RICOSTRUIAMO L’EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA SULLA SICUREZZA ALIMENTARE
Di dott.ssa Gaia Giulietti
La sicurezza alimentare fonda le proprie basi sull’igiene degli alimenti, intesa dal Codex Alimentarius, come l’insieme di tutte le condizioni e delle misure necessarie a garantire la sicurezza e l’idoneità degli alimenti in ogni fase della catena alimentare.La definizione comunemente accettata è quella fornita dalla FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e proposta in occasione del vertice mondiale sull’alimentazione (il World Food Summit) tenutosi a Roma nel 1996, secondo la quale la sicurezza alimentare, c.d. food security, mira ad assicurare, a tutti i soggetti ed in ogni momento, una quantità di cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare le esigenze dietetiche e le preferenze alimentari al fine di poter condurre una vita attiva e sana.
Il problema della sicurezza alimentare, recentemente, ha assunto particolare rilievo nell’opinione pubblica. E’ agevole desumere come l’accezione «sicurezza alimentare» presenti un duplice significato, che si sostanzia nell’intento di perseguire sia una «sicurezza alimentare quantitativa», tesa a risolvere il problema della fame e delle forme di sperequazione alimentare, nonché una «sicurezza alimentare qualitativa», che risponde all’esigenza di garantire la tutela della salute. E’ evidente come il problema relativo alla sicurezza alimentare quantitativa riguardi le società meno evolute. Al contrario, nelle società avanzate, assume preminente rilievo l’aspetto relativo alla qualità alimentare. In riferimento a tale ultimo profilo, la sicurezza alimentare deriva dall’impatto complessivo generato da svariate fonti di rischio per la collettività, da attribuire alle materie prime coinvolte, ai processi tecnologici di trasformazione e conservazione dei prodotti nonché alla distribuzione dei medesimi. Tali rischi trovano ragione d’essere nelle contingenze del periodo storico di riferimento, travolto dal fenomeno della globalizzazione dei mercati e dal progresso tecnologico. Quest’ultimo ha condotto le imprese operanti nel mercato a perseguire il fine di ottenere al minor costo, alimenti non convenzionali, sostitutivi di quelli tradizionali. Inoltre, la presenza sul territorio di aree ad elevato impatto ambientale nonché l’utilizzo sempre maggiore di agenti contaminanti, può determinare un ulteriore rischio per i consumatori. Non si può trascurare la circostanza per la quale gli effetti nocivi dell’utilizzazione delle moderne tecnologie si possano manifestare a distanza di tempo, a seguito di continue esposizioni a sostanze o ingestione di alimenti, cosicché minime dosi sarebbero idonee a ledere la salute a seguito di un periodo di latenza. A titolo esemplificativo, basti pensare come l’utilizzo nei mangimi, di farine animali trattate con solventi potenzialmente pericolosi, abbia dato origine al fenomeno dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (c.d. sindrome della mucca pazza).
Tali eventi, caratterizzati da una notevole risonanza emotiva, hanno determinato una crisi di fiducia dei consumatori con riferimento alla qualità dei prodotti alimentari. A tale stregua, negli ultimi anni si è affermata una dimensione etica dell’alimentazione, che ha condotto ad una maggiore attenzione verso le modalità di produzione e di consumo del cibo, nel rispetto della tutela della salute nonché della qualità della medesima.
Tuttavia, è necessario considerare come il contesto entro il quale il consumatore si muove nella scelta degli alimenti, lo vede sprovvisto di strumenti conoscitivi idonei a condurlo verso una scelta consapevole della qualità dei medesimi sotto il profilo nutrizionale.
Per le ragioni esposte, ha assunto preminente rilievo la regolamentazione delle modalità di produzione nonché di commercializzazione degli alimenti. Gli interventi susseguitesi negli anni hanno perseguito il fine di rafforzare la vigilanza del processo produttivo, con particolare riguardo alle sostanze utilizzate nonché alla valutazione dei rischi connessi, effettuata alla luce dei recenti studi scientifici accreditati dalla comunità internazionale. Le norme sulla food safety travalicano i confini nazionali. Al riguardo, è necessario effettuare alcune precisazioni, che interessano il diritto comunitario. La libera circolazione delle merci rappresenta uno dei pilastri del mercato unico nonché il nucleo dello sviluppo dell’Unione europea.
Dagli anni ’70 la legislazione comunitaria ha inteso fornire una protezione uniforme del consumatore, dell’ambiente e delle risorse energetiche, garantendo al contempo la libera circolazione delle merci all’interno del territorio dell’Unione. A tale stregua, è stata elaborata una strategia integrata, al fine di garantire un elevato livello di tutela della salute attraverso misure coerenti e controlli adeguati, non realizzabili se non attraverso un bilanciamento degli interessi coinvolti. La medesima Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in occasione della causa C-269/1997, ha posto in rilievo come il perseguimento degli obiettivi fissati dalle politiche agricole ex art. 43 TFUE dell’Unione, non possa prescindere dalla tutela della salute pubblica e dal principio di precauzione.
A tal riguardo, la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo, pur riconoscendo all’art. 16 la libertà d’impresa, tutela ulteriori interessi, quali la salute, sancendo all’art. 35 che «nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione, è garantito un livello elevato di protezione della salute umana», esteso, mediante il disposto di cui all’art. 38, con specifico riferimento, ai consumatori.
Come anticipato, a completamento della ricostruzione normativa enucleata, si inserisce l’art. 191 del TFUE, il quale sancisce il principio di precauzione. Si tratta di un principio generale codificato in ambito europeo, che pone l’obbligo, rivolto alle Autorità competenti, di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, attraverso una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione del principio di prevenzione ed in assenza dell’accertamento di un nesso causale tra il fatto dannoso e gli effetti pregiudizievoli derivanti. L’applicazione di tale principio, ha consentito di impedire la distribuzione o di ritirare i prodotti alimentari pericolosi dal mercato, facendo prevalere in tal modo la protezione del diritto alla salute sugli interessi economici.
Pertanto, la disciplina vigente sulla sicurezza alimentare è rinvenibile nel coordinamento tra l’ordinamento europeo e quelli dei singoli Stati Membri e tra questi ultimi e la legislazione regionale.
In tale contesto normativo è agevole porre in rilievo il Regolamento UE n. 1169/11, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. Esso ha operato un complesso riassetto della normativa previgente e consolidato in un unico testo le precedenti norme di carattere generale relative alla totalità delle fasi del processo alimentare, il cui ambito di applicazione riguarda gli alimenti destinati al consumatore finale. Infatti, ad opera del medesimo sono state abrogate sei direttive ed un regolamento, nonché modificato il regolamento (CE) n. 1924/2006, relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari. Il regolamento in esame è entrato in vigore il 13 dicembre 2011 ed ha trovato applicazione a decorrere dal 13 dicembre 2014 con riferimento alle disposizioni in materia di etichettatura, presentazione e pubblicità degli alimenti.
Tuttavia, le disposizioni relative all’introduzione dell’obbligo di indicazione dei valori nutrizionali nelle etichette dei prodotti alimentari, sono entrate in vigore solo recentemente, più precisamente il 13 dicembre 2016, a fronte di più di otto anni di turbate negoziazioni.
Le prescrizioni sul punto, in esso contenute negli artt. 30-35, assumono particolare rilevanza in considerazione della circostanza per la quale l’etichetta è uno strumento essenziale per la tutela del consumatore in quanto le informazioni nutrizionali in esso contenute possono orientare verso una scelta consapevole di alimenti appropriati al fine di comporre una dieta varia, completa ed equilibrata. La dichiarazione nutrizionale, infatti, specifica la composizione dell’alimento, permettendo di stimare il valore energetico e la quantità di alcune sostanze nutritive in esso presenti. A tal fine, il Regolamento 1169/11 ha introdotto l’obbligo, diretto agli operatori del settore alimentare, di indicare nelle confezioni dei prodotti destinati ad essere immessi sul mercato, i valori nutrizionali dei medesimi. Oltre al valore energetico, esse devono comprendere l’indicazione obbligatoria di sei elementi nutrizionali quali grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale, rigorosamente secondo tale ordine.
Al fine di consentire l’accessibilità delle informazioni ad una fascia sempre più ampia di utenti, la dichiarazione nutrizionale inoltre deve essere redatta in maniera semplice e comprensibile. Tutti i valori riportati devono comparire nel medesimo campo visivo in modo da non creare confusione e possono essere rappresentati in formato tabellare o, in caso di spazio insufficiente, in formato lineare. Nella generalità dei casi, le indicazioni devono essere riportate nel retro ovvero al lato della confezione. Tuttavia, al fine di permettere alle imprese di porre in rilievo determinate proprietà organolettiche dei propri prodotti, la normativa comunitaria ha attribuito ai produttori la facoltà di indicare ulteriori valori nutrizionali rispetto a quelli obbligatori, anche nel fronte della confezione, purchè quanto indicato corrisponda a veridicità e sia posto in essere attraverso modalità tali da non influire sulla percezione delle informazioni obbligatorie. Il valore energetico e le sostanze nutritive devono essere espressi su 100 g o 100 ml di prodotto, così da facilitare la comparabilità tra prodotti similari o contenuti in imballaggi di dimensioni diverse. E’ altresì consentito inserire nelle dichiarazioni nutrizionali le assunzioni giornaliere di riferimento (% GDA o %AR) e l’espressione “per porzione”, purchè siano riportate la quantità e il numero di porzioni contenute nell’intero prodotto confezionato.
Inoltre, al fine di migliorare la leggibilità delle informazioni fornite nelle etichette, viene stabilita una dimensione minima dei caratteri per le informazioni obbligatorie, fissata in 1,2 mm e ridotta a 0,9 mm con riferimento alle confezioni la cui superficie più larga risulti inferiore a 80 cm2. Da ultimo, è necessario precisare come le informazioni obbligatorie sugli alimenti dovranno essere redatte in una lingua facilmente comprensibile dai consumatori, pertanto nella lingua madre dello stato membro cui sono destinati.
Tuttavia, l’ambito di applicazione della esaminata disciplina risulta limitato dall’Allegato V del Regolamento medesimo, che introduce una deroga, esentando determinate categorie di alimenti dagli obblighi sino ad ora esposti. Tali esenzioni riguardano gli alimenti non lavorati, i prodotti per i quali le informazioni nutrizionali non sono considerate un fattore determinante per l’orientamento delle scelte dei consumatori ovvero la dimensione della relativa confezione non sia superiore a 25 cm2. A titolo esemplificativo, si indicano spezie, edulcoranti, gomme da masticare, acque destinate al consumo umano.
Un ulteriore aspetto che assume rilievo con riferimento alla sicurezza alimentare, è correlato al tema della tracciabilità degli alimenti. A tal proposito, l’Unione Europea è intervenuta a più riprese al fine di rendere obbligatoria l’indicazione dell’origine degli alimenti. Tuttavia, l’ambito di applicazione dei medesimi è circoscritto a limitate categorie di alimenti e limitato alle ipotesi in cui la mancata indicazione della provenienza dei prodotti sia tesa ad indurre in errore il consumatore circa la qualità dei medesimi.
Tuttavia, come è agevole desumere da un sondaggio condotto nel 2015 dal Mipaaf (Ministero delle Politiche Agricole Ambientali e Forestali) su un campione di 26547 soggetti, gli italiani attribuiscono notevole rilevanza all’indicazione, nell’etichetta, del luogo di origine nonché di trasformazione dei prodotti alimentare. Da tale sondaggio è altresì emerso come i consumatori siano disposti ad aumentare la propria spesa, in termini economici, pur di ottenere la certezza della provenienza italiana di un determinato prodotto. Questa, infatti, si traduce nella rassicurazione circa il rispetto di determinati standard di tutela alimentare. A tal fine, si è ravvisata l’esigenza dell’intervento del legislatore nazionale, teso a colmare il vuoto normativo del legislatore comunitario. Veniva così adottato dal Mipaaf, il 15 ottobre 2016, uno schema di Decreto Ministeriale, al quale la Commissione Europea non ha sollevato rilievi nel relativo termine di 3 mesi.
Tale provvedimento contiene prescrizioni il cui ambito di applicazione riguarda i prodotti caseari nonché lettieri-caseari derivati che li contengono ed hanno ad oggetto l’obbligo di indicare l’origine del latte e delle materie prime utilizzate per i prodotti derivati.
I destinatari del descritto obbligo si rinvengono nelle aziende italiane nonché in quelle che producono per il mercato interno. L’esigenza di fornire opportune informazioni circa la tracciabilità dei prodotti, ha reso necessario indicare la totalità dei Paesi in cui ha avuto luogo anche una limitata fase della produzione casearia.
Ebbene, qualora si ravvisi tale ultima ipotesi, al fine di evitare di incorrere in sanzioni, il produttore dovrà indicare nella confezione dell’alimento, le informazioni diversificate per il Paese di mungitura del latte, di confezionamento e, da ultimo, di trasformazione. Qualora il latte provenga da una pluralità di nazioni, l’etichetta dovrà riportare la dicitura “miscela di latte di paesi UE”, ovvero “miscela di latte di Paesi extra UE”. Al contrario, l’indicazione potrà essere univoca qualora il latte sia munto, lavorato e confezionato nel medesimo Paese. Gli obblighi menzionati sono contenuti nell’art. 7 del progetto in esame, per il quale si auspica l’entrata in vigore nel gennaio 2017 con conseguente applicazione, in via sperimentale, sino al 31 marzo 2019, salvo l’adozione, medio tempore e ad opera dell’Unione Europea, di atti esecutivi in materia.
Alla luce di quanto esposto, è evidente come la conoscenza dei principi base della nutrizione, correlata ad un’adeguata informazione nutrizionale delle proprietà organolettiche degli alimenti, contribuiscano significativamente nel senso di consentire al consumatore di effettuare scelte consapevoli, essenziali a garantire non solo il benessere dei medesimi ma altresì una concorrenza del mercato tesa alla commercializzazione di prodotti che rispondano alle esigenze dei destinatari, improntate in misura sempre maggiore verso un’esigenza qualitativa dei prodotti consumati.