di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)
Le scene tagliate per qualsiasi produzione cinematografica sono una prassi, nell’ambito di blockbuster come Justice League potrebbero costituire un piccolo film a sè. Sempre più frequentemente vi sono scene che non rientrano nel montaggio finale ma che le major scelgono di inserire nei trailer creando un impriting nello stato d’attesa degli spettatori. Una fetta di audience aveva aspramente criticato questo tipo di marketing nel fracassone Suicide Squad. In Justice League la cosa si ripete ma c’era da aspettarselo considerato l’iter complicato che ha avuto il film nel momento cruciale della post-produzione a seguito dell’abbandono, dovuto ad una tragedia familiare, di Zack Snyder.
La presenza del cineasta viene un po’ meno nel consacrare il senso dell’epica, dei miti, degli dei che vivono tra noi, in un film che ancora più di Batman v Superman, almeno nelle premesse, tali elementi ci si attendeva li mettese in rilievo. Il tocco, la visione e la maniera personalissima di Snyder nel mostrare i simboli anche quando non ci sono più si palesano però in un prologo essenziale e originale che mostra come reagisce il mondo quando è disorientato e spaventato, senza più la speranza incarnata da Superman.
Snyder poi, che in JL alza l’asticella nel ritrarre l’uomo-pipistrello, ad oggi è il regista che meglio di tutti ha saputo plasmare la cupezza, la gravitas del Batman a fumetti con uno stile cinematografico che fa un tutt’uno di tetti, cunicoli e vertigini con il crociato di Gotham.
La morte dell’ultimo figlio di Krypton non solo ha tolto sicurezza all’umanità ma l’ha resa vulnerabile. Un attacco è alle porte con il demone Steppenwolf intenzionato dopo secoli a rientrare in possesso di tre antichi artefatti, le Scatole Madri, capaci, unite, di dar vita ad un potere più grande persino di un pianeta.
Insomma non c’è tempo per riflettere e così Bruce Wayne con l’aiuto di Diana Prince cerca di reclutare il più in fretta possibile esseri straordinari: il velocista Barry Allen, il semi dio del regno di Atlantide Arthur Curry e Victor Stone, ex giocatore di football che in seguito ad un esperimento diventa Cyborg, metà uomo e metà macchina.
Sebbene la trama di Justice League sia abbastanza scontata lo svolgimento è fluido, ben ritmato con musiche tenui che vanno ad integrarsi con la mission del team. E la tanto agognata leggerezza funziona perchè questa volta si accompagna ad un umorismo che a differenza di BvS non stona con quanto mostrato sullo schermo.
Le note più dolenti arrivano da una CGI che specie a team riunito in alcune sequenze non riesce a nascondere la sua kryptonite di affannosità e dal solito villain. Dal punto di vista scenografico Steppenwolf è senz’altro migliore di DoomsDay e di Ares ma è inconsistente sul piano narrativo. Una narrazione che non giova dell’ingresso di Joss Whedon e lontana dal creare un’atmosfera solenne, capace di elevare ad icone maestose il phanteon degli eroi conferendo altrettanta solidità allo script.
Peccato perché la parte migliore di Justice League sta nell’alchimia tra tutti i personaggi della lega, nel loro essere vulnerabili e in conflitto con sé stessi. La Wonder Woman di Gal Gadot è il personaggio che non si mostra come eroina ma lo è nella realtà, nei fatti, per come è in grado di creare armonia e rendere speciale anche il momento più innocuo trascinando dietro di sé i nuovi ingressi.
Insomma con Justice League l’Universo Cinematografico DC non ha trovato la propria sintesi e un’identità spiccata ma è un film che ha un cuore, emoziona, nell’insieme è bello da vedere ed intrattiene piacevolmente, che è già un buon risultato quando si devono far combaciare più personaggi.
Perché ancora più dell’immaginario gli eroi di questo mondo, di Justice League, sono molto più vicini alle gente comune di quanto possiamo immaginare: faticano ad uscire allo scoperto, sono tormentati e severi con il proprio io, nonostante doti speciali il più delle volte possono sentirsi fuori posto ed emarginati.
In qualche modo Justice League riflette il processo creativo che lo ha caratterizzato: il senso di comunità, di unione che ci porta a chiedere aiuto a “persone che non conosciamo” con risultati non totalmente efficaci ma ricchi di passione e di cuore, gli stessi che Ben Affleck, Gal Gadot, Jason Momoa, Ezra Miller e Ray Fisher sono riusciti a trasmettere ai loro rispettivi personaggi.