La maxi-operazione “Aemilia” mina le “figlie settentrionali” della ‘ndrangheta calabrese

BEN 117 ARRESTI A BOLOGNA E 46 A BRESCIA E CATANZARO

di Barbara Fuggiano (praticante avvocato)

UnknownUn intervento che non esito a definire storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord. Non ricordo a memoria un intervento di questo tipo per il contrasto a un’organizzazione criminale forte e monolitica e profondamente infiltrata” sono le parole con cui il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha elogiato la maxi inchiesta “Aemilia” della DDA di Bologna, di concerto con quelle di Brescia e Catanzaro, che ha portato a provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di 117 delle 200 persone indagate di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. Tra i tanti, risalta il nome dell’imprenditore Giuseppe Iaquinta, il padre dell’ex calciatore Vincenzo, perché, si sa, sono questi i nomi che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica e soddisfano l’affamato processo mediatico.

Il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sentito tempo fa dagli inquirenti come persona informata sui fatti quale ex sindaco di Reggio Emilia, ha tweettato “inchieste Dda Bologna fondamentali per rendere più forti e libere le nostre comunità #Aemilia”.

L’indagine ha avuto ad oggetto anche gli appalti per la ricostruzione post-sisma del 2012, con le agghiaccianti risate intercettate di due indagati subito dopo la caduta di un capannone a Mirandola, oltre ad altri delitti in materia di smaltimento di rifiuti. Ma non è tutto. Sono stati coinvolti anche politici locali di spicco per aver supportato e contribuito al rafforzamento nonché alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa, concedendo favori in cambio di sostegno elettorale.

Il clan più colpito è quello dei Grande Aracri di Cutro, piccola cittadina in provincia di Crotone, gestito da Nicolino Sarcone e da anni notoriamente infiltrato nel territorio emiliano con traffici di portata anche transnazionale.

Il Procuratore di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, ha rivelato che “Grande Aracri si atteggia a capo di una struttura al di sopra dei singoli locali. E’ sostanzialmente il punto di riferimento anche delle cosche calabresi saldamente insediate in Emilia Romagna dove c’era una cellula dotata di autonomia operativa nei reati fine. I collegamenti tra Emilia Romagna e Calabria erano comunque continui e costanti e non si faceva niente senza che Grande Aracri lo sapesse e desse il consenso”.

 Sono lontani i tempi in cui si pensava che le mafie fossero “un problema” solo del Sud Italia. Si tratta di una questione che coinvolge l’intero territorio italiano, ormai da decenni e in “vesti” diverse.
Fu la legge n. 575 del 1965 (successivamente rimaneggiata) a decretare il “contagio”. Nel definire precise “disposizioni contro la mafia”, la legge elegge gli indiziati di appartenere ad un’associazione di stampo mafioso quali principali destinatari della misura del soggiorno obbligato, ossia dell’obbligo di soggiornare in una località decisa dalla magistratura (e solitamente molto lontana da quella d’origine, in modo da troncare il rapporto criminoso) per un periodo anche piuttosto lungo di tempo.
In questi luoghi di confino la criminalità mafiosa trova il pane per i propri denti e ricrea le strutture dell’organizzazione, allargando il giro d’affari.

Roberto Scarpinati, procuratore generale di Caltanissetta, ha ricordato che nel Nord Italia la mafia siciliana si presenta “con il volto rassicurante di manager e colletti bianchi”, una sorta di “aristocrazia mafiosa” che, in un momento di recessione come l’attuale, è in grado di porgere su un piatto d’argento notevoli capitali in cambio di quote anche di minoranza “per colonizzare progressivamente il territorio con una fitta rete di relazioni a lungo termine”. Si tratta di parole in grado di descrivere anche “il biglietto da visita” con cui le ‘ndrine calabresi si presentano nel settentrione.

E’ sbagliato, però, parlare e pensare “in blocco” alle associazioni mafiose, poiché ognuna ha un’estensione e un modus operandi proprio e profondamente diverso; l’errore che le autorità, in passato, hanno commesso (e riconosciuto) è stato, infatti, quello di credere di combattere come un unico nemico.

Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e promotore dell’associazione Libera, parla in questi termini dell’antimafia di oggi: “L’uguaglianza di fronte alla legge ha bisogno di uguaglianza sociale, altrimenti la legalità diventa una discriminazione tra chi sta bene e chi tira la cinghia. Per non parlare dell’antimafia. E’ ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. Per fortuna anche qualche politico lo ha capito”. Antimafia  è una scelta di coraggio, coscienza e vita, non è solo “belle parole”.

E’ responsabilità.

Il 416 bis c.p. (associazioni di tipo mafioso anche straniere) Il nostro codice penale punisce con la reclusione da 7 a 12 anni “chiunque fa parte di una associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone” e da 9 a 14 anni “coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione”. Si tratta ovviamente di una contestazione autonoma rispetto a quella dei reati fine, commessi dall’associazione per assicurarsi le utilità economiche da riciclare o reinvestire.

La legge 646/1982 ha introdotto l’art. 416 bis c.p. cercando di far fronte a quella lacuna legislativa che, il più delle volte, non consentiva di punire per associazione per delinquere (art. 416 c.p.) gli affiliati, stanti le dimensioni e le peculiarità del fenomeno. La stessa legge, approvata pochi giorni dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa offre una definizione di “associazione di tipo mafioso”, stabilendo che tale è l’associazione in cui “coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Per la prima volta, quindi, il tratto distintivo delle mafie viene finalmente individuato nella “forza intimidatrice” in grado di produrre quel clima di assoggettamento e di omertà di cui esse si sono sempre avvalse e sfamate.

Un’altra conquista dell’epoca fu l’imposizione della confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Fu la prima volta che venne messo nero su bianco quello che Pio La Torre – padre della proposta di legge e morto pochi mesi prima della sua approvazione – aveva sempre sostenuto, ovvero che la confisca dei patrimonio degli uomini d’onore fa a loro più paura del carcere, perché un mafioso detenuto conserva prestigio e potere mentre un mafioso privato dei suoi avere perde l’uno e l’altro. “Una cosa più brutta del sequestro dei beni non c’è” disse nel 2007 il boss Francesco Inzerillo ai nipoti in visita nel carcere di Torino.

La ‘Ndrangheta e i Grande Aracri. La ‘ndrangheta è un’associazione criminale di stampo mafioso nata nel capoluogo calabrese e diffusasi, successivamente, in tutta la regione; ad oggi, è l’organizzazione più potente operante sull’intero territorio nazionale e con numerose infiltrazioni all’estero.

I settori di attività più colpiti sono il narcotraffico, la partecipazione in appalti, il condizionamento del voto elettorale, l’estorsione, l’usura, il traffico di armi, il gioco d’azzardo, il traffico di esseri umani, e lo smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi.

La struttura interna della cosche ‘ndranghetiste, a differenza di quelle della mafia siciliana, si poggia sulle ‘ndrine, ovvero sugli appartenenti ad un nucleo familiare (caratterizzantesi per una rigida gerarchia di ruoli e potere interna) uniti da vincolo di sangue, tanto che sono frequenti i matrimoni combinati volti a sancire l’unione tra due famiglie. Ogni ‘ndrina gestisce un proprio locale per organizzare le attività criminali in un determinato territorio e i locali creati al di fuori della Calabria spesso dipendono dal locale del paese calabro d’origine.

E poi c’è il Crimine. Il Crimine è la struttura apicale dell’organizzazione calabrese, un organo di riferimento e coordinamento per tutti i locali attivi.

Fino agli anni Ottanta, nonostante due imponenti guerre di ‘ndrangheta, l’organizzazione godeva di una diffusione orizzontale, in modo che il territorio fosse distribuito tra i diversi locali e le faide tra le ‘ndrine potessero essere evitate.

Successivamente, l’associazione sentì l’esigenza di evolversi ed espandersi al di fuori del proprio ambiente, esportando al Nord i giri d’affari, come è accaduto da sempre per ogni civiltà nel corso della storia.

Le cosche settentrionali delle ‘ndrine si distinguono nettamente rispetto alle altre associazioni mafiose: si tratta di vere e proprie filiali, autogestite e strettamente connesse con la ‘ndrina-madre, con una sorta di “contratto a tempo indeterminato”. Le altre mafie, invece, tendono a spostarsi al Nord solo per singoli affari; sempre con ironia, potremmo dire si tratti di “contratti a chiamata”.

Ciò che caratterizza la mafia calabrese è proprio questo insistente e asfissiante controllo del territorio, tanto che l’ex Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso (tra i tanti) ha più volte affermato che “In Comuni come Africo e Platì è lo Stato che deve riuscire ad infiltrarsi”. Tutte le organizzazioni mafiose, infatti, traggono profitto dalla sfiducia e dall’assenza dello Stato sul territorio, peculiarità, tuttavia, non solo italiana.

In particolare, la cosca Grande Aracri al centro della maxi-operazione “Aemilia” nasce negli anni Novanta,  quando ebbe fine la passione tra la famiglia Grande Aracri e la famiglia Dragone a causa di una diversa visione sulla gestione dei proventi del narcotraffico. Sebbene la sua città natale sia Cutro (n provincia di Crotone), il clan ben presto estende i suoi affari nel nord Italia (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) e in Germania.

 Sin da subito si accende una faida tra i Grande Aracri-Nicoscia-Capicchiano-Russelli e i Dragone-Arena-Trapasso-Megna, che a più riprese ha portato all’uccisione di diversi esponenti delle ‘ndrine, tra i quali il boss Totò Dragone, nonché a numerose operazioni di polizia, tra le quali la memorabile operazione “Pandora” del 2009 con ben 37 ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei Nicoscia e dei Grande Aracri.

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