LE IMMAGINI DEL PICCOLO PROFUGO MORTO SULLA SPIAGGIA DI BODRUM E IL DIRITTO A PUBBLICARE
Di avv. Tommaso Rossi (Studio Legale Associato Rossi-Papa-Copparoni)
Fare una buona fotografia significa porra sulla stella linea occhio, testa e cuore diceva Henri Cartier-Bresson, forse il più grande fotografo di reportage di tutti i tempi. Lui sapeva cogliere attimi che il passante distratto magari neppure notava, e li rendeva eterni, immortali. La grandezza in un piccolo gesto, in uno sguardo, in un angolo di strada.
Chissà cosa avrebbero visto il suo occhio, la sua testa e il suo cuore in quelle spiagge della Turchia dove la vita si è fermata come un delfino che ha perso la rotta e ha visto la sabbia neglio occhi.
Un piccolo profugo siriano, uno dei tanti senza nome e senza una storia: solo speranze e morte. Uno dei tanti di una stage silenziosa che fa morti come una guerra mondiale. Una foto che fa il giro del web, del mondo e di tanti politici che forse finora hanno guardato alla tragedia dell’immigrazione dei profughi come ad una cosa poco interessante. Dopo quella foto nulla è più uguale, improvvisamente in tanti hanno detto “basta”.
Si è saputo alcuni giorni dopo che il piccolo con la testa appoggiata nelle calde acque di Bodrum si chiamava Aylan Kurdi e aveva solo 3 anni. La sua famiglia era originaria di Kobane e stava cercando la salvezza dalla Siria attraversando il mare tra la Turchia e Kos con l’obiettivo di raggiungere il Nord dell’Europa. Ma l’imbarcazione su cui viaggiavano è naufragata: insieme ad Aylan sono morti il fratellino Galip, 5 anni, e la madre Rihan, 35, mentre è sopravvissuto il padre, disperato perché a suo dire si sarebbe fatto sfuggire dalle mani i suoi cari.
Si è detto tutto, e forse anche di più, su questa storia che ha scosso le coscenze di tutti. Noi vogliamo interrogarci se sia lecito o meno diffondere queste immagini.
L’art. 15 della legge stampa vieta la pubblicazione di immagini che possono turbare «il comune sentimento della morale» per i contenuti «impressionanti o raccapriccianti». Come si può facilmente capire è una fattispecie tanto indeterminata da consentire se interpetata in maniera ferrea di comprimere in modo eccessivo la libertà di espressione, e modellarla secondo la personale concezione etica di ciascun giudice chiamato ad applicarla. Contro tale possibile deriva è intervenuta una importante sentenza della Corte Costituzionale (n. 293 del 2000), che ha circoscritto il divieto alle sole immagini che ledono la dignità della persona, intesa come valore fondante e comune alla pluralità delle concezioni etiche della società contemporanea. La sentenza ha anche aggiunto che, per comprendere se vi sia davvero una lesione alla dignità della persona, occorre valutare non solo l’immagine in sé ma il contesto in cui si inserisce e, al contempo, il rilievo pubblico della notizia.
Proviamo dunque a calare i canoni espressi dalla Corte Costituzionale a questa foto.
A mio avviso, circa le foto del bimbo morto a Bodrum, oltre ad avere l’effetto shock di un siero anti-indifferenza, sul piano strettamente giuridico la loro pubblicazione va considerata lecita.
Anzitutto, la maggior parte di quelle pubblicate sono sostanzialmente anonime: il corpo è spesso ripreso di spalle o il volto è coperto dal poliziotto che lo tiene sulle braccia. Inizialmente, peraltro, neppure si conosceva il nome del bimbo , nè della sua famiglia di cui non sembra essere stata violata in alcun modo la memoria e il riserbo. Ed in più l’interesse pubblico è evidente, e l’eco che c’è stato dopo la pubblicazione anche ad alti livelli politici ne è testimonianza.
La potenza di quelle foto sta proprio nellla sostanziale non identificabilità del bimbo: lui non è solo se stesso, ma é l’emblema delle tante morti innocenti vittime del mare, degli sfruttatori e di un occidente populista e sostanzialmente disinformato. E di tutti quei morti che, purtroppo, ancora verranno dopo di lui.
Importante, notare come, forse per la prima volta nell’iconografia dei profughi, il piccolo viene ripreso nella sua singolarita di individuo e di vita unica. E non come massa di migranti, spesso descritti e fotografati come mucchio di bestie e non come persone singole.
E questo è forse il più alto riconoscimento della dignità umana che c’è dietro a quella foto.