La valenza probatoria delle conclusioni tratte dal consulente del PM e dal consulente tecnico della difesa

COMMENTO A CASS. PEN., SEZ. III, 29 MAGGIO 2020, N. 16458

di Eleonora Borroni

xsxs66_nPremessa. Il nostro sistema penale -ormai dall’entrata in vigore, nel 1988, dell’odierno Codice Vassalli- segue un’impostazione prevalentemente accusatoria del processo, in netta cesura con l’afflato inquisitorio del previgente codice del 1930. Caratteristica distintiva di questo impianto è la garanzia (almeno tendenziale) di una dialettica paritaria fra le parti, in attuazione al principio di parità delle armi sancito dall’art. 111, comma 2 Cost. e assunto a garanzia di “giusto processo” anche dall’art. 6 della CEDU.

Altrimenti detto, tutte le parti del processo devono poter provvedere alla raccolta delle prove e contribuire in egual misura alla formazione della decisione del giudice, partecipando -in definitiva- alla ricostruzione della c.d. verità processuale.

Proprio sotto questo profilo, l’attenzione della dottrina penalistica è stata “scossa” dalle statuizioni contenute in una recente pronuncia della III Sezione della Corte di Cassazione penale (Sez. III, 18 febbraio 2020 (dep. 29 maggio 2020), n, 16458) circa il valore probatorio della consulenza tecnica espletata per conto del PM e della difesa.

 

Il caso. La vicenda di merito riguarda un abuso edilizio perpetrato nella ricostruzione e demolizione di un manufatto rurale collocato in una zona paesaggisticamente vincolata. L’imputata veniva accusata di aver realizzato una “nuova costruzione” non autorizzata, risultando, all’esito dell’intervento, un edificio con importanti difformità strutturali rispetto dall’opera originale; per contro, la difesa collocava le modifiche fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” per cui era stato regolarmente ottenuto il rilascio di premesso a costruire ad opera del Comune competente. 

A supporto della diversa qualificazione giuridica dell’intervento, accusa e difesa producevano ciascuna la propria consulenza tecnica. 

Dopo due pronunce a favore della tesi accusatoria, l’imputata ricorreva in Cassazione adducendo, fra gli altri, un vizio di motivazione, fondato sulla considerazione che la consulenza del PM fosse stata “apoditticamente preferita” senza alcun accertamento tecnico che ne avvalorasse le risultanze a dispetto di quelle prodotte dalla difesa. 

Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte, oltre ad osservare la carenza di adeguate controargomentazioni tecniche da parte della difesa, si è addentrata nell’enunciazione di un principio quantomai ardito. Secondo la Corte, infatti, “le conclusioni tratte dal consulente del PM […], pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle del consulente tecnico della difesa”, ovvero dotate di “una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti in giudizio”. 

 

Gli argomenti della Corte. A sostegno del principio di sostanziale priorità della consulenza del PM, che già da solo basta a sollevare le più aspre critiche, si adduce un apparato argomentativo censurabile in più punti. 

Prima nota di demerito è l’uso inappropriato del lessico codicistico. La Corte si riferisce più volte alla prova tecnica prodotta dal PM -anziché in termini di “consulenza tecnica”- come “perizia”, nozione che, invece, designa la sola attività dell’esperto nominato dal giudice. 

Questa sovrapposizione concettuale non può dirsi “neutra” poichè nemmeno l’utilizzo di due termini distinti nel codice lo è: le valutazioni tecnico-scientifiche introdotte nel processo assumono una denominazione ed un valore probatorio diverso a seconda che a darne impulso sia stata la scelta imparziale del giudice o quella “interessata” delle parti, pubblica e privata, che, in quanto tali, seguono una specifica tesi ricostruttiva. 

Dunque, parlando di “perizia disposta dal PM”, la Corte non solo, compie una grossolana violazione del dato normativo di cui all’art. 225 c.p.p. che riconosce alle parti eguale facoltà di nominare dei propri consulenti tecnici; ma avvalora altresì un pericoloso accostamento del ruolo processuale del Pubblico Ministero alla figura del giudice, in una sorta di “passo all’indietro” al sistema inquisitorio. 

Nel prosieguo della sentenza -benché il linguaggio venga corretto- questa assimilazione diviene ancor più esplicita: si legge, infatti, a chiare lettere che l’operato del PM, e di riflesso quello del suo consulente tecnico, vadano ascritti all’esercizio di “attività di natura giurisdizionale”. Un’affermazione di tal tenore potrebbe salvarsi se riferita alla partecipazione del PM, nell’esercizio delle sue funzioni di magistrato, alla potestà pubblica di “vegliare all’osservanza della legge e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia”, come prescrive l’art. 73 ord. giud.; ma, di fatto, la sentenza si riporta al momento strettamente processuale (“[…]pur nell’ambito della dialettica processuale”). E qui non c’è dubbio: nel processo, il PM non si trova nella condizione di imparzialità necessaria all’esercizio di una “funzione giurisdizionale”.

Lo sviluppo della sentenza è, inoltre, intriso di salti logici e la Corte cade in continue contraddizioni, prima riconoscendo e poi negando al pubblico ministero il ruolo di parte. 

In proposito, si fa leva sul disposto dell’art. 358 c.p.p., peraltro unico appiglio giuridico richiamato nella sentenza. La norma in questione statuisce il diritto/dovere del PM, in fase di indagine, di “svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”: è interpretazione consolidata che da questa previsione si debba desumere il solo obbligo alla completezza delle indagini, per cui l’accusa, al fine di evitare azioni penali infondate o superflue, deve provvedere a ricercare anche eventuali elementi a discarico dell’imputato. 

Al contrario, la Cassazione, richiamando un precedente conforme della Seconda Sezione (sent. 42937/2014), vi ricava una presunzione di assoluta attendibilità delle prove fornite dal PM (unitamente al suo ausiliario) “che ha come proprio obiettivo quello della ricerca della verità”, quasi a mettere in dubbio che stesso obiettivo possa essere perseguito anche dalla controparte privata.

 

In conclusione, quello affermato dalla Corte è un principio che va rigettato per intero in quanto rischia di alterare la distribuzione dei ruoli e di poteri prevista dal modello accusatorio, legittimando spinte “antisistema” (non di rado) ospitate nelle aule giudiziarie.

 

BIBLIOGRAFIA:

-BERGAMASCHI G., La parità delle parti e quel minus habens del consulente dell’imputato, in Il penalista, via Dejure, 2020;

-CONSO G., GREVI V., BARGIS M., Compendio di procedura penale, VIII ed.;

-FILIPPI L., L’ultima eresia sui consulenti tecnici: parità in costituzione e in convenzione ma disparità in Cassazione, in Il penalista, via Dejure, 2020;

-MARANDOLA A., Una sentenza in contrasto con i principi del “giusto processo” e la parità delle armi, in Il penalista, via Dejure, 2020;

-KOSTORIS R. E., Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del resposto del consulente tecnico dell’accusa, in Sistema penale, 2020.

 

CLICCA QUI PER LEGGERE L’ARTICOLO DI JESSICA DI BIASE dal titolo “Svista o lapsus freudiano? Per la Cassazione le conclusioni del consulente tecnico del PM hanno maggiore attendibilità”

 

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