CONSIDERAZIONI SULLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE N. 30475 DEL 2019
di Dott. Francesco Magnini (Praticante avvocato)
Introduzione. La canapa è una pianta che in Italia, come in molti altri paesi del mondo, è stata coltivata per secoli, potendosene ricavare prodotti di pregio quali fibre per l’industria tessile, per il cordame in genere, cellulosa per farne carta, materie plastiche non sintetiche, carburante.
Diventa per la prima volta pianta “illegale” nel 1937 con il Marijuana Tax Act, una legge emanata dal Congresso USA e firmata dal presidente Roosevelt che non la mette propriamente fuorilegge impedendone coltivazione, produzione di prodotti derivati e consumo, ma la bandisce per così dire all’americana, tassandola pesantemente e di fatto rendendo non più vantaggioso né produrla né acquistarla.
Esce dal mercato poiché sconfitta nella guerra con il petrolio, si potrebbe dire, senonchè con la Convenzione sugli stupefacenti del 1961, seguita da quelle del 1971 e 1988, viene anche marchiata in quanto in possesso di efficacia drogante, appellativo che come vedremo la stigmatizzerà fino ai giorni nostri.
In pratica viene dichiarata “guerra” alla canapa, affermando che nel giro di pochi anni sarebbe dovuta sparire (a tutto vantaggio di brevetti industriali), e in parte così è fino a che, negli anni ’90, le industrie tessile e cartaria cominciano a premere presso le istituzioni affinchè la coltivazione della canapa venga nuovamente permessa, ed è nel 1997 che il ministero delle politiche agricole italiano emana a tale proposito una circolare.
Ma è l’aspetto penalistico che ci interessa e, detto che l’attuale sistema di controllo globale sulle droghe si basa su queste tre convenzioni internazionali, in Italia è la legge 685 del 1975 che per la prima volta disciplina le sostanze stupefacenti, affermando all’art. 26 che è proibita la coltivazione di coca, funghi allucinogeni, papavero dal quale si ricava l’oppio grezzo e la “canapa indiana”.
Sarà poi il d.P.R. 309/1990 (testo unico sugli stupefacenti) con i successivi aggiornamenti a stabilire in apposite tabelle che cos’è considerato “droga”, facendo rientrare in questa categoria anche la canapa.
Al punto b) di questo regolamento è stabilito infatti che nella tabella II delle sostanze proibite devono essere indicati la cannabis e i prodotti da essa derivanti, e che solo alcune parti della pianta hanno contenuto psicoattivo, la marijuana (prevalentemente i fiori femminili) e l’hashish (la loro resina).
Una disciplina scarna, essenziale, considerato che la canapa è una pianta complessa, multifunzionale, della quale ne sono state riconosciute ben 61 varietà europee (61 tipi di semi certificati), di cui otto tipicamente italiani e che solo le infiorescenze femminili pare abbiano un contenuto di principio attivo che può variare anche di parecchi punti percentuali.
E considerato che la legge penale, scendendo su questo campo, deve fare i conti con la botanica, la chimica, una cultura o sottocultura comunque la si voglia considerare ormai millenaria a riguardo e la morale corrente.
Come accennato, non c’è demonizzazione che possa resistere alle esigenze del mercato, e le pressioni degli imprenditori fanno sì che la direttiva 2002/53 del Consiglio dell’Unione Europea vada in direzione di un rilancio della produzione agricola, operando una catalogazione delle varietà e delle specie di piante agricole di Canapa sativa L. (L. sta per Linneo, il famoso naturalista che classificò tutte le piante conosciute) di cui è ammessa la coltivazione.
Tale direttiva viene recepita in Italia con la legge 242/2016, contenente disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, “in quanto coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità ecc. ecc.”.
Legge che si applica alla coltivazione di canapa delle varietà ammesse in quanto iscritte nel “catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole”, ai sensi dell’art. 17 della direttiva del 2002, che non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (d.P.R. 309/1990).
In pratica la 242 ammette, o legalizza, la produzione e il commercio di varietà botaniche rientranti nel genere Cannabis sativa L. nelle quali il principio attivo psicotropo è trascurabile poiché contenuto in una percentuale ben inferiore all’1% che comunque resta linea di confine e campo di battaglia per giuristi, medici tossicologi e ogni genere di esperti.
Varietà botaniche che, detto con altre parole, rientrano nel genere della Cannabis sativa L. con trascurabile principio attivo psicotropo, ammissibili poiché a causa dell’esiguo contenuto di Delta-9-tetra-idrocannabinolo (c.d. THC), il principio attivo della cannabis avente “effetto drogante”, non possono assolutamente definirsi “sostanza stupefacente”.
Una piccola percentuale e una linea sottile tuttavia estremamente significative perché marcano il limite fra ciò che è penalmente rilevante ai fini del reato di spaccio (art. 73 del d.P.R. del 1990) e l’illecito amministrativo qualora la detenzione sia ai fini del consumo personale (reato depenalizzato nel 2006).
Ma arriviamo alla questione: la legge del 1990 e quella del 2016 pur volendo regolare materie diverse si sono trovate in contrasto sul punto relativo alla canapa.
Questo contrasto ha causato difformità interpretative sul tema della commercializzazione dei derivati della coltivazione della cannabis, come la stessa sentenza delle SS.UU. 30475/2019 evidenzia a pag. 5, individuando un indirizzo maggioritario per cui è da escludersi che la legge 242/2016 lo consenta e uno minoritario per cui, invece, è lecita la vendita purchè il contenuto di principio attivo presente nelle foglie e nelle infiorescenze sia inferiore allo 0,6%.
Nonché un terzo orientamento che prospetta una soluzione intermedia tra quelle richiamate, che afferma la liceità dei derivati dalla coltivazione di canapa purchè contenenti una percentuale di THC non superiore allo 0,2%, facendo probabilmente riferimento al regolamento europeo del 2013 per il quale nella canapa greggia il limite massimo di principio attivo consentito è in tale percentuale.
Anche questa sentenza della Cassazione che prendiamo in esame, come molte altre, auspica l’intervento del legislatore allo scopo di dirimere la questione, evitando però di entrare nel cuore della questione.
L’art. 1 comma 2 della 24272016 recita: “La presente legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”.
E il quesito che viene posto alle sezioni unite riguarda le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato all’art. 1 comma 2 della legge 242/2016, e in particolare la commercializzazione di Cannabis sativa L., rientrano o meno, e se si, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale norma.
La vicenda all’esame della Corte. Effetto della legge del 2016 è l’apertura a partire dall’anno successivo di punti vendita di prodotti derivati dalla canapa, sia infiorescenze che alimentari e cosmetici, con basso contenuto di THC.
La legge infatti stabilisce che qualora all’esito di un controllo il contenuto complessivo di THC risulti superiore allo 0,2 ma entro lo 0,6% (con fascia critica fra lo 0,5 e lo 0,6) nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore (e presumibilmente anche del commerciante), mentre nel caso venga accertata una percentuale superiore allo 0,6% l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni.
La circolare ministeriale del 23 maggio 2018 chiarisce poi che la legge in vigore favorisce “la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori”.
Ed inoltre che “la vendita delle piante a scopo ornamentale è consentita senza autorizzazione”, in pratica aprendo, pur senza dirlo in modo esplicito, al commercio dei derivati della canapa anche finalizzato ad un consumo per così dire ricreativo, senza che tale dicitura compaia sulle confezioni che preferiscono riportare la dicitura “prodotto da collezione” per non incorrere nel rischio di sanzioni e nel trionfo di ipocrisia e ambiguità.
La vicenda a cui si riferisce la sentenza in commento riguarda il titolare di negozi adibiti alla vendita di cannabis light a Macerata e provincia e si intreccia con quella di un altro commerciante di Ancona.
A Macerata, nel giugno del 2018, la Polizia dispone il sequestro dei negozi ai sensi dell’art. 100 del Tulps (il quale consente la sospensione della licenza per le attività malfrequentate o in cui si ravvisi pericolo per la moralità e il buon costume), sulla base di analisi condotte dalla polizia scientifica della Questura, che rileva una percentuale di THC nei prodotti superiore allo 0,6%.
Un “blitz” che si avvale di un parere richiesto dal Ministero della Salute (in procinto di compiere scelte riguardo l’uso terapeutico della canapa) al Consiglio Superiore di Sanità, il quale afferma la pericolosità della cannabis light.
Il titolare dei negozi viene denunciato per spaccio di sostanze stupefacenti ai sensi dell’art. 73, commi 1, 2 e 4 e art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990.
Il Tribunale di Macerata in pratica conferma in toto la validità dell’operazione di polizia condotta dal questore.
Ad Ancona le cose vanno diversamente: il G.i.p. rigetta la richiesta di convalida del sequestro effettuato nel 2018 dalla Procura e il pubblico ministero propone appello al Tribunale del Riesame (collegiale), adducendo la violazione della l. 242/2016.
Il 23 novembre 2018 il Tribunale del Riesame di Ancona disattendeva le doglianze della Procura poiché nel caso di specie il tossicologo aveva rilevato una percentuale di principio attivo dello 0,5% ma il procuratore della Repubblica presso il Tribunale propone ricorso per cassazione avverso l’ordinanza, deducendone violazione di legge e vizio di motivazione.
La Corte di cassazione si pronuncia il 12 marzo 2019 accogliendo il ricorso e annullando l’ordinanza di dissequestro impugnata, rinviandola al medesimo Tribunale di Ancona per il nuovo esame.
Dalle motivazioni della sentenza emerge che la Corte ha voluto distinguere la figura (e le conseguenti responsabilità) del coltivatore dal commerciante/rivenditore di prodotti a base di canapa, che non tutte le previsioni di esonero di responsabilità previste a favore dell’agricoltore si estendono alla figura del commerciante e che è riconosciuta la liceità delle attività commerciali indicando tuttavia la soglia massima di 0,2%, discostandosi così da Cass. 4920/2019, la quale innalzava tale limite allo 0,6%, il cui valore esimente viene qui invece circoscritto al solo coltivatore.
La sentenza. Nel frattempo (8 febbraio) la questione di diritto era stata rimessa dalla IV sezione della Cassazione alle SS.UU. rilevando che sull’ambito di operatività della L. 242/2016 si registra un contrasto giurisprudenziale.
Viene fissata la trattazione in camera di consiglio per l’udienza del 30 maggio 2019 e con la sentenza 30475 le Sezioni Unite annullano l’ordinanza impugnata dando in pratica ragione alla pubblica accusa e la rinviano per nuovo esame al Tribunale di Ancona esprimendo il principio di diritto cui il giudice del giudizio di rinvio dovrà attenersi.
“Principio di diritto” che consiste nello strumento a disposizione della Cassazione per dirimere le controversie che le vengono sottoposte o tramite ricorso proveniente dalle parti in un procedimento oppure con ricorso nell’interesse della legge promosso dal Procuratore Generale.
Si tratta di un particolare tipo di interpretazione di una o più norme, che offre la corretta interpretazione di esse e le modalità con cui dovranno essere applicate, di notevole importanza pratica poiché il giudice del rinvio non avrà altra possibilità che applicare il principio espresso alla fattispecie concreta e decidere il caso attribuendo alla norma l’interpretazione datale dalla Cassazione nella propria sentenza.
Principio di diritto che non si discosta da quello espresso con la sentenza sempre della cassazione nel mese di marzo e relativo al procedimento del commerciante anconitano, per cui: “La commercializzazione al pubblico di Cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.
Sul punto si può affermare che la Corte ha voluto intervenire con fermezza escludendo la commercializzazione di fiori, resine, foglie ed olii con destinazioni “tecniche” o “collezionistiche” in quanto, da un lato, non previste dalla legge n. 242/2016 e, dall’altro, rientranti nelle condotte punibili ex art. 73 del testo unico sugli stupefacenti qualora abbiano “efficacia drogante”.
Secondo il Supremo Collegio, pertanto, la Legge 242/2016 non sarebbe applicabile in relazione alla detenzione e commercializzazione dei prodotti derivati da cannabis, per i quali l’unica normativa di riferimento resta il testo Unico in materia di stupefacenti.
Il pronunciamento in esame si pone lungo il solco già tracciato da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale non può penalmente sanzionarsi la condotta di colui il quale detenga e commercializzi cannabis (sia essa di varietà sativa o indica) priva di concreta “efficacia drogante”.
Come noto, infatti, ai fini dell’integrazione del reato di detenzione e vendita di sostanza stupefacente, di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/90 assume rilievo la concreta idoneità offensiva della condotta.
Tale assunto è stato più volte ribadito proprio dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha precisato come non possa configurarsi il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 laddove la sostanza non sia idonea a produrre un “effetto stupefacente” rilevabile, sicché grava sul Giudice l’onere di verificare “in concreto” se il fatto abbia effettivamente leso il bene giuridico sotteso alla norma in esame.