A CINQUE ANNI DALLA MORTE DI GIUSEPPE UVA, CONTINUA LA BATTAGLIA DELLA SORELLA PER LA VERITA’
– di avvocato Valentina Copparoni
Varese, 16 giugno 2013- La strada della verità è spesso difficile e tortuosa, ma è un percorso che deve essere compiuto, anche se a passi lenti e pesanti, per arrivare ad ottenere quella giustizia che non cerca un colpevole a tutti i costi.
Da anni una donna, Lucia Uva, con tutta la forza e caparbietà che solo l’amore può dare, è alla ricerca della verità. E’ la sorella di Giuseppe Uva, l’uomo che nella notte tra il 13 ed il 14 giugno 2008, a soli 43 anni, moriva dopo essere stato fermato dai carabinieri perché, per una bravata, aveva chiuso una strada con alcune transenne insieme all’amico Alberto Biggioggero.
Lucia ora cerca di far luce su ciò che è successo in quella terribile notte che le ha strappato il fratello portando avanti una battaglia con accanto l’avvocato Fabio Anselmo (legale anche della famiglia di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi).
Non mancano, però, gli ostacoli. Da ultimo, l’accusa formulata a suo carico dalla Procura di Varese per i reati di diffamazione aggravata a danno di appartenenti a forze dell’ordine ed istigazione a disobbedire alle leggi. Ciò a causa di una sua intervista rilasciata alla trasmissione televisiva “Le Iene” e ad alcuni insulti rivolti alle forze dell’ordine pubblicati sulla sua pagina di Facebook.
A seguito del servizio del programma “Le Iene”, oggi risultano formalmente indagati anche l’inviato della trasmissione Maurizio Casciari ed il direttore di Italia Uno. Nel servizio, andato in onda nel 2011, la donna accusa i carabinieri di aver percosso il fratello in caserma e soprattutto continua a domandarsi per quale motivo non venga ascoltato su quanto successo Alberto Biggioggero, fermato insieme a Giuseppe Uva la sera del 13 giugno e condotto dai carabinieri nella stessa caserma di Giuseppe. Alberto Biggioggero in più occasioni ha ribadito di aver sentito quella notte le urla atroci di Giuseppe provenire dalla stanza accanto a quella in cui lui si trovava e di aver quindi chiamato di nascosto il 118.
Giuseppe Uva giunge nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Varese alle 5,45 del mattino del 14 giugno 2008 dopo tre ore passate nella caserma dei carabinieri. Alle 10,30 della stessa mattina muore. La sorella Lucia lo vede all’obitorio e, seppur con il cuore a pezzi, ha la freddezza di scattare alcune foto del fratello, perché quel corpo che ha davanti agli occhi le sembra fin da subito martoriato da un’inaudita violenza fisica. Mi torna alla mente la descrizione del corpo di Stefano Cucchi fatta dalla sorella Ilaria nel libro “Vorrei dirti che non eri solo – Storia di Stefano mio fratello”:
“Gridavano frasi difficilmente comprensibili, sentivo mio padre ripetere: “Oddio, Oddio!”, e mia madre che tra i singhiozzi chiedeva a ripetizione “Che cosa gli hanno fatto?” (…) Ho afferrato quel po’ di coraggio che ancora mi sorreggeva ed ho varcato la porta. Stefano era disteso su una barella, protetto da una teca di vetro, ma se non avessi saputo che era lui difficilmente l’avrei riconosciuto. Uno spettacolo tremendo. Aveva il volto scuro, quasi nero, come fosse bruciato e incavato fino alle ossa. Poco più di un teschio (…). Aveva una macchia sotto lo zigomo destro, mai vista prima, la mandibola storta, un bozzo enorme sotto il sopracciglio sinistro; e poi gli occhi sembravano usciti dall’orbita, il destro pesto e incassato verso l’interno”.
Questo lo sfogo di Lucia Uva sulle accuse a suo carico: “Ho ricevuto l’avviso di garanzia, sono indagata solo perché ho detto la verità, ma supereremo anche questo.Continuo a portare avanti la mia battaglia e a chiedere che venga riaperto il caso per fare chiarezza su quanto successo quella notte”.
Sotto accusa è ora finito anche il film-documentario “Nei secoli fedeli- Il caso Giuseppe Uva”, realizzato da Adriano Chiarelli e Francesco Menghini e proiettato in questi giorni a Roma al centro sociale Auroemarco di Spinaceto. Nella querela per diffamazione si sostiene che i due autori del filmato avrebbero leso il prestigio e la reputazione dei carabinieri autori dell’arresto di Uva. I legali dei querelanti hanno richiesto non solo il sequestro probatorio del documentario, considerato corpo del reato, ma anche quello preventivo del filmato su tutto il territorio nazionale.
Chiarelli e Menghini si difendono, ma soprattutto fanno scudo per proteggere la loro opera. Ecco quanto detto dall’autore Chiarelli: “Usano la parola allusione come se il nostro film fosse di per sé un processo. Noi ci siamo invece limitati a tradurre in immagini le parole e le descrizioni riportate nel processo. Compresi i nomi e le diverse testimonianze, a cominciare da Lucia Uva e l’amico Alberto Biggioggero che condivise l’ultima notte dentro la caserma di Varese dove furono condotti per schiamazzi”.
Per la morte di Giuseppe Uva, davanti ai giudici sono arrivati tre medici: Matteo Catenazzi, che intervenne in caserma, prosciolto nel 2010 ma la cui posizione è tornata in udienza preliminare dopo il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura; Enrica Finazzi, la dottoressa che parlò per un’ora con Uva, alla quale lo stesso avrebbe raccontato di essere stato picchiato dai carabinieri (l’udienza preliminare si celebrerà in ottobre); lo psichiatra Carlo Fraticelli, assolto dall’accusa di omicidio colposo per aver somministrato al paziente farmaci incompatibili con il suo stato di ubriachezza, dosi eccessive di ansiolitici e di calmanti.Quest’ultima assoluzione è stata comunque una vittoria per la sorella di Giuseppe, perché il giudice per l’udienza preliminare ha ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero con riferimento agli accadimenti occorsi tra il fermo e l’ingresso in pronto soccorso di Giuseppe. In questo modo, forse, la strada verso la verità e la giustizia diventerà meno tortuosa, meno di quanto fin’ora lo sia stata.
Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono molto chiare:
“Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tutt’ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio”.
Il pubblico ministero titolare delle indagini, dott. Agostino Abate, è stato criticato più volte dalla stessa Lucia Uva per il suo operato nell’ambito delle indagini sulla morte del fratello. Ma il magistrato sostiene che Giuseppe Uva non ha subito pestaggi e che in ogni caso le ferite riscontrate sul suo corpo sono irrilevanti come causa di morte e che all’autopsia aveva partecipato anche il medico legale della famiglia Uva senza però riscontrare anomalie (circostanza sempre contestata dal Lucia Uva). Per quanto riguarda, invece, le macchie che si possono vedere anche nelle fotografie del cadavere di Giuseppe Uva, il pubblico ministero sostiene che non sono dovute a botte, trattandosi di macchie ipostatiche causate dalla posizione del cadavere, e che non esistono sul corpo macchie di sperma (che in un primo momento avevano fatto temere anche una possibile violenza sessuale ai danni di Giuseppe) ma solo di sangue dovute ad emorroidi.
Nel dicembre 2011 il Tribunale di Varese ha disposto la riesumazione del cadavere di Giuseppe per cercare di capire meglio le cause del suo decesso. La perizia compiuta sul corpo confermerebbe che la colpa del decesso di Giuseppe Uva non è dei medici che lo hanno preso in cura, smentendo quindi l’impianto accusatorio della Procura di Varese. Secondo Fabio Anselmo, legale della famiglia, sulla base del risultato della perizia effettuata dopo la riesumazione del cadavere, Giuseppe Uva soffriva di una malformazione cardiaca (la prolasso valvola mitralica) di per sè innocua, ma diventata letale a causa dello stress subito durante la notte trascorsa nella caserma dei carabinieri di Varese. La morte sarebbe dovuta, dunque, ad una serie di concause tra cui una forte intossicazione etilica, misure di contenzione fisica, misure traumatiche di contenimento auto o etero prodotte, ecchimosi a carico di capo, volto , braccio destro e mano destra, prodotte dall’urto con uno e più corpi contundenti e plurime escoriazioni. Viene confermata anche l’assenza di macchie di sperma.
Lucia Uva ha anche chiesto, senza ottenerlo, di spostare il processo in un altro tribunale per l’inerzia delle indagini. Cosi scrive l’avvocato Fabio Anselmo: “Nonostante precisa ordinanza del giudice di Varese il PM non effettua indagini su quanto accadde quella notte a Giuseppe Uva all’interno della caserma dei carabinieri. A fine 2012 viene inoltrata dai difensori di Lucia istanza di avocazione al procuratore generale di Milano e ciò in considerazione dell’inerzia della Procura di Varese ma proprio perchè il pubblico ministero Agostino Abate ha inserito nel fascicolo delle indagini la querela per diffamazione a carico di Lucia Uva, il fascicolo sulla morte del fratello non risultano formalmente più inerte”.
Lucia Uva in questa battaglia per la verità e la giustizia non è stata lasciata sola. Ha aperto un sito (www.giuseppeuva.it) e ha avuto accanto, oltre all’avvocato Fabio Anselmo, altre donne forti. Ilaria Cucchi (sorella di Stefano Cucchi), Patrizia Moretti (mamma di Federico Aldrovandi) e Domenica Ferrulli (figlia di Michele Ferrulli, morto a Milano dopo un fermo).
Donne unite da un dolore straziante, ma anche nell’incredibile determinazione guidata da quel coraggio che forse solo sorelle, mamme e figlie possono avere.
Donne che con caparbietà ma anche senso della giustizia – e, nonostante tutto, fiducia nello Stato – stanno portando avanti una battaglia che va oltre la storia tragica dei propri cari, e che deve scuotere le coscienze di tutti.