SOS PER RIPORTARVI LE OPERE
– ANCONA – di Giampaolo Milzi –
Di una chiesa con annesso convento intitolata a San Bartolomeno Apostolo, affacciata sullo slargo dove oggi via Pio II sbocca in via Birarelli, è nota l’esistenza sin da prima del 1262, anno in cui fu consegnata a una famiglia monastica femminile. All’epoca, sorgeva ancora più a ridosso della rupe del colle Guasco che si tuffa in mare. Troppo a ridosso. A nulla valsero le preghiere per salvarla dai fenomeni erosivi. Fu una frana, agli inizi del XVI secolo, a risucchiare tra le onde del sottostante Adriatico quella struttura medievale di culto e ritiro spirituale, di cui si sa solo che era piuttosto importante e non certo piccola. Tra il 1520 chiesa e convento furono ricostruiti un po’ più distanti dal costone roccioso, per renderli più sicuri. Dopo alcuni rimaneggiamenti nel ‘600 (ritocchi alla facciata delle chiesa, il convento perde il piano terreno, che diviene seminterrato), attorno al 1760 viene effettuato sotto la regia dell’architetto Ciarrafoni un incisivo rinnovamento di tutto il complesso religioso, sia interno che esterno, con diversa ma persistente eleganza della facciata della chiesa e la copertura in laterizi dell’alto campanile. Ma il periodo di nuova gloria per San Bartolomeo dura pochi decenni. Nel 1797, a seguito dei moti rivoluzionari contestuali all’occupazione napoleonica, le monache vengono scacciate. E vanno dispersi, ma sarebbe meglio dire persi o trafugati, la ricca biblioteca e l’archivio di cui erano state depositarie e curatrici. Nel 1799 la chiesa viene adibita a fabbrica di polvere da sparo. Nel 1810 le truppe francesi rinnovano le spoliazioni di opere d’arte sacra negli edifici di culto che già avevano operato nel 1797. Tra queste, il capolavoro di Siciolante da Sermoneta che ornava l’altare maggiore di San Bartolomeo e probabilmente altri dipinti. Nel 1818, con la città tornata definitivamente parte dello Stato pontificio, San Bartolomeo viene riaperto al culto, officiato dai Minori conventuali. Dopo un trentennio, il cambio di nome: nel 1847 chiesa e convento – grazie all’intervento del canonico di origini armene Girolamo Nudi – vengono assegnati alle Monache Benettine Ripsmiane Armene, da qui la mutazione del titolo in quello del loro santo protettore Gregorio. Ma la parte conventuale del complesso religioso, già nel 1835, aveva assunto una funzione laica, in particolare carceraria: prima è sede del Tribunale Civile e Penale e del Bagno penale; poi, nel 1860, ospita anchela sezione degli ergastolani (trasferitasi dalla Darsena) e quella dei “Discoli”, cioè per i minorenni prigionieri, e in quell’anno le suore abbandonano definitivamente anche la chiesa di loro proprietà. Ultime testimoni di una comunità locale, quella armena,
che fino a tre secoli prima aveva primeggiato nelle attività commerciali e vantato vari ordini religiosi.
Contribuendo con altre comunità (come quella greca, albanese ed ebraica) a rendere la città Dorica “Porta d’Oriente”, crocevia multietnico e multiculturale di traffici mercantili. La comunità armena si disperse quasi del tutto col declino del commercio anconitano nella metà del XVI secolo. Di armeno rimase quindi solo il titolo della chiesa, dedicato a quel San Gregorio Illuminatore, passato alla storia come San Gregorio Armeno, appunto, perché fu lui il primo a convertire al Cristianesimo l’antichissimo omonimo regno.
La chiesa il 15 ottobre del 1898 viene acquistata dal sacerdote Giuseppe Birarelli e passa al Conservatorio Femminile Giovagnoni-Birarelli, per l’assistenza alla minorenni orfane. I bombardamenti del 1943 prima e il poi terremoto del 1972 arrecano danni gravissimi. Tanto che il convento viene demolito nel 1975.