioni sociali. La cultura del rischio è strettamente legata all’organizzazione sociale ossia al modo in cui le persone si relazionano.”
Questo ci permette di connotare il rischio come il prodotto di tre elementi: la pericolosità, la vulnerabilità e l’esposizione (nota anche come stima del valore esposto). In particolare, con pericolosità si intende la probabilità che un dato fenomeno, potenzialmente dannoso, si verifichi in una data area e in un dato periodo di tempo. Invece, definiamo vulnerabilità come la predisposizione degli elementi esposti al pericolo (persone, infrastrutture, attività economiche, ambiente etc.) a subire un danno. Infine, per esposizione si intende la stima del valore degli elementi a rischio (“Worth of elements at risk”) ossia il valore economico o numero delle unità degli elementi a rischio in una data area.
La comunicazione del rischio
È possibile dire che la prima timida quantificazione del rischio risalga al Medioevo quando le nozioni probabilistiche furono utilizzate dalle prime assicurazioni marittime per stimare le perdite dovute ai possibili naufragi delle navi mercantili. Il concetto di rischio migliora ulteriormente tra il Seicento e il Settecento con lo sviluppo del calcolo delle probabilità mentre quello che resta sempre invariato, almeno fino al novecento, è la comunicazione del rischio.
Ulrich Beck – uno dei maggiori protagonisti delle scienze sociali contemporanee – nel libro “La società del rischio” asserisce che la società contemporanea, a causa della stessa modernizzazione, è costretta a trattare in modo sistematico con l’insicurezza e la casualità e da questo nasce anche la necessità di anticipare il rischio perché solo in questo modo è possibile non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi. Tuttavia, prima che la comunicazione del rischio venisse considerata a tutti gli effetti come uno degli strumenti fondamentali per la sua gestione si sono resi necessari due tragici eventi: quello di Seveso e quello di Chernobyl.
I casi Seveso e Chernobyl
Quando ci si riferisce al disastro di Seveso, in realtà, si sta alludendo all’incidente industriale che il 10 luglio 1976 coinvolse una fabbrica chimica di Meda (MB), dove, intorno alle ore 12, il sistema di controllo di un reattore chimico andò in avaria e la temperatura e la pressione salirono oltre i limiti previsti favorendo la fuoriuscita di una nube tossica che investì le vicine zone abitate. L’emblematicità del caso è data dal fatto che non fu diramato nessun allarme, almeno nelle ventiquattro ore successive. Anche nei mesi successivi, quando ormai gli effetti erano ben visibili, le istruzioni per la gestione della situazione continuavano ad essere piuttosto generiche e del tutto inadeguate.
La vicenda di Seveso, almeno ufficialmente, non produsse morti dirette, infatti, i documenti riportano solo 193 casi di cloracne mentre le morti ascrivibili a effetti a lungo termine come tumori o aborti non vennero mai conteggiate nel bilancio finale. L’incidente industriale ebbe un enorme riverbero mediatico tanto che, nel 1982, la Comunità Europea emanò la direttiva 1982/501/CEE che passò alla storia col nome di “Direttiva Seveso”.
La “Direttiva Seveso”, oltre che imporre una serie di misure volte alla prevenzione degli incidenti industriali, introdusse per la prima volta l’obbligo di informazione dei cittadini circa i rischi, in questo caso di origine industriale, per la salute e l’ambiente. L’obbligo di informazione viene poi integrato con il diritto dei cittadini alla partecipazione ai processi decisionali di pianificazione territoritle affinché potesse essere garantita loro la possibilità di essere informati sui rischi con la stesura di documenti non tecnici (Direttiva 2021/08/UE ricordata come “Seveso 3”).
Il 26 Aprile 1986, a poco meno di un decennio dal disastro di italiano, in una cittadina a 80 km da Kiev, nella locale centrale elettronucleare, si verificarono due esplosioni successive provocate dalla fusione delle barre di uranio che costituivano il cuore del reattore 4. L’improvvisa ondata di energia generò un’immensa nube, composta da tonnellate di materiale radioattivo, che, in poche settimane, il vento trasportò in tutta Europa. In questo caso le autorità competenti negarono la portata della catastrofe e le stesse operazioni di soccorso furono improvvisate: basti pensare che, inizialmente, furono chiamati a intervenire solo quattordici vigili del fuoco completamente sprovvisti di qualsiasi dispositivo di sicurezza personale.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che la dispersione delle radiazioni potrebbe essere stata la causa principale di circa novemila morti negli anni seguenti, ma alcune associazioni ambientaliste come Greenpeace ipotizzano che le vittime possano essere state almeno duecentomila. L’episodio di Chernobyl non ebbe effetto a livello della produzione di nuove norme ma contribuì a rafforzare l’idea che la comunicazione del rischio non solo ha un ruolo fondamentale nella gestione del rischio e permise di asserire che quello all’informazione deve essere un diritto garantito a tutti i cittadini.