FACCIAMO CHIAREZZA SULLA QUESTIONE GIURIDICA
di Barbara Fuggiano
Della vicenda avevamo già trattato in questa rivista, ma un ripasso non fa mai male.
Poco più di un anno fa, l’ormai ex sindaco di Roma Ignazio Marino aveva deciso di trascrivere le nozze celebrate all’estero di ben 16 coppie omosessuali nel Registro dello Stato Civile della Capitale. Immediata la reazione del Prefetto di Roma, che aveva intimato la regolarizzazione dei Registri, nel rispetto di una circolare del Ministro dell’Interno Alfano del 7 ottobre secondo la quale “in Italia non è possibile che ci si sposi tra persone dello stesso sesso, quindi quei matrimoni non possono essere trascritti nei registri dello stato civile italiano, per il semplice motivo che non è consentito dalla legge”, dal momento che l’eventuale equiparazione tra matrimoni omosessuali ed eterosessuali rientra nella competenza esclusiva del legislatore nazionale.
La vicenda era finita di fronte al T.A.R. Lazio – Roma, il quale, con la senteza n. 5924/2015, aveva riconosciuto l’insussistenza di qualsivoglia diritto alla trascrizione negli atti dello stato civile dei matrimoni tra coppie dello stesso sesso celebrati all’esterno (e, di conseguenza, la legittimità della circolare del 7 ottobre), giudicando tuttavia illegittimo il provvedimento del Prefetto di Roma che aveva decretato l’annullamento delle trascrizioni di Marino nonché la stessa circolare del 7 ottobre (nella parte in cui invitava i Prefetti all’annullamento) sulla base del fatto che la rettifica o la cancellazione degli atti dello stato civile è materia riservata in via esclusiva all’autorità giudiziaria ordinaria e non già agli organi di Governo. Insomma, il solito “cavillo procedurale” tanto caro ai Giudici per adottare una soluzione formalmente ineccepibile ma sostanzialmente un po’ coraggiosa: pur non sussistendo alcun diritto alla (ormai avvenuta) trascrizione, l’atto di rettifica è annullato perché illegittimo.
Ovviamente il Ministero dell’Interno ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato, che ha adottato la decisione tanto criticata.
I Giudici non hanno potuto non rilevare che “risulta agevole individuare la diversità di sesso dei nubendi quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli artt.107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. ed in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna”. Dunque, il matrimonio omosessuale, che venga ritenuto atto invalido o addirittura inesistente, è incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate, poiché privo dell’indefettivile condizione della diversità di sesso tra i nubendi.
Ne deriva, giocoforza, la non trascrivibilità degli atti in questione per difetto di uno degli elementi insdispensabili contenuti nello stesso. “Non solo, ma il dibattito politico e culturale in corso in Italia sulle forme e sulle modalità del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali sconsiglia all’interprete qualsiasi forzatura (sempre indebita, ma in questo contesto ancor meno opportuna) nella lettura della normativa di riferimento che, allo stato, esclude, con formulazioni chiare e univoche, qualsivoglia omologazione tra le unioni eterosessuali e quelle omosessuali” conclude il Consiglio di Stato, riferendosi apertamente al decreto Cirinnà bis.
Infine, il Consiglio di Stato ribalta la decisione di primo grado, riconoscendo la possibilità, per i Prefetti, di intervenire in autotutela gerarchica per rimuovere, con garanzie di uniformità su tutto il territorio nazionale, un’apparenza di atto (che, finché resta in vita, appare idoneo a generare incertezze e difficoltà amministrative) e, quindi, in definitiva, ad assicurare la certezza del diritto connessa a questioni relative allo stato delle persone: insomma, le decisioni del Prefetto di annullare le trascrizioni a firma di Ignazio Marino erano e sono più che legittime.
Ecco che la sentenza ha scosso gli animi, destato stupore e indignazione; è stata definita una “sentenza fuori dal tempo”. La critica maggiore ha riguardato alcune considerazioni operate dai Giudici circa le sentenze della Corte Costituzionale e della CEDU, che hanno lanciato un monito al legislatore italiano affinché possa dotarsi una legislazione di protezione delle unioni civili (omosessuali e eterosessuali), quali formazioni sociali costituzionalmente riconosciute se non dall’art. 29 almeno (e senza ombra di dubbio) dall’art. 2 Cost.
Certamente il Consiglio di Stato avrebbe potuto evitare l’inciso “in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna”, frase che si colora di etica e morale più che di diritto. Frase certamente scomoda, seppur sia innegabile che la tradizione giuridica italiana – di matrice cattolica, volente o nolente – ha da sempre riconosciuto la famiglia nell’unione di individui di sesso diverso.
Intanto, il Parlamento promette di riprendere l’analisi del disegno di legge Cirinnà, fermo da oltre sei mesi in Senato, subito dopo la sessione di bilancio.
Le aspre critiche mosse alla decisione e, in particolare, l’averla ritenuta “poco coraggiosa” e antiquata risultano un flashback. Ricordano, infatti, la sentenza della Cassazione sul caso Eternit nello stabilimento di Torino: fu definita “scandalosa” una decisione – di dichiarazione della prescrizione del reato ben prima che le indagini iniziassero – che, a ben vedere, non faceva altro che rispettare la legge e il principio di legalità, quindi il ruolo demandato al Giudice.
Anche questa volta il risultato, per quanto impopolare, non solo è formalmente conforme al diritto ma era anche prevedibile e, forse, scontato. Il Consiglio di Stato non disconosce le unioni tra omosessuali, come molti hanno voluto far credere, né il diritto al matrimonio di ogni persona, a prescindere dall’orientamento e dall’idendità sessuali, semplicemente s’inchina alla legge italiana e, riconoscendo i propri limiti, passa “la patata bollente” al legislatore, affinché, nel rispetto dei moniti della giurisprudenza nazionale e europea, possa adattare le disposizioni all’evolversi del vivere e del sentire sociali.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare: ai Giudici non è richiesto alcun atto di coraggio, possono aggirare e forzare l’interpretazione della legge per rispondere a esigenze di giustizia sostanziale, ma quando la norma è chiara e netta hanno “le mani legate”. L’errore non è a valle ma a monte: occorre un intervento legislativo in grado di colmare vuoti che esistono da decenni e che la maggioranza di turno ha sempre dato l’illusione di voler colmare il prima possibile, senza alcun percepibile risultato.