La responsabilita’ medica per nascita indesiderata ed il diritto a non nascere

ANALISI DEL RECENTE INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE

di Dott.ssa Alice Caporaletti

UnknownLa questione controversa è la seguente: nel caso in cui il medico ometta di riscontrare una malformazione del feto, impedendo alla gestante di decidere in modo consapevole di esercitare il suo diritto ad interrompere o meno la gravidanza, a chi spetta il risarcimento del danno? E più in particolare, si può riconoscere al nato un autonomo diritto al risarcimento stesso?

Con ordinanza interlocutoria (n. 3569 del 23 febbraio 2015) la Suprema Corte a Sezioni Unite è stata chiamata ad intervenire ed a risolvere il contrasto già da anni esistente sulla tematica riguardante la richiesta di danno da nascita indesiderata.

Nello specifico, il caso che si poneva alla disanima delle Sezioni Unite, risolto con la sentenza n. 25767 del 22 Dicembre 2015, riguarda una coppia di coniugi, genitori di una bimba affetta da sindrome di Down, che hanno agito nei confronti dell’Azienda Sanitaria, del medico ginecologo e del direttore del laboratorio di analisi chimiche microbiologiche dell’ospedale in cui ha avuto luogo il parto, per richiedere il risarcimento del danno da nascita indesiderata, in quanto trovatisi nella condizione di non aver potuto scegliere consapevolmente di interrompere la gravidanza a causa di un errore medico derivante da una errata diagnosi prenatale, nella quale non era stata identificata una malformazione del feto.

Due sono le questioni, oggetto di contrastanti orientamenti di legittimità, che vengono quindi rimesse alle Sezioni Unite. La prima riguardante l’onere probatorio nell’accertamento del danno da nascita indesiderata, e la seconda il riconoscimento o meno della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento dei danni.

In ordine alla prima questione, un primo e più risalente orientamento riteneva corrispondente a regolarità causale che la gestante potesse interrompere la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto; contrapposta era invece una giurisprudenza più recente che escludeva tale presunzione semplice e poneva a carico della madre dimostrare che, se dovutamente informata in merito alle condizioni del feto, avrebbe interrotto la gravidanza.

La premessa da cui quindi muovono la Sezioni Unite è la possibilità legale in capo alla donna (introdotta dalla L. 22 Maggio 1978 n. 194) di ricorrere all’aborto,ciò per consentire alla donna di autodeterminarsi e di tutelare la sua salute e la sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose.

Tuttavia, occorrono determinati presupposti per accedere a tale possibilità che, accertabili mediante appositi esami clinici, sono capaci di rilevare eventuali anomalie nel nascituro ed il conseguente grave pericolo per la salute della donna. Senza il concorso di tali presupposti infatti l’aborto integrerebbe un ipotesi di reato.

Gli Ermellini distinguono pertanto quattro elementi a fondamento del thema probandum: “l’anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la vita della donna e la scelta abortiva”. Oltre a ciò, il “fatto psichico, ossia l’atteggiamento volitivo della donna”.

Quest’ultima deve quindi provare la propria volontà abortiva in caso di gravi malformazioni del feto; tuttavia, ricade sul medico l’onere della prova contraria, consistente nel dimostrare che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto pur se informata in merito alla sua vita ed a quella del nascituro.

Le Sezioni Unite escludono l’esistenza di un danno in re ipsa: “occorre però che la situazione di grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile mediante consulenza tecnica d’ufficio”.

Con riguardo al secondo motivo, il problema che si è posto e che è stato oggetto di ampi dibattiti dottrinali anche negli ordinamenti stranieri (c.d. “wrongful life”) riguarda la possibilità di riconoscere, iure proprio, un diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato.

Secondo una prima tesi, espressa dalla Cassazione nel 2004 con la sentenza n. 14488, deve escludersi un’autonoma legittimazione risarcitoria del nato malformato, ciò in quanto il diritto di non nascere sarebbe un diritto “senza padrone” poiché la capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

Più recente è invece un indirizzo giurisprudenziale contrapposto. Con la sentenza n. 16754 del 2012, infatti, viene riconosciuta al bambino nato malformato una legittimazione autonoma ad esercitare l’azione risarcitoria anche nel caso in cui le malformazioni siano congenite e non siano state causate dall’errore sanitario.

Il danno che deve essere risarcito è dato dall’esistenza diversamente abile che il soggetto si trova ad affrontare, per consentirgli di alleviare la propria condizione di vita.

Secondo le Sezioni Unite, “è ammissibile l’azione del minore volta al risarcimento del danno, se il medesimo gli è stato ingiustamente cagionato durante le gestazione”; non è quindi consentita tale richiesta se la malformazione consegue fattori esterni e totalmente estranei alla condotta tenuta dai medici, la cui colpa risiederebbe esclusivamente nel non aver messo la donna in condizioni di abortire.

Il “diritto a non nascere se non sano” viene quindi negato dalla Suprema Corte che, aderendo anche alla giurisprudenza oltralpe (caso “Perruche” in Francia), ritiene tale diritto capace di reificare l’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica, costituendo addirittura una “deriva eugenetica”.

Il nostro ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”, ragion per cui non vi è legittimazione in capo al nato con disabilità per ottenere il risarcimento del danno da “vita ingiusta”.

 

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