IL FILM SULLA DECADENZA DEL PRESENTE CHE È ORMAI UNA FENOMENO DA RECORD.
di Sabina Loizzo
Di queste ultime ore è la notizia che sia il miglior incasso del regista partenopeo. Da due mesi, ormai, se ne parla come un vero e proprio fenomeno cinematografico e culturale. C’è un gran vociare attorno, ma in realtà, La grande bellezza di Paolo Sorrentino è un film di cui è difficile parlare, che lascia enormi vuoti nelle riflessioni che lo riguardano, ed è ancora più difficile dare un giudizio certo e definitivo su di esso. Credo che ciò che si possa fare sia soltanto raccontare la propria esperienza con questo film, cercando di darne una propria interpretazione, che sappiamo già resterà incompleta.
La grande bellezza è uscito nelle sale italiane in concomitanza con la sua presentazione al Festival di Cannes e, in effetti, il film presenta tutte quelle caratteristiche che lo rendono adatto alla kermesse. Nei primi 30 minuti ciò che appare lampante, anche a chi è digiuno di elementi tecnici per giudicare, è una fotografia mozzafiato, che raccoglie Roma e la rende padrona assoluta del film, con i suoi anfratti isolati, le fontane silenziose, i ponti e i chiostri schivi e carichi di solitudine, come ad avvertire lo spettatore affascinato di ciò che realmente sottende la pellicola, un’immagine di decadenza e un senso di vuoto esistenziale. Due condizioni che si riscontrano evidenti anche nelle scene successive, quelle della festa, seppur in maniera nettamente diversa. Luci accecanti e musica dall’inconfondibile gusto trash, scene grottesche e personaggi che lo sono ancor di più, in una sequenza sincopata che si alterna a primi piani in pieno stile Hollywood – e Sorrentino la lezione americana l’ha imparata bene. È in questo modo che ci appare Jep Gambardella, il protagonista del film, interpretato da un Toni Servillo la cui bravura sarebbe superfluo evidenziare. Servillo incarna Jep Gambardella, un mondano per sua stessa definizione, anzi il re dei mondani, un giornalista che ha scritto un solo libro di grande fama quarant’anni fa e poi ha smesso, perché troppo pigro e “perché esco troppo la sera”. Servillo gli presta il corpo, la voce, le movenze. Le sue gambe si mettono a disposizione per quelle interminabili passeggiate notturne di Gambardella, in una Roma ricca di echi felliniani, un omaggio più che esplicito, ricercato, il quale non manca, però, di un atroce ripresa della realtà in cui viviamo. La Roma di Sorrentino non è magica come quella della Dolce Vita, ma cupa, a volte addirittura tetra, mentre si crogiola in una desolazione fatta dai suoi stessi abitanti, incapaci di vivere la bellezza che hanno attorno perché apparentemente stanchi di tutto e di tutti. Senza scomodare sempre Fellini e a voler citare qualcosa di più recente, la Roma dipinta da La grande bellezza mi ha riportato alla memoria un film visto l’anno scorso, To Rome with Love di Woody Allen. Un film che non fa decisamente onore al resista newyorchese, in cui la capitale diventa una sorta di cartonato su cui far muovere delle macchiette riciclanti i soliti cliché sugli italiani. Anche La grande bellezza, a suo modo, ci mostra una città “cartonata”, scenografia immobile nella sua storia millenaria, dove il tempo che scorre e corrode si respira tutto nel corso del film, davanti alla quale si muovono personaggi stereotipati, uomini e donne che si nascondono dietro una maschera al punto da non riconoscere più quale sia la finzione e quale la realtà, come l’autrice amica di Jep, Stefania (interpretata da Galatea Ranzi), che si dipinge donna lavoratrice, impegnata politicamente, madre ineccepibile e moglie fedele e lo grida a gran voce, mentre la sua verità sta in un matrimonio di copertura e in un suo costante tentativo di tenere a galla una famiglia che non c’è e un lavoro a dir poco marchettaro. Oppure il personaggio di Romano, interpretato da Carlo Verdone – che svolge appieno il suo compito, vestendo i panni dello scrittore sfigato e oscuro che tanto gli stanno bene -, il quale cerca incessantemente di mostrarsi brillante e geniale con il suo riadattamento teatrale di D’annunzio che nessuno vuole, quando il suo reale desiderio è fare ritorno al paese e condurre una vita tranquilla e serena, lontano da una Roma che, per sua stessa amissione, lo ha deluso. Ancora una volta, è la fisicità di Servillo a riassumere il tutto e porlo in evidenza in maniera quasi iconica, attraverso quella maschera e quel ghigno che contraddistinguono il personaggio di Jep al punto che sarà difficile ricordarlo senza. Jep Gambardella è il perno attorno a cui ruota il film: il personaggio si muove con un mix di levità e pesantezza in un universo vacuo e vanesio, che ricicla se stesso continuamente, in pose ormai plastiche e prive di contenuto, incapace di rinnovarsi perché non c’è più nulla da rinnovare. Jep per quarant’anni è stato il centro della mondanità romana, colui che non solo va ha le feste, ma ha “il potere di farle fallire” e come tale si muove al suo interno, in una muta che gli scivola addosso come un guanto e nel quale pensa di aver trovato il suo habitat naturale. Sarà la morte a portarlo a scontrarsi con la realtà delle cose. Non solo quella del suo amore di un tempo, un amore che sembra averlo seguito per anni e non sia mai stato dimenticato, leitmotiv delle riflessioni di Jep al quale torna spesso con la mente, come punto da cui tutto è partito e al quale tornare nella ricerca di quella grande bellezza che sembra essere l’unico motore che spinge Gambardella nella vita. Sarà anche la scomparsa di Ramona – interpretata da una Sabrina Ferilli perfetta nel ruolo, che mi è piaciuta tanto dopo anni, la cui uscita di scena è forse uno dei momenti più belli e suggestivi del film, merito di una fotografia accurata, velata, elegante – a scuoterlo ulteriormente e a spostare la maschera quel tanto per far apparire il mondo, all’improvviso, diverso e fuori posto.
Jep entra così in conflitto con il suo mondo, mostrando insofferenza per l’ipocrisia, la falsità e la vacuità dell’ambiente in cui vive, imborghesito e intellettualoide, convinto di mantenere uno status di avanguardia ed eccentricità, nel suo tentativo di apparire sempre scintillante e ricco di fascino ma che, invece, non ha più nulla da raccontare. Un ambiente fine a se stesso di cui, eppure, il protagonista non può fare a meno, perché lui stesso invischiato in questa rete intricata, maestro di danze che da anni vede e ripropone la stessa solfa. La sua è la visione di un insider, consapevole di cosa ci sia dietro il circo che ogni sera si allestisce sotto i cieli della città – “è tutto un trucco” dice l’illusionista a Jep facendo sparire una giraffa, scena visionaria e quanto mai emblematica – ma incapace di allontanarsene perché ormai parte di sé.
L’ultima parte, forse la più nebulosa, è il momento di una chiusura che, però, non porta a un reale compimento. L’immagine della “Santa”, questa suora che ricorda Madre Teresa di Calcutta, che vive in povertà e in una realtà lontanissima da quella di Jep, si inserisce nell’immaginario ecclesiastico del film, evidenziandone le contraddizioni interne. I cardinali e le suore del film vivono a stretto contatto con il mondo di Jep e per questo li ritrovi a farsi il ritocchino insieme agli altri membri del bel mondo romano, partecipano alle loro feste, a volte ne sono i protagonisti, come il caso del cardinale di Roberto Herlitzka, più interessato a come preparare un ottimo pollo alla ligure che a parlare di spiritualità. Nella scena dei fenicotteri – esplicito esercizio di stile il cui significato simbolico, forse un giorno, il regista ci spiegherà – la figura della Santa, il suo essere un outsider che pur si mischia a tale mondo, è la molla che spinge Jep a tornare alla ricerca della grande bellezza mai trovata, tuttavia, questa volta, rivolgendosi al suo io più recondito, al suo passato e alla sua giovinezza, ai tempi in cui aveva scritto un libro destinato a divenire un successo e in cui era innamorato. Sarà quella la grande bellezza? Difficile dirlo. Forse, la realtà, è che non esiste grande bellezza perché il mondo è imperfetto… o forse che la grande bellezza sta proprio nella sua imperfezione.
“È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile.”
Al di là di mere disquisizioni pseudo-filosofiche, La grande bellezza di Sorrentino è, sì, un film dalla grande e ossessiva ricercatezza formale, come un po’ tutti i suoi film, un omaggio a un cinema del passato a cui il regista sembra fare il verso, ma a mio parere ciò su cui ci si dovrebbe realmente soffermare è il suo apparire come uno spaccato dissacrante e quanto mai veritiero della società in cui viviamo, decadente e mediocre, erosa e corrotta, tesa al suo inevitabile annichilirsi. E, a ogni modo, se ne può parlare male o se ne può parlare bene, ma è un film che lascia traccia e si sedimenta nello spettatore, impedendogli di esserne indifferente. Un film, in definitiva, da non perdere.