La mammografia non riduce la mortalità per tumore al seno

E’ QUESTO IL RISULTATO DI UNO STUDIO DEL BRITISH MEDICAL JOURNAL

del dottor Giorgio Rossi (Oncologo)

UnknownProprio in questi giorni è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica British Medical Journal uno studio canadese della University of Toronto secondo cui lo screening mammografico, cioè l’indagine condotta a tappeto su donne fra i 40 e i 59 anni, non riduce la mortalità per il tumore al seno. Lo studio è stato condotto su 90.000 donne, di età 40-59 anni, durato per ben 25 anni, divise in due gruppi : in uno le donne venivano regolarmente sottoposte alla mammografia di screening, nell’altro venivano seguite solo con visita clinica che comprendeva la palpazione. Sono stati diagnosticati 3250 tumori nel primo gruppo ( mammografia) e 3133 nel secondo gruppo (palpazione) e la mortalità per cancro al seno è stata simile nei due gruppi.

E non solo. Lo screening mammografico tenderebbe a delle “sovradiagnosi” nel senso che , specie con le più moderne apparecchiature digitali di mammografia, vengono svelate lesioni estremamente iniziali di tumori che nel tempo possono restare del tutto silenti senza evolvere verso la forma di tumore infiltrante, ma ciononostante una volta diagnosticate, vengono sottoposte ai trattamenti secondo i protocolli internazionali che prevedono la chirurgia seguita dalla radioterapia; cure importanti non prive di effetti collaterali e gravate anche da costi economici non indifferenti.

Pertanto dopo anni ed anni di azioni di informazione verso il pubblico femminile sull’importanza di partecipare allo screening mammografico come strumento fondamentale per la diagnosi precoce del tumore più diffuso tra le donne , questo studio fa nascere dei dubbi . E’ necessario fare, però, delle precisazioni. La mammografia a tutt’oggi resta l’esame più utile per la diagnosi di tumore, ciò vuol dire che ogni qualvolta il medico o la donna stessa avvertono un’ anomalia a livello mammario, la mammografia resta l’esame di riferimento; non è la Risonanza Magnetica che è un esame di secondo livello ( nel caso in cui la mammografia pone dubbi), non è l’ecografia che è un esame complementare alla mammografia, eccetto per le giovani donne, sotto i 30-35 anni, in cui invece diventa l’esame standard. L’età della donna gioca un ruolo fondamentale nella resa della mammografia; in giovane età ove nella mammella prevale la quota ghiandolare i raggi x della mammografia hanno una scarsa penetrazione e pertanto l’immagine apparirà radiologicamente opaca con la possibilità che una lesione patologica resti nascosta. Con l’avanzare dell’età la mammella cambia la sua conformazione e la quota adiposa gradatamente prevale su quella ghiandolare ed in questa situazione l’esame esprime le sue massime potenzialità.

In riferimento allo studio canadese l’età presa in esame comprendeva, come detto, anche la fascia tra i 40 e i 50 anni, che solitamente viene considerata un’età ancora non del tutto idonea per una resa ottimale dell’esame, tanto che in Europa, compresa l’Italia, la maggioranza degli screening mammografici, vengono effettuati su donne di 50-69 anni ove l’esame è sicuramente utile, consigliando per la fascia 40-50 almeno due mammografie nell’arco del decennio.

In realtà il dibattito non è nuovo; in un recente passato altri studi sono arrivati a conclusioni simili.
Una ricerca condotta in Norvegia su 40 mila donne e pubblicata su Annals of Public Health evidenzia che una percentuale compresa tra il 15 e il 25% dei casi le diagnosi di tumore fatte mediante gli screening sono in realtà delle “sovradiagnosi”; fino ad un caso su 4 individuato e curato di conseguenza con chirurgia e radioterapia, in realtà non avrebbe dato origine ad una malattia potenzialmente mortale né ad alcun sintomo. Su 2500 donne sottoposte allo screening , i ricercatori hanno calcolato una sola vita salvata, a fronte di 10 pazienti avviate a trattamenti non necessari.

Anche negli Stati Uniti ricercatori della Harvard Medical School e della Washinton University avevano raggiunto conclusioni simili, dimostrando che la mammografia potrebbe non essere adatta allo screening per la diagnosi precoce del cancro al seno perché non è in grado di distinguere tra tumori potenzialmente evolutivi e formazioni che potrebbero spontaneamente stabilizzarsi senza mai evolvere in malattia e senza mai dare segno di se. Entrambi gli studi sottolineano che il fenomeno della “sovradiagnosi” è un problema strettamente collegato al miglioramento tecnologico degli apparecchi radiologici usati per la mammografia; con le nuove tecniche di imaging tale problema non potrà che crescere.

I sostenitori dell’utilità dello screening mammografico sono comunque a tutt’oggi la maggioranza e soprattutto sottolineano che non infrequentemente le ricerche che esprimono contrarietà si basano sostanzialmente su comparazioni di dati non sempre omogenei che possono portare a distorsioni interpretative. Seguendo invece metodologie di studio adeguate i numeri non lasciano dubbi : un regolare uso dello screening quasi dimezza il rischio di morire di cancro al seno. Il test è il modo migliore per identificare un tumore prima che divenga sintomatico, quando è piccolo e di conseguenza le cure saranno meno invasive e le possibilità di guarigione sfiorano il 95%. Ma, dato che il problema delle diagnosi e dei trattamenti in eccesso esiste, è necessaria una corretta informazione. La donna che si sottopone all’esame deve sapere che va incontro al rischio di scoprire un tumore poco aggressivo, che magari non avrebbe mai saputo di avere. Attualmente la scienza viene in aiuto per cercare di rispondere a questo quesito; di fronte ad una dubbia formazione evidenziata alla mammografia si può procedere ad una micro-biopsia su cui viene poi eseguito l’esame istologico. Tale tecnica, che prevede l’utilizzo dell’ago e non del bisturi chirurgico, non va confusa con il più noto agoaspirato per esame citologico ove ad essere analizzate sono delle singole cellule che possono risultare più o meno alterate fino all’aspetto della cellula tumorale. Viceversa con la micro-biopsia viene prelevato un frammento di tessuto che se pur minimo è sufficiente per effettuare non solo la diagnosi di malignità o benignità, ma, nel primo caso, anche l’identificazione biologica che ci dirà se la lesione è aggressiva, indolente o quiescente; la diagnosi viene così personalizzata e su questa base potrà essere scelta la strada più adatta per quella singola situazione.

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